Non basta lo spietato tentativo da parte di Netanyahu di distruggere il diritto stesso dei palestinesi ad essere un popolo per farmi dimenticare le scene di migliaia e migliaia di ebrei stipati in carri bestiame e condotti al macello. Non basta la brutale occupazione di Gaza a farmi dimenticare l’immane tragedia di milioni di ebrei ed ebree di ogni età ridotti in cenere. Ma non basta il ricordo dei raccapriccianti crimini nazisti contro centinaia di migliaia di uomini colpevoli solo della loro religione e della loro appartenenza al popolo isralelitico a coprire le immagini dei corpi di donne e bambini palestinesi dilianati dalle bombe e dalle mitragliatrici. E perciò nel giorno della memoria voglio riportare questa poesia del poeta palestinese Mahmoud Darwish ma che potrebbe essere stata scritta da un poeta di qualsiasi popolo oppresso
PENSA AGLI ALTRI
Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri, non dimenticare il cibo delle colombe. Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri, non dimenticare coloro che chiedono la pace. Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri, coloro che mungono le nuvole. Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri, non dimenticare i popoli delle tende. Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri, coloro che non trovano un posto dove dormire. Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri, coloro che hanno perso il diritto di esprimersi. Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso, e di’: magari fossi una candela in mezzo al buio.
Per quel che mi riguarda, mi basterebbe riuscire ad essere un fugace fiammifero in mezzo al buio….
Francesco Accarino: la solitudine dell’avvocato
Caro Carlo, mi hai lanciato la domanda: l’avvocato è solo? Ti ho anticipato qualche riflessione e ne aggiungo altre. Nella vita professionale dell’avvocato, la solitudine non è abituale: costantemente circondati da interlocutori, con contatti e rapporti continui; specialmente in un contesto sociale come il nostro, sempre bellicoso e pretensivo. (Fortunatamente le spese iniziali per il giudizio e le condanne per la parte soccombente scoraggiano e consentono agli avvocati di dissuadere i disinvolti difensori di se stessi). La solitudine può riguardare solo momenti particolari: le strategie, le scelte, le decisioni. E questa è l’abitudine nella nostra specializzazione: si parla negli studi, fra avvocati, collaboratori; si consultano, all’esterno, colleghi stimati o che hanno trattato vicende simili. Ma non è sempre stato così: ormai il dialogo, la comunicazione, il confronto, più raro alla fine degli anni 70, è divenuto abituale. A quell’epoca gli avvocati amministrativisti erano pochissimi; poi un collega molto preparato ebbe l’idea di compattarci, di fissare appuntamenti costanti: una pizza per parlare di lavoro, di esperienze, novità legislative; partecipavano anche giovani collaboratori. Fu l’inizio di un dialogo, di un confronto costante e di sinergie professionali. Il vero momento di solitudine rimane quello della discussione orale, di una conferenza, di un intervento in un congresso importante. Lí rimani solo, perché tutto è legato alla tua prestazione, che vivi come può viverla un atleta di disciplina individuale: nell’arco della tua discussione, del tuo intervento, devi essere chiaro, sintetico, lucido, convincente e interattivo dal punto di vista logico e lessicale. Insomma è come gareggiare nei 100 m, tuffarti dal trampolino, fare una partita di tennis. Da solo, consapevole che devi sapere utilizzare le risorse che hai: argomentazioni giuridiche, ma anche logica espositiva, tecnica oratoria, suscitare e mantenere l’attenzione di chi ascolta e farti seguire. Insomma avvalerti degli elementi che possono essere spesi in favore del cliente, di quel che sostieni, della credibilità delle tue tesi.
E tornando alla condizione della solitudine, sia come stato d’animo, sia come condizione di fatto, vorrei aggiungere che può diventare un rifugio antitensione, una condizione desiderata: la possibilità di “leggere il breviario”, di seguire i pensieri, di guardare le cose da un’altra prospettiva, ascoltare il silenzio, parlare a se stessi. La solitudine, oggi, viene indicata come un problema della socialità o di disconnessione: barriera di isolamento, incomunicabilità, affetti ignorati e abbandonati, mancanza di tempo e di disponibilità anche familiare. É vero; e tutti conosciamo situazioni estreme. Gli anni che passano mi hanno insegnato che se vuoi rendere più semplici i rapporti tra persone, devi parlare, esprimerti, rivelarti. Sostanzialmente contravvenire a quelle che mi è stato insegnato in famiglia, secondo cui non bisogna chiedere, ma bisogna essere chiamati. L’esperienza suggerisce che non è così. Anche un passo del Vangelo (Matteo 7:7-11 NR94) dice: «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi bussa.” Proviamo a contrastare la solitudine patologica con un pizzico di umanità, di lealtà, di confessione, di umiltà e verità. E diciamo chiaramente: sono solo, vuoi farmi compagnia? Vuoi darmi una mano? L’interlocutore capirà e le mani si uniranno.
