Da qualche tempo Renato ha ripreso a fotografare con una maggiore simbiosi fra gli occhi della sua mente e l’obiettivo della sua reflex. La timidezza che traspariva dalle sue pur pulitissime e folgoranti vecchie foto si è trasformata ora in potente forza espressiva; i suoi scatti sono diventati più profondi e prenetranti e allo stesso tempo, o forse proprio per questo, più silenziosi ed essenziali; mentre guardo le sue immagini il mio tempo interiore sembra rallentare la sua corsa, forse perché non ci sono rumori da cui fuggire.
Giacché stiamo parlando, ancora per qualche giorno, di solitudine ho pensato di fare qui questo gioco: aggiungere a qualche foto del mio amico titoli che ad essa ammiccano più o meno palesemente.
Il tunnel della tecnosolitudine modernaLa tranquillità della solitudineSolitudine: una porta chiusaIl pericolo della solitudineLa tentazione della solitudine
La solitudine nelle dita
Il desiderio ed il timore della solitudine
P.S. Sarebbe bello un tuo commento a queste foto
Santina Mercurio: Il mormorio della solitudine
Sola….. Mormorii incessanti…..
tante parole…. è strano ma tra tanti mi sento sola, il pensiero va incontro a ricordi lontani…
Rivedo il frangere del mare chiudo gli occhi e risento il sapore della salsedine. Un brivido m’assale… apro gli occhi mi risveglio dai miei ricordi e mi sforzo di partecipare a tutto quello che mi circonda
Circolo Alfonso Guasco: nuova puntata su CavaNotizie
Antonio Polichetti: solitudine…un’isola da esplorare
Alle volte, mi capita di sognare di avere vent’anni. Vent’anni, ma con la testa che mi ritrovo ora che ho superato i quaranta. E così, immagino di sapere illusoriamente tutto ciò che dovrei fare ritrovandomi con molto più tempo davanti. Poi, mi sembra di capire perché questo pensiero sia irrealizzabile. Perché una persona che riuscisse in questo proposito potrebbe soltanto essere un semidio o un mostro. Perché una vita senza difficoltà, senza la sfida dell’errore, del sentirsi incompleti in qualità di esseri finiti, senza la gara contro il tempo che scorre, non sarebbe vera vita. Per la via incerta di questo pensiero, che è quasi un sentimento, mi ritrovo spesso raccolto in solitudine con il mio tempo, come se fossi di fronte ad uno specchio cosmico. Ed è lì che posso assumere le sembianze più svariate. Sembra dipendere tutto da me, ma, al contrario, è una lotta contro qualcosa e, alle volte, contro ogni cosa, corpo a corpo, ogni giorno.
Che sia un sentire, alle volte soltanto bello o brutto a seconda del caso, o che sia, forse in senso più ampio, una condizione dell’animo umano, vivo la solitudine come qualcosa che, fino a un certo punto, dipende da me.
Mi sento come un marinaio di fronte al mare calmo, ma di una calma che può rapidamente svanire: mare agitato e tempesta sono in agguato. E so pure che tanti sono finiti naufraghi a schiantarsi sulle alte coste della solitudine, dal bianco d’ossa. Cerco di navigare, dunque, con prudenza cercando di diventare amico degli dei del vento e del mare.
Perché lo sento che la solitudine può essere un gran male, se diventa isolamento e vita inautentica. Se diventa una bolla di indifferenza in cui nascondersi e guardare il mondo dalle finestre social mentre ogni notizia, anche la più terribile, scorre nel flusso. E odio l’indifferenza e odio anche la solitudine, se diventa chiusura, barriera tra se stessi e gli altri, per paura di soffrire, per vergogna dei propri sentimenti – anche per una strana difficoltà che si può incontrare nell’elaborarli – o per innata timidezza. Guardare una persona negli occhi è tra le cose più interessanti che possano capitare perché gli occhi dicono sempre qualcosa che le parole non possono dire. So anche che può suonare come l’ennesima tirata moralistica, ma in tempi in cui gli schermi delle scatolette digitali occupano molto spazio e tempo, una seppur timida ricerca degli occhi fa parte del calore delle mie giornate. Staccare dal telefono è diventato