Si è vero. Mi sono un po’ intrippato sulla solitudine. Ma non è tutto merito(?) mio: il vagabondare dei miei pensieri giornalieri finisce per condurmi molto spesso verso i miei amici; a quelli, che per mia fortuna ancora mi accompagnano nella vita, posso telefonare, inviare un messaggio; oppure posso invitarli a prendere un caffé, parlare con loro delle nostre idee e dei nostri stati d’animo. Ma quando nella mia mente incontro quelli che ci hanno lasciato, non posso far altro che rifugiarmi sul ricordo dei loro sorrisi, delle loro parole, delle magnifiche ore trascorse con loro, delle emozioni che ci hanno tenuti insieme; così una decina di giorni fa pensando a Mariano e alle nostre chiacchiere sulla lettura e sulla scrittura sono andato a rileggere il suo post sul portico delle idee
Ed ho ripreso in mano il libro di cui parla e da lì l’idea di avventurarmi in questa richiesta di parlare della solitudine. Se fosse ancora con noi avrei chiesto il suo parere a riguardo; mi avrebbe detto come sempre sì, ma dal suo modo di modularlo avrei capito se fosse stato veramente d’accordo. Invece ho dovuto decidere da solo! Ecco scrivo questo per invitarti a leggere sia il post di Mariano sia il libro di Michele Ainis
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Quella del medico è una delle professioni maggiormente circondata da un’ aura di prestigio sociale e che, più della maggior parte delle altre occupazioni lavorative, genera rispetto e, perché no, un certo timore riverenziale nella popolazione dei pazienti e/o in quella potenzialmente tale. Quindi, praticamente nella grande maggioranza della popolazione.
A questo si aggiunga una gratificazione economica che, bene o male e a chi più a chi meno, è appagante per la grande maggioranza degli operatori sanitari.
Un altro aspetto altamente gratificante è la convinzione (a volte “illusione”), da parte del medico, di potersi inserire nel percorso esistenziale di un’ altra persona modificandolo al meglio, eliminando o almeno smussando gli aspetti spigolosi generati dalle inevitabili problematiche di malattia con cui, prima o poi, ciascun essere vivente dovrà confrontarsi.
Cosa si chiede ad un medico? A parte l’indispensabile competenza tecnico professionale, l’ elemento chiave del rapporto medico paziente è la capacità di ascolto da parte del primo. Che non è solo la banale “interrogazione” o raccolta anamnestica, ma è la capacità di stabilire un rapporto bidirezionale di informazioni e, perché no, soprattutto di emozioni, nel senso più ampio del termine. In ultima analisi, la capacità di stabilire un rapporto profondamente empatico dove ognuno degli attori finirà col sentirsi a proprio agio, condividendo con l’ altro la piacevole sensazione di NON ESSERE SOLI! Anche e soprattutto nella sofferenza.
Questo dovrebbe essere il compito fondamentale del medico. Quello di saper guidare il paziente (e i familiari), “a braccetto”, attraverso il percorso di malattia verso l’ esito finale, qualunque esso sia, dalla guarigione all’ exitus.
Con queste premesse, la professione del medico e la SOLITUDINE sembrerebbero termini antitetici. Invece non lo sono affatto. Anzi. Spesso il medico, soprattutto all’ interno della sanità territoriale, tende a rinchiudersi in una dimensione di solitudine individualistica e culturale con un vero e proprio isolamento fisico e relazionale rispetto al resto della comunità tecnico-scientifica. SOLO, sotto il peso delle richieste di aiuto della popolazione dei pazienti e di un carico burocratico che diviene sempre più oppressivo e frustrante. Condizione che solo in parte viene attenuata dalla “dimensione social” che, per sua natura, è, oltre che virtuale, necessariamente supeficiale. Incapace, pertanto, di collegare la banale informazione al fondamentale valore delle emozioni, del coinvolgimento, dell’ empatia, unici antidoti alla SOLITUDINE.