L’Avvocato a molla (poesia di Gianni Rodari) Conosco un avvocato. Un avvocato a molla. Nessuno può notarlo quando va tra la folla: In tram, seduto o a piedi la molla non la vedi. Eccolo in tribunale: somiglia tale e quale a cento altri avvocati col codice penale dentro la borsa nera. La Corte è assai severa, guai se si sapesse, se la molla apparisse, se scattasse. Ma finito il processo e assolto l’imputato (oppure condannato) rincasa l’avvocato e non è più lo stesso. La sua bimba lo sa dove la molla sta: hop la’, l’avvocato fa un salto, poi ne fa un altro, un terzo ne fa. E la gente che passa ridere sente così allegramente pensa: quella è la casa della felicita
Matteo Fasano: il filtro della solitudine
Scrivere sulla solitudine. Il mio primo pensiero è andato al libro e al film che hanno avuto negli scorsi anni un discreto successo: La solitudine dei numeri primi, cioè quei numeri che rimandano alla solitudine, perché numeri divisibili solo per se stessi e per uno e quindi non hanno relazioni con altri se non con se stessi e con il niente.
Devo ammettere che anche io a volte sono stato quasi ripreso di essere abbastanza solitario, nonostante avessi una vita lavorativa estremamente sociale in quanto, per la mia funzione, ero spesso a contatto con tantissima gente. C’è forse un fondo di verità: non sono mai stato molto aperto, anche se molto disponibile alle esigenze altrui, ma sono partecipe a quanto affermava la grande Alda Merini nella celebre frase “Io non ho mai amato la solitudine. Ma se stare insieme alle persone significa convivere con la falsità, preferisco starmene per conto mio.”
L’ asserzione della poetessa milanese racchiude un profondo significato, che è ancora attuale oggi. La solitudine è vista spesso come una condizione negativa, qualcosa da evitare a tutti i costi. Tuttavia, non è necessariamente qualcosa di negativo. Anzi, può essere una scelta consapevole, che ci permette di stare bene con noi stessi e con i nostri pensieri, con il nostro modus vivendi. E’ un “isolamento” scelto e non costretto, che non significa necessariamente restare soli, fuori dal mondo e dalla vita sociale . A volte si sceglie e si ha il bisogno di essere soli per accompagnarsi alle cose e alle persone più vere, più sincere. La solitudine scelta può essere un momento di riflessione e di connessione con se stessi, permettendo di dedicare del tempo alle proprie passioni, interessi e valori senza distrazioni e le influenze esterne. Restiamo più focalizzati sulle persone che condividono i nostri valori e le nostre aspirazioni. Non sto parlando di un isolamento totale. Sarebbe poco ragionevole in una società come la nostra che con la globalizzazione ci mette costantemente con i social media in contatto con tutti e con tutto il mondo. Siamo solo piu’ selettivi , cerchiamo le persone con cui ci si vuole circondare, scegliendo ciò che è più significativo per noi. Non voglio addentrarmi nella questione della solitudine dei social, complessa e controversa. Mi colpisce soprattutto il fatto che l’offerta di illusione di connessione, comparazione e interazione sociale, possono contribuire anche ad una lontananza dalla realtà che porta a volte ad eventi anche crudeli. Voglio invece riprendere quanto scritto dalla Merini riguardo alla falsità .
E per falsità qui si intenda quell’atteggiamento tanto amato dalla politica.
Qui la solitudine può essere preferibile perché ci permette di evitare l’influenza di informazioni false e di prendere decisioni basate su fatti accurati e valori personali. La solitudine, in questo caso, può permettere una riflessione indipendente e una valutazione critica delle informazioni politiche, senza essere influenzati da tentativi di manipolazione, oggi tanto di moda. Questo “defilarsi” non deve significare l’isolamento completo dalle questioni politiche. Anzi, è fondamentale rimanere informati, confrontare diverse fonti per sviluppare una visione completa e imparziale della realtà politica. E un coinvolgimento anche attivo nella società e nella politica, a partire dalla propria città, può promuovere un cambiamento positivo e contrastare le ipocrisie.