E che dire del medico inserito in una struttura sanitaria, pubblica o privata. In tal caso il concetto di solitudine dovrebbe essere quanto di più lontano da una condizione lavorativa che dovrebbe prevedere un “gruppo di lavoro”, meglio se interdisciplinare, con il paziente al centro. Purtroppo questa modalità lavorativa è resa sempre più una chimera dal peso delle sempre più ossessive incombenze burocratico-amministrative che gravano sulle spalle degli operatori sanitari, distogliendoli dall’ ascolto, dall’ approccio clinico e, soprattutto, dal confronto interdisciplinare che è la vera chiave di volta di un intervento sanitario. In alcune discipline in particolare. A questo si aggiunga la sempre crescente preoccupazione per le eventuali conseguenze medico legali di scelte sanitarie strategiche, anche se effettuate in perfetta buona fede e con sufficiente competenza.
Tutto questo ed altro ancora pone la condizione del medico in una condizione di vera e propria SOLITUDINE, psichica e spesso anche fisica (ogni operatore nel suo “studiolo”) aggravata da una dolorosa frustrazione per non essere all’ altezza delle aspettative del paziente e della comunità di appartenenza. Ciò è sempre più vero in una situazione, quale è quella italiana, dove mancano almeno 20000 medici e 70000 infermieri ! E ancora continuiamo con i numeri chiusi !
L’ ultima e forse più drammatica condizione di SOLITUDINE è quella del medico che, nel corso della vita, può essere costretto a confrontarsi con l’ esperienza di una grave malattia. In questa fase Dio è nudo. Non ci sono alibi. Non ci sono sotterfugi Non ci sono strade “consolatorie”. Il medico conosce il percorso della sua patologia, le eventuali e spiacevoli complicanze delle terapie, il possibile, spesso inevitabile esito del decorso. E’ come se qualcuno rimuovesse la barriera, la saracinesca che l’ essere umano, unico animale cosciente del fatto che esiste una fine chiamata morte, pone fra sé e tale certezza, allontanando l’ angoscia della consapevoleza della finitezza del cammino di vita. In tale circostanza, il medico paga a caro prezzo tutti i privilegi i benefici ed i vantaggi che la sua professione, come abbiamo detto prima, gli ha riservato. E sperimenta la reale SOLITUDINE ESISTENZIALE, solo attenuata dal supporto familiare e amicale oppure, nei casi più fortunati, da un cammino di FEDE che, alla fine dei conti, rimane l’ unica arma, l’ unico farmaco capace di contrastare questa drammatica esperienza di “reale” solitudine. Per la fortuna di chi questa arma la possiede.
Elvira Coppola Amabile:Un vuoto invisibile
Carlo chiede di scrivere qualcosa sulla solitudine. Premetto che non mi sento mai sola e non sto mai male se sto isolata, anche se amo moltissimo la gente e sono molto vivace affettuosa e comunicativa. Tuttavia questa richiesta mi induce a riflettere. Cerco uno spiazzo nella mia immaginazione dove costruire le mie riflessioni.
La solitudine è un prisma. Non uno stato fisico né uno stato mentale né un sentimento. La solitudine è un vuoto che non riesci a vedere. Se non lo vedi non lo puoi riempire. Non lo puoi riempire! Questa incapacità é la percezione della solitudine. Legata a un dolore. Legata a una scelta. Legata a un ricordo. Legata a un privilegio di cui solo tu hai l’esclusiva. Legata a una gioia che non vuoi condividere.
La solitudine. Un prisma con tante facce. Una sola riflette la luce se colpita. In quel momento ti fermi e osservi. La lontananza ti isola da qualcosa che possiedi o che hai posseduto. La privazione ti relega in una piccola desolazione. Un luogo una persona un affetto un suono un odore… Vado con la memoria a raccogliere questi frammenti.
Petali lievi che lasciano una traccia sonora. Un’ eco ti coglie e sei lì. Solo. Quando? Il suono è forte e dolente. Fa male? Cerchi di ignorarlo addolcirlo. Il pudore mi blocca ma posso raccontare di quando ho capito che i miei genitori non mi potevano assecondare a realizzare i miei sogni. Un tuffo nel buio!! Ero sola. I miei desideri congelati. Inaccessibili per sempre forse…. Inerme… Sola…
La città eterna mi ha accolta fascinosa e generosa. Ero sposa mentre i miei monti si azzurravano di oblio. Come quella marina bagnata di gioventù e salsedine.Tornavo e ritrovavo tutto e mi accorgevo di avere le guance rigate di lacrime. La lontananza non ne aveva mai sbiadito l’appartenenza violenta come una passione mai estinta. Ritrovavo il canto lento dell’idioma parlato dalla mia gente. Risentivo gli odori e un senso di abbandono mi colpiva implacabile. Era tutto mio ma io non ero più loro. Non appartenevo piú a quel divenire. Divenivo altrove. Ho tentato di restituirmi alla mia città. Con l’impegno politico. Con il lavoro. Con l’amore per i miei che restavano ancora lì. Con i legami d’amicizie. Con la partecipazione sporadica ai fatti della città. Compatibilmente con gli impegni di famiglia. Tutto cambia. Tanti spariscono. I respiri restano. Fermi come statue nel vento.
Ricordo i libri di Wilburg Smith che leggevamo regolarmente durante l’estate. C’era spesso un giovane africano costretto ad abbandonare la sua terra. Ricordo che ne metteva un mucchietto in un sacchetto e se lo legava al collo senza mai staccarsene. Era ingenuo ma ogni tanto ho pensato di fare lo stesso. Un’usanza tribale che la parte selvaggia della mia natura non avrebbe disdegnato.
Sono un’esperta subacquea. Una volta in Indonesia per una serie di disattenzioni che non sto a riferire mi staccai dal gruppo e fui trascinata da una corrente violentissima. Restai isolata in mezzo al mare per oltre due ore. Solitudine totale implacabile pericolosa. Tutto era lontanissimo! Non ho avuto paura. Allora! Mi ritrovarono. Mi salvarono. La paura l’ho avuta dopo. Ora se ci penso. In quel momento mi organizzai per raggiungere un’isoletta a circa un miglio. Divenni fredda e insensibile. Surreale! Entrai nel mito. Ero una sirena. Le sirene di tutti i mari mi sorreggevano e spingevano contro corrente verso la riva. La solitudine di una distesa di mare infinita mi consacrava alla lontananza. Non ne ero prigioniera ma padrona.
Troppo intime queste confidenze? Parlare delle proprie emozioni è come sospendere l’anima in uno spazio aperto. Un viaggio senza ritorno.
Francesco Puccio: L’isola della solitudine
Mia madre mi insegnò come attraversare il mare senza timore. Ricordo,da ragazzino, un’ estate e un bagno di fine stagione. Gli amici erano già corsi via, tornati nelle loro case in paese, ed io non trovai nessuno ad aspettarmi sulla spiaggia. Ci rimasi male all’inizio, ma poi quella sensazione di solitudine mi piacque.
Mi svestii e mi tuffai. Il corpo si lasciò andare e cominciai a nuotare verso l’orizzonte, senza una meta né un tempo di arrivo. Non mi importava dove sarei finito né quando sarei tornato. Poi mi girai e, stando a galla sulla schiena, mi si stagliò la vegetazione colorata che ricopriva la roccia dell’isola, i ciuffi di macchia, che dalle fessure si proiettvano a picco sul mare.
Nuotai senza chiudere gli occhi, come i pesci. Volevo essere uno di loro.
Avvolti nelle nostre reciproche solitudini, temevamo di scoprire un mondo diverso da quello che avevamo lasciato, in un’altra stagione, in un tempo che ci sembrava ormai lontano, benché bastasse voltarsi indietro e riconoscerlo senza fatica. Non fummo in grado, per un certo tempo, di parlare a quella parte di noi che avevamo in comune, come se si fosse inabissata in un fondo al quale sarebbero arrivate le voce di andata, ma da dove non ne sarebbe riemersa nessuna di ritorno.
dal libro “Il posto degli assenti”
Sulla solitudine
Invito a scriverne
Ho una forte idiosincrasia nei confronti della lingua anglo-americana e se qualcuno vuol saperne il perché può leggerne i motivi qui sul blog nel seguente post. www.porticando.eu/blog/inglese
Ma, come diceva qualcuno, a volte è necessario volare basso al livello di “Ok, tank you” per cui ora che mi è venuto il desiderio e l’idea di scrivere sulla solitudine e di invitare te che ora stai leggendo a farlo, può essere comodo ricorrere alla semplificazione loneliness · solitude che spacca il concetto in due separandone in maniera forzata l’aspetto doloroso dall’aspetto piacevole.