E a proposito, se qualcuno pensa che abbia scritto queste ultime battute per una mia candidatura per le prossime elezioni cittadine, ha commesso un errore… e anche grosso…
Mariarita Saggese: 1100 miglia di solitudine
9 Giugno 2020, aeroporto di Fiumicino, ho davanti agli occhi decine di file di sedie desolatamente vuote, numero di passeggeri in transito irrisorio, ovviamente in piena emergenza COVID si parte solo per urgenti necessità, e infatti fra quei pochi intrepidi ci sono anche io, mamma orfana di figli che all’estero hanno trovato lavoro e soprattutto il giusto riconoscimento per il loro impegno e le loro capacità. Mia figlia deve partorire a breve e io vado a darle una mano con l’altra bimba piccola e con la nuova che nascerà.
Questo mi sento: una mamma orfana di figli, come me tante mamme, soprattutto del sud, che hanno i loro ragazzi lontani, qualcuna piu’ fortunata a poche ore di treno da casa, a Milano o a Roma, altre come me all’estero e per somma sfortuna, in Inghilterra ai tempi della Brexit. Vorrei chiedere a chi di dovere il risarcimento morale per avermi tolto la minima forma di accudimento che si puo’ mantenere con duemila chilometri di distanza: la preparazione del “pacco da giù”.
Per gli espatriati come i miei e tanti altri figli in UK l’arrivo del “pacco da giù” era un evento da festeggiare con gli amici, ero diventata abilissima nell’incastrare e riempire ogni millimetro cubo con beni di conforto materiale e non solo: certo la pasta e il concentrato di pomodoro di marca ( si trova anche lì ma costa molto molto di più), la maglia dimenticata nelle ultime vacanze fatte in Italia ma anche un oggetto con un valore sentimentale che era rimasto dimenticato a casa e piccoli pensieri per far sentire che si continua, anche da lontano, a cercare di intuire i loro desideri e le loro necessità. Dopo la brexit la mia abilita’ di “incastatrice” si e’ riversata sulla preparazione dello zaino, con le attuali tariffe aeree per la spedizione dei bagagli e con la mia frequenza nel partire e’ diventato inevitabile! Però l’olio cilentano non posso più portarlo e neache spedirlo per i dazi introdotti dalla brexit e cosi’, a casa di mia figlia, l’olio si usa con il contagocce.
Parto spessissimo, le amiche e gli amici mi prendono in giro per questo, qualcuno si azzarda a dire: beata te che sei sempre in giro! Me li mangerei con la testa avanti!!! E’ l’unico modo per sentire un po’ meno la solitudine di chi ha due figli, due nipoti e l’unico fratello in UK, praticamente tutta la mia famiglia. Per una qualche legge probabilistica imperscrutabile gli eventi che piu’ mi interessano, dal film al cineforum al laboratorio corale tanto atteso, dalla gita fuoriporta con gli amici allo spettacolo dei Momix che aspettavo con ansia, tutto cio’ si verifica quando io parto. Sarà da aggiugere come postilla alle famose leggi di Murphy: tutti gli eventi che aspetti da tempo si verificano quando tu sei fuori dall’Italia .
Cerco di consolarmi ripetendomi che posso fare quello che altre nonne e mamme non possono permettersi avendo i figli a portata di voce: posso mangiare pasta aglio e olio la domenica senza dovermi impegnare in estenuanti pranzi di famiglia, posso decidere di partire il giorno dopo per andare a vedere una mostra a Roma senza scombinare i piani di nessuno, posso pranzare alle tre se la giornata e’ bella e invita a stare fuori senza dover pensare che c’e’ la nipotina da tenere o da prendere a scuola…sì però ciò non toglie una virgola alla mia solitudine di mamma con i figli all’estero ( e pure in UK!)
Antonio Bisogno: solitudine bifronte
Bisogna distinguere tra le tante solitudini vissute dagli uomini due macro aree: la solitudine patita e quella cercata. Con i tanti anni che mi pesano sulle spalle posso vantarmi di averle provate e sperimentate un po’ tutte e fin da quando cominciavo ad affacciarmi alla vita. A 10 anni ero un ragazzo vivace, allegro, curioso ma l’esperienza vissuta in collegio dai 10 ai 14 anni mi rese un’altra persona. Mi ammalai di nostalgia e malinconia, piangevo la casa e la città che mi erano state strappate, pativo gli sberleffi e le punzecchiature di quelli che vivevano a proprio agio la vita in collegio. Furono anni neri che spensero gradatamente le mie curiosità, i miei sogni, mi forzarono a vivere nel passato, nei ricordi, negli affetti perduti. Stavo male ma quello era il mondo in cui mi rifugiavo nonostante mi procurasse tristezza, vuoti allo stomaco che rimandavano al vuoto creatosi nella mia vita. Gli anni vissuti a questa maniera trasformarono il ragazzo scavezzacollo, gioioso ed espansivo che era stato sino ad allora in uno triste, chiuso al limite dell’introversione, timido e con poca o nessuna autostima.
A completare questo quadro dalle fosche tinte ci fu dopo il collegio la migrazione al seguito della famiglia nella Milano nebbiosa e razzista degli anni 60. Immaginate come dovesse sentirsi quel ragazzo quando l’insegnante sentendolo parlare chiedeva alla classe di tradurre quello che diceva con il suo accento incomprensibile. Una solitudine di tal fatta, in una città fredda e inospitale era penosa e intollerabile, una solitudine a cui si era costretti e che non era stata cercata. Ciò nonostante anche in un terreno sterile e brullo come quello attecchirono sentimenti e modi di essere che forse non sarebbero venuti a galla: modestia e non arroganza, profondità e non superficialità, empatia per i deboli e gli umili e non protervia e sbruffonaggine. Con il passare del tempo finì con il perdonarsi quegli anni trascorsi in solitudine, perdonò sua madre che credeva di fare il suo bene facendolo studiare in collegio o trasferendolo in una città che prometteva tanto ma nella quale la traccia del primo tema in classe recitava, e non l’ho mai dimenticato: Reminiscenza di un viaggio in Russia. Erano famiglie quelle che viaggiavano in Europa e non solo mentre il mio primo e unico viaggio era stato quello verso Milano con la classica valigia di cartone.
Naturalmente altro discorso quando da adulto ho vissuto la solitudine come scelta, per distaccarmi dal volgo profano come dice il poeta, per salvaguardare la mia psiche e tenermi lontano dal chiacchiericcio fine a se stesso, dai discorsi inconcludenti, dalle piazze mosse e agitate da pulsioni e istinti non controllati e non sorretti dalla ragione. Per distaccarsi dal superfluo ed attenersi all’essenziale. Ed è così che anche nella scrittura mi piace scrivere in forma semplice, badando al sodo e tenendomi lontano dal luccichio delle frasi colorite, anche belle ma che dicono ciò che si può riassumere con una sola parola. Questa solitudine ti aiuta a riflettere, andare in profondità e individuare tra il profluvio di notizie e parole in libertà che caratterizzano i nostri tempi, quelle che sono chiare e a te necessarie. Questa solitudine ti gratifica del dono prezioso dell’ascolto che ti permette di capire ed essere in connessione con l’altro. E nel mondo di oggi caratterizzato dall’horror vacui che ti sollecita a riempire spazi e luoghi di chiacchiere, musica e vociare, questa è una grande salvezza.
Fabrizio Di Baldo: Il sentiero Buddhista della solitudine
Dalla Finlandia scrive Fabrizio
Sono giunto a un’età matura, qualora esista mai un’età in cui un uomo o una donna diventino maturi, un’età in cui il passato si collega al presente e il futuro si svela come un sentiero da percorrere. Come recente appassionato della filosofia buddhista, la mia percezione della solitudine e del sentirsi soli è molto cambiata.
La solitudine è diventata un regalo, un’opportunità per ritrovare la propria essenza. È l’occasione di allontanarsi dal frastuono esterno, immergendosi nella quiete della propria mente. la solitudine può portare alla consapevolezza profonda e, a quello che è l’obiettivo di un buddista, all’illuminazione interiore che per me rappresenta il capire il senso della vita
Il sentirsi soli diventa quindi una sfida che si scontra con la comprensione fondamentale dell’interconnessione ovvero che tutte le forme di vita sono interdipendenti, e il sentimento di solitudine è il risultato del non riconoscere questa connessione universale. Il sentirsi soli è una chiamata a rafforzare i legami con gli altri, con il mondo che ci circonda e con le persone che si amano.