La solitudine, a volte vestita da Arlecchino a volta da Pulcinella, chiara come una giornata di sole o grigia come le nuvole, creativa o accidiosa sempre fa capolino nella nostra vita come amica fedele o come dispettosa e importuna compagna di strada e spesso contemporaneamente l’una e l’altra.
Si annida mesta nei like e nel caotico e chiassosso peregrinare della folla virtuale di FB, la trovi frizzante o malinconica nel lavoro, ti fa da calda confidente mentre scorri le pagine di un buon libro, ti parla di te stesso nelle notti stellate, ti è vicina timorosa o adrenalinica nell’attesa, ti permette di isolarti dagli insopportabili rumori di questo mondo, ti circonda nei momenti di delusione o di incomprensione, può essere un torrente impetuoso o un placido fiume o un lago melmoso, può essere fredda e triste anche se elegante come nell’uomo del Vecchio frac di Modugno o un fiore come nella canzone di Sergio Endrigo, può indurre all’invidia e all’avarizia oppure all’empatia e alla generosità, può accarezzarti o procurarti dei lividi.Può essere un blues o un canto gregoriano.
Una cosa è certa: scrivere ti farà sempre stare in compagnia con la parte più dolce di te stesso.
Fallo anche tu. Ne sarò lieto.
Nel frattempo se ti va ecco un po’ di musica per tenerti compagnia
Giorgio GaberLa solitudine
Leo Ferré Avec le temps
Gilbert O’ Sullivan Alone Again
Nei prossimi giorni troverai qui i contributi sulla solitudine di amici ed amiche .
Fratellino
“Ho ascoltato il Papa da Fazio. Sono abbastanza indifferente al diritto di autore e non ho remore a leggere libri digitali gratuitamente, ma “Fratellino” il libro di cui ha parlato Francesco, lo ho comprato ed ho iniziato a leggerlo. Un piccolissimo lenimento per la mia mente contro la sensazione di impotenza che provo di fronte alle immani tragedie di questo mondo.“
Questo avevo scritto ieri notte. Stamattina lo ho letto tutto: le traversie di Ibrahima un ragazzo guineano che parte alla ricerca del suo fratellino, attraversa deserti di sabbia e desolati ed aridi sentieri mentali, fino ad imbarcarsi su un gommone per la Spagna dopo anni segnati dalle torture, dalla fame, dallo sfruttamento, dalla disumanità dei trafficanti di anime e dalla solidarietà dei disperati suoi simili. Potremmo parlare anche di un drammatico percorso di formazione. Ibrahima partito con una sorta di forzato ottimismo giovanile alla ricerca di Alhassane diventerà uomo attraversando il vuoto del Malì, l’inferno della Libia, la dura e clandestina vita di straniero nelle terre dell’Algeria e del Marocco pagati dall’Europa per reprimere e dove, come spesso accade, a salvarlo dalla brutalità dello stato,dai commercianti di anime e dagli approfittatori della misera, è l’incontro con i suoi simili. Ma il libro non è solo questo; due ore di pagine nelle quali fra fili spinati, repressioni poliziesche, minacce di morte traspare la profonda umanità e direi saggezza degli ultimi. Riporto qui alcune frase dettate da Ibrahima, analfabeta, a chi ha messo su carta il suo racconto.
“Tu sei in un angolo, seduto per terra, o sdraiato. Il terreno è di sabbia e una volta al giorno passano con una pentola. Tu devi allungare il braccio e aprire bene la mano, così, perché ti buttano il cibo come ai cani. Ma a volte il cibo è bollente e ti brucia la carne della mano. Allora lo lasci cadere per terra e resti senza mangiare. Domani passeranno di nuovo, alla stessa ora, allo stesso modo.” ….
“Per lavorare nel commercio è molto importante avere un cuore piccolo. Questo non è un difetto, è una virtù, ma non tutti possono farlo. Forse poco a poco si impara, non lo so, io non ci ho mai provato.” ….