Dal mio percorso personale ho imparato che la la riflessione è uno strumento potente per affrontare la solitudine. La quiete interiore mi ha permesso di abbracciare la solitudine come un alleato anziché come un avversario. La consapevolezza di sé e la comprensione della natura transitoria delle emozioni hanno reso la solitudine un compagno di viaggio sostanzialmente piacevole.
Tuttavia, il sentirsi soli richiede ovviamente un diverso approccio. Nel Buddhismo, la compassione, che non è provare pietà, ma tentare di immedesimarsi nell’altro, è fondamentale. Quando ci si sente soli, è un invito a estendere la compassione verso se stessi e gli altri. La pratica della gentilezza amorevole diventa una risposta autentica al sentirsi soli, poiché riconosce il legame universale che condividiamo con ogni essere.
Se voglio dare un senso a questa mia nuova visione della vita posso dire che il mio personale approccio al buddhismo mi ha insegnato che la solitudine può essere un sentiero verso la scoperta interiore, un modo di conoscere me stesso imparando quello che voglio e quello che non voglio essere.
Enzo Senatore: La solitudine, senza isolamento, del magistrato
La solitudine è la naturale condizione del magistrato ( giudice o pubblico ministero che sia)…..Se è indubitabile che ogni decisione sia generalmente preceduta dal confronto con altre opinioni ( espresse nella udienza, in una riunione operativa, in una camera di consiglio), il momento della elaborazione mentale della determinazione da assumere e quello della stesura dell’atto e quello, ancor conseguente, della definitiva assunzione della responsabilita’ con l’apposizione della firma avvengono in assoluta solitudine…..
E, tuttavia, la solitudine costituisce anche una insidia per il magistrato che- qualora arroccato nella sua torre eburnea- difficilmente potrebbe sottrarsi alla romanistica definizione : “summum ius, summa iniuria “….Ed allora, la vita del magistrato si dipana nella perenne ed ardua ricerca del punto di equilibrio fra solitudine- quale necessaria precondizione per schivare condizionamenti e compromissioni al fine di apparire ed essere imparziale- ed incontro con il mondo per evitare l’isolamento, affinché la decisione risulti tecnicamente corretta, ma, anche, equa e ragionevole, dunque calata nella realtà circostante, comprensibile ai più ed attenta alla umana condizione.
Mariano, Ainis, il Portico delle Idee
Si è vero. Mi sono un po’ intrippato sulla solitudine. Ma non è tutto merito(?) mio: il vagabondare dei miei pensieri giornalieri finisce per condurmi molto spesso verso i miei amici; a quelli, che per mia fortuna ancora mi accompagnano nella vita, posso telefonare, inviare un messaggio; oppure posso invitarli a prendere un caffé, parlare con loro delle nostre idee e dei nostri stati d’animo. Ma quando nella mia mente incontro quelli che ci hanno lasciato, non posso far altro che rifugiarmi sul ricordo dei loro sorrisi, delle loro parole, delle magnifiche ore trascorse con loro, delle emozioni che ci hanno tenuti insieme; così una decina di giorni fa pensando a Mariano e alle nostre chiacchiere sulla lettura e sulla scrittura sono andato a rileggere il suo post sul portico delle idee
Ed ho ripreso in mano il libro di cui parla e da lì l’idea di avventurarmi in questa richiesta di parlare della solitudine. Se fosse ancora con noi avrei chiesto il suo parere a riguardo; mi avrebbe detto come sempre sì, ma dal suo modo di modularlo avrei capito se fosse stato veramente d’accordo. Invece ho dovuto decidere da solo! Ecco scrivo questo per invitarti a leggere sia il post di Mariano sia il libro di Michele Ainis
Se vuoi dare un’occhiata prima di acquistarlo puoi vedere qui
Quella del medico è una delle professioni maggiormente circondata da un’ aura di prestigio sociale e che, più della maggior parte delle altre occupazioni lavorative, genera rispetto e, perché no, un certo timore riverenziale nella popolazione dei pazienti e/o in quella potenzialmente tale. Quindi, praticamente nella grande maggioranza della popolazione.
A questo si aggiunga una gratificazione economica che, bene o male e a chi più a chi meno, è appagante per la grande maggioranza degli operatori sanitari.
Un altro aspetto altamente gratificante è la convinzione (a volte “illusione”), da parte del medico, di potersi inserire nel percorso esistenziale di un’ altra persona modificandolo al meglio, eliminando o almeno smussando gli aspetti spigolosi generati dalle inevitabili problematiche di malattia con cui, prima o poi, ciascun essere vivente dovrà confrontarsi.
Cosa si chiede ad un medico? A parte l’indispensabile competenza tecnico professionale, l’ elemento chiave del rapporto medico paziente è la capacità di ascolto da parte del primo. Che non è solo la banale “interrogazione” o raccolta anamnestica, ma è la capacità di stabilire un rapporto bidirezionale di informazioni e, perché no, soprattutto di emozioni, nel senso più ampio del termine. In ultima analisi, la capacità di stabilire un rapporto profondamente empatico dove ognuno degli attori finirà col sentirsi a proprio agio, condividendo con l’ altro la piacevole sensazione di NON ESSERE SOLI! Anche e soprattutto nella sofferenza.
Questo dovrebbe essere il compito fondamentale del medico. Quello di saper guidare il paziente (e i familiari), “a braccetto”, attraverso il percorso di malattia verso l’ esito finale, qualunque esso sia, dalla guarigione all’ exitus.
Con queste premesse, la professione del medico e la SOLITUDINE sembrerebbero termini antitetici. Invece non lo sono affatto. Anzi. Spesso il medico, soprattutto all’ interno della sanità territoriale, tende a rinchiudersi in una dimensione di solitudine individualistica e culturale con un vero e proprio isolamento fisico e relazionale rispetto al resto della comunità tecnico-scientifica. SOLO, sotto il peso delle richieste di aiuto della popolazione dei pazienti e di un carico burocratico che diviene sempre più oppressivo e frustrante. Condizione che solo in parte viene attenuata dalla “dimensione social” che, per sua natura, è, oltre che virtuale, necessariamente supeficiale. Incapace, pertanto, di collegare la banale informazione al fondamentale valore delle emozioni, del coinvolgimento, dell’ empatia, unici antidoti alla SOLITUDINE.
E che dire del medico inserito in una struttura sanitaria, pubblica o privata. In tal caso il concetto di solitudine dovrebbe essere quanto di più lontano da una condizione lavorativa che dovrebbe prevedere un “gruppo di lavoro”, meglio se interdisciplinare, con il paziente al centro. Purtroppo questa modalità lavorativa è resa sempre più una chimera dal peso delle sempre più ossessive incombenze burocratico-amministrative che gravano sulle spalle degli operatori sanitari, distogliendoli dall’ ascolto, dall’ approccio clinico e, soprattutto, dal confronto interdisciplinare che è la vera chiave di volta di un intervento sanitario. In alcune discipline in particolare. A questo si aggiunga la sempre crescente preoccupazione per le eventuali conseguenze medico legali di scelte sanitarie strategiche, anche se effettuate in perfetta buona fede e con sufficiente competenza.
Tutto questo ed altro ancora pone la condizione del medico in una condizione di vera e propria SOLITUDINE, psichica e spesso anche fisica (ogni operatore nel suo “studiolo”) aggravata da una dolorosa frustrazione per non essere all’ altezza delle aspettative del paziente e della comunità di appartenenza. Ciò è sempre più vero in una situazione, quale è quella italiana, dove mancano almeno 20000 medici e 70000 infermieri ! E ancora continuiamo con i numeri chiusi !
L’ ultima e forse più drammatica condizione di SOLITUDINE è quella del medico che, nel corso della vita, può essere costretto a confrontarsi con l’ esperienza di una grave malattia. In questa fase Dio è nudo. Non ci sono alibi. Non ci sono sotterfugi Non ci sono strade “consolatorie”. Il medico conosce il percorso della sua patologia, le eventuali e spiacevoli complicanze delle terapie, il possibile, spesso inevitabile esito del decorso. E’ come se qualcuno rimuovesse la barriera, la saracinesca che l’ essere umano, unico animale cosciente del fatto che esiste una fine chiamata morte, pone fra sé e tale certezza, allontanando l’ angoscia della consapevoleza della finitezza del cammino di vita. In tale circostanza, il medico paga a caro prezzo tutti i privilegi i benefici ed i vantaggi che la sua professione, come abbiamo detto prima, gli ha riservato. E sperimenta la reale SOLITUDINE ESISTENZIALE, solo attenuata dal supporto familiare e amicale oppure, nei casi più fortunati, da un cammino di FEDE che, alla fine dei conti, rimane l’ unica arma, l’ unico farmaco capace di contrastare questa drammatica esperienza di “reale” solitudine. Per la fortuna di chi questa arma la possiede.