“Abbiamo passato tutta la notte alla deriva, in mezzo al mare. La gente ha iniziato a piangere, soprattutto le donne, ma non solo loro, anche il capitano. Era senegalese. Io non so chi l’ha nominato capo della spedizione. Aveva detto che conosceva il mare, ma un capitano ha bisogno di più forza nel cuore, deve dimostrare che è il più coraggioso, invece quello piangeva come un bambino. Così è difficile arrivare in Europa. Io ho cercato di legare le ali al mio spirito, di non pensare più, ma non era facile. Vedevo il viso di mia madre davanti ai miei occhi. E pensavo: “Alhassane sarà partito in una notte come questa”. Il mare è molto vasto, come la notte. Ma la notte, se aspetti un po’, ti lascia su una riva, e allora è giorno, viene la luce. Si vede di nuovo tutta la vastità del mare, e pensi, impossible.”
Gioventù circolare
di Enzo De Leo
I ricordi della nostra giovinezza – quando ormai questa fase della nostra vita è passata da tempo – sono avvolti da un alone di nostalgia che, talvolta, induce a deformare un po’ la realtà. Tendiamo, ad esempio, spesso a pensare, come dice Guccini che “eran belli i nostri tempi”. I fatti, le atmosfere, i luoghi, le passioni di quelli che furono giovani con noi ci appaiono tutt’altra cosa rispetto a quelli di oggi. E’ una tendenza a cui non sfuggono quasi tutti gli anziani di ogni epoca. Ma è proprio così?
Difficile naturalmente dare una risposta univoca. Le condizioni di vita – non solo materiali – dei giovani di alcune epoche è stata certamente migliore di quella di altri periodi. Per non parlare dei destini individuali a volte particolarmente sfortunati, a volte caratterizzati da una sempre relativa serenità.
L’articolo di Carlo sul circolo di “Fonz ‘u vasc” ha fatto nascere in me uno di quei momenti di nostalgia ( nostalgia del circolo di “Fonz ‘u vasc” ?! ) inducendomi a una riflessione con incerte pretese di oggettività. Ho pensato che se anche un circolo finalizzato al gioco delle carte, e spesso al gioco d’azzardo, divenne di fatto un luogo di aggregazione di giovani che condividevano qualcosa in più della passione/vizio del gioco non è stato tanto merito né del gestore né dei giovani. E’ stato invece, a mio avviso, il risultato di quella che era l’atmosfera di un’epoca. Un’epoca in cui i giovani tendevano naturalmente ad aggregarsi, a costruire spazi condivisi, a essere attratti verso quelle realtà in cui l’aggregazione era già avvenuta. (Naturalmente esistono anche adesso realtà in cui tanti ragazzi si ritrovano. Ma non costituiscono più un elemento che caratterizza la nostra epoca).
Provo a nominare alcune di quelle realtà che, qui a Cava, tra gli anni 1960 e 1970, furono molto presenti e vivaci e, soprattutto, molto frequentate.
C’erano, dunque, le associazioni che aderivano all’azione cattolica o comunque cattoliche (la S. Francesco, l’Antoniana, la Pippo Buono, gli scouts e, per gli universitari, la FUCI ), il Tennis Club – non proprio un circolo giovanile ma con una larghissima rappresentanza di giovani – , il Club Universitario Cavese, la sezione Gramsci del PCI, le associazioni che gestivano radio libere, e poi la IV Internazionale, il collettivo “donne in rivolta”….
C’è stato anche, per un certo periodo – 1968/69 –, il Gruppo 3, costituito da giovani che condividevano un’ideologia all’incrocio tra la cultura hippy e quella della sinistra radicale. L’offerta aggregativa, per così dire, era estremamente ampia e variegata. Le diverse associazioni, infatti, avevano identità abbastanza ben definite: diverse associazioni cattoliche, il Club universitario cavese che ben rappresentava quella che era stata una cultura molto diffusa in Italia dal dopoguerra in poi e cioè la goliardia, il Tennis, circolo più esclusivo e principale espressione della borghesia cavese, e poi associazioni o partiti di sinistra storica o radicale ( ma anche estrema destra ), circoli giovanili come la Sad, il Beat Club, il Ragno Rosso ecc..
La presenza di queste realtà rendeva, sotto un certo aspetto, la vita dei giovani un po’ ( o tanto ) diversa da quella dei loro coetanei di oggi. Intanto perché si poteva uscire tutte le sere sapendo sempre dove andare trovando altri ragazzi con cui si chiacchierava, si giocava a carte, a calcetto, a pallacanestro, a tennis e così via. Ma anche perché la presenza di queste associazioni favoriva una progettualità condivisa e uno scambio vivace non solo all’interno delle singole realtà ma anche, a volte, nella contrapposizione tra esse.
Mi fermo. Si potrebbe continuare. Raccontare per esempio della vita quotidiana all’interno di queste associazioni, dell’azione dirompente che la rivolta studentesca del 1968 ebbe su di esse (non dissimile peraltro da quanto accadde nel resto d’Italia ) e tanto altro. Siccome però i protagonisti di quell’epoca son in maggioranza ancora vivi, spero che queste poche righe possano servire da introduzione a osservazioni, ricordi, analisi e quant’altro contribuisca ad arricchire la memoria del nostro passato.
Penso di essere in un blog dove molti mi conoscono e comunque mi presento: sono Benedetto di Pertosa amico di ” zi Carluccio” ( mi piace chiamarlo cosi!…) da almeno mezzo secolo.. Carlo trascorreva almeno una quindicina di giorni al paese dei suoi genitori l’estate alla fine degli studi… A fine anni 60 ( per quello che mi ricordo..) iniziò questa sua frequentazione al Muraglione la contrada in prossimità delle grotte dove la mia famiglia aveva un piccolo alberghetto.
Agli inizi del 2000 Carlo e Rosaria mi fecero conoscere i loro giovani e meno giovani amici con i quali io, mia moglie Carmela e mia figlia Antonia legammo subito tanto è vero che per diversi anni in molte occasioni furono ospiti alla pari nel ristorante-albergo per intere giornate e spesso nottate, a volte anche accompagnati dalle loro signore. Per me fu facile amarli: un sacco di risate, gustose mangiate insieme, lunghe e stimolanti discussioni sui massimi e sui minimi sistemi, cavatelli e vino in abbodanza, musica e divertenti racconti e poi il loro prezioso aiuto nelle giornate di lunedi in albis e ferragosto quando facevano da provetti camerieri, lavapiatti e uomini di pulizia. La vita ci sorrideva allora e alla grande!… Di ricordi ne ho una miriade…ci siamo frequentati fino ad aprile 2011 mese in cui ho abbandonato Pertosa… Se penso a Carlo: davanti i miei occhi appaiono vivide le immagini di quanti mi sono stati Pertosani d’adozione in quel decennio: i nipoti di Carlo: Raffaele(🙏) e Armando, Marcello, Ermeneziano, Enzo Lampis, Roberto e Vincenzo De Leo , Sandro, Salvatore il greco, Giuseppe il farmacista, Enzo il pescatore fortunato, Mario il giocatore di pallone goleador in una sfida a calcetto con i ragazzi di Pertosa e poi Enzo Senatore, Ivan e tanti altri ancora. Con tutti ho trascorso ore indimenticabili. Ora però voglio raccontarvi un episodio degli anni precedenti quando erano i familiari di Carlo a frequentare l’albergo Cafaro… Sarà stato il 68/69 ed in quel periodo il ristorante era il luogo di ritrovo dei giovani pertosani. Carlo venne per qualche giorno con il cognato Matteo ( ora se non erro vive a Sondrio..) Matteo: solare,loquace, empatico si integro’ subito con noi del Muraglione… All’epoca fra di noi quando nei ragionamenti una persona si dimostrava caparbia e ottusa si era solito dire : “Tu ragioni a livello di “Sciartone“ I soprannomi nei paesi avevano una logica certa. Sciartone era l’unico pecoraro rimasto; aveva una sessantina d’anni e un aspetto trasandato e rude… Ogni tanto veniva al bar-tabacchi del ristorante per comprare le sigarette. Probabilmente aveva le pecore al pascolo nei terreni vicino…. Matteo era da una decina di giorni con noi e aveva interiorizzato la frase che ricorreva spesso nei nostri discorsi pertosani e imparò presto a pronunciare la frase “Ragioni a livello di Sciartone” nelle chiacchierate che non mancavano mai nelle dolci serate dell’estate pertosana. Matteo non conosceva Sciartone ma caso volle che i due una mattina si trovassero davanti al bar ognuno ignaro di chi fosse l’altro. Per puro caso intavolarono un ragionamento… Non passarono 10 minuti che Matteo di fronte alla caparbietà del pastore ebbe a dirgli: MA VOI RAGIONATE PROPRIO A LIVELLO DI SCIARTONE!….
Non vi dico che faccia fece Sciartone né l’espressione di Matteo quando tutti noi scoppiamo in una fragorosa risata.
Una lunga ricerca e una gustosa lettura
Di Paolo Di Mauro
Negli anni ’80 trovai, tra i libri di famiglia tre volumetti de l’Almanacco Igienico Popolare del dr. Paolo Mantegazza del 1800. Incuriosito li sfoglia i e trovai indicazioni, notizie, disegni igienico sanitari che oggi fanno sorridere. Rimedi e cure anacronistici ma interessanti e pubblicità di attrezzature, macchine ed altro inconcepibili oggi. Fui anche affascinato dalla figura dell’autore che laureato in medicina e specializzato in antropologia subito dopo gli studi si recò in Sud America dove trascorse diversi anni. Fu uno dei primi italiani a propagare le teorie di Darwin. Decisi allora, affetto da sindrome Panini, che mi sarei procurato tutti i 40 almanacchi editi dal 1866 al 1905. Questa mia ricerca è durata circa vent’anni e li ho trovati tutti. Qualche mese fa ho donato l’intera raccolta al museo/biblioteca “Ca Granda” del Policlinico di Milano dove per qualche anno aveva collaborato il Mantegazza, la collezione è stata molto gradita ed apprezzata dalla dirigenza del Museo.
Naturalmente ho la copia digitale di tutto. Vi assicuro che si tratta di una piacevole, leggera, sorridente ed intrigante lettura.
Chi vuole può chiedermi la copia di qualche numero scrivendomi a paolodm14@gmail.com
A proposito del tuo pezzo sul Circolo di Fonz’ ‘O Vascio (con la zeta: in napoletano Alfonso diventa Fonzo, con indurimento della sibilante [t’aggia richiamà sempe…]), mi è venuto in mente un gustoso episodio che ti racconto in questo breve testo.
Leggendo il pezzo di Carlo dedicato a quella sorta di Paese dei Balocchi alla paesana che era il Circolo di Fonz’ ‘O Vascio mi è venuto in mente un teatrino che ha animato le nostre serate per un periodo. Siamo nella seconda metà degli anni ’70, 1976-77 più o meno. In molti di noi frequentavamo soprattutto il bigliardo, giocando, male, interminabili partite al gioco delle 15 palle (il 15-ball Pool erroneamente detto carambola). A un certo punto iniziò una rappresentazione che si protrasse per molte sere di fila e, di fatto, era diventato uno spettacolo fisso, a beneficio di tutta la combriccola non pagante. Una riproposizione pezzotta del leggendario film Lo Spaccone del 1961 (https://it.wikipedia.org/wiki/Lo_spaccone).
Ogni sera si sfidavano Mimmo Baldi Cococco, nella parte di Eddie Lo Svelto (lo Spaccone interpretato nel film dall’immenso Paul Newman) e Salvatore Senatore ‘O Chiattone, nel ruolo di Minnesota Fats. La contesa si protraeva per ore ogni sera e la posta in palio era, inizialmente, un mignon di Amaro San Marzano, acquistato presso lo stesso Fonzo. Ogni sera andava allo stesso modo: Salvatore/Minnesota Fats vinceva la prima, Mimmo/Eddie chiedeva la rivincita col raddoppio della posta in palio, Salvatore/Minnesota la concedeva e invariabilmente rivinceva. E si andava avanti così per diverse ore con la posta che raddoppiava ogni volta e Salvatore/Minnesota che le vinceva tutte. Il particolare non trascurabile della vicenda era che le bottigliette di San Marzano venivano usualmente consumate dai due prodi durante le partite. O almeno, nel mio ricordo Mimmo/Eddie le scolava tutte, con la conseguenza che alla fine della serata era sotto di molte partite, colpito nel profondo del suo orgoglio e ubriaco perso.
La serata si risolveva invariabilmente con le invettive di Mimmo/Eddie nei confronti di Salvatore/Minnesota e il proposito di rifarsi la sera successiva.
Non ricordo, ma sarà un limite della mia memoria, che questi propositi di riscossa si siano mai realizzati…