Elvira Coppola Amabile:Un vuoto invisibile
Carlo chiede di scrivere qualcosa sulla solitudine. Premetto che non mi sento mai sola e non sto mai male se sto isolata, anche se amo moltissimo la gente e sono molto vivace affettuosa e comunicativa. Tuttavia questa richiesta mi induce a riflettere. Cerco uno spiazzo nella mia immaginazione dove costruire le mie riflessioni.
La solitudine è un prisma. Non uno stato fisico né uno stato mentale né un sentimento. La solitudine è un vuoto che non riesci a vedere. Se non lo vedi non lo puoi riempire. Non lo puoi riempire! Questa incapacità é la percezione della solitudine. Legata a un dolore. Legata a una scelta. Legata a un ricordo. Legata a un privilegio di cui solo tu hai l’esclusiva. Legata a una gioia che non vuoi condividere.
La solitudine. Un prisma con tante facce. Una sola riflette la luce se colpita. In quel momento ti fermi e osservi. La lontananza ti isola da qualcosa che possiedi o che hai posseduto. La privazione ti relega in una piccola desolazione. Un luogo una persona un affetto un suono un odore… Vado con la memoria a raccogliere questi frammenti.
Petali lievi che lasciano una traccia sonora. Un’ eco ti coglie e sei lì. Solo. Quando? Il suono è forte e dolente. Fa male? Cerchi di ignorarlo addolcirlo. Il pudore mi blocca ma posso raccontare di quando ho capito che i miei genitori non mi potevano assecondare a realizzare i miei sogni. Un tuffo nel buio!! Ero sola. I miei desideri congelati. Inaccessibili per sempre forse…. Inerme… Sola…
La città eterna mi ha accolta fascinosa e generosa. Ero sposa mentre i miei monti si azzurravano di oblio. Come quella marina bagnata di gioventù e salsedine.Tornavo e ritrovavo tutto e mi accorgevo di avere le guance rigate di lacrime. La lontananza non ne aveva mai sbiadito l’appartenenza violenta come una passione mai estinta. Ritrovavo il canto lento dell’idioma parlato dalla mia gente. Risentivo gli odori e un senso di abbandono mi colpiva implacabile. Era tutto mio ma io non ero più loro. Non appartenevo piú a quel divenire. Divenivo altrove. Ho tentato di restituirmi alla mia città. Con l’impegno politico. Con il lavoro. Con l’amore per i miei che restavano ancora lì. Con i legami d’amicizie. Con la partecipazione sporadica ai fatti della città. Compatibilmente con gli impegni di famiglia. Tutto cambia. Tanti spariscono. I respiri restano. Fermi come statue nel vento.
Ricordo i libri di Wilburg Smith che leggevamo regolarmente durante l’estate. C’era spesso un giovane africano costretto ad abbandonare la sua terra. Ricordo che ne metteva un mucchietto in un sacchetto e se lo legava al collo senza mai staccarsene. Era ingenuo ma ogni tanto ho pensato di fare lo stesso. Un’usanza tribale che la parte selvaggia della mia natura non avrebbe disdegnato.
Sono un’esperta subacquea. Una volta in Indonesia per una serie di disattenzioni che non sto a riferire mi staccai dal gruppo e fui trascinata da una corrente violentissima. Restai isolata in mezzo al mare per oltre due ore. Solitudine totale implacabile pericolosa. Tutto era lontanissimo! Non ho avuto paura. Allora! Mi ritrovarono. Mi salvarono. La paura l’ho avuta dopo. Ora se ci penso. In quel momento mi organizzai per raggiungere un’isoletta a circa un miglio. Divenni fredda e insensibile. Surreale! Entrai nel mito. Ero una sirena. Le sirene di tutti i mari mi sorreggevano e spingevano contro corrente verso la riva. La solitudine di una distesa di mare infinita mi consacrava alla lontananza. Non ne ero prigioniera ma padrona.
Troppo intime queste confidenze? Parlare delle proprie emozioni è come sospendere l’anima in uno spazio aperto. Un viaggio senza ritorno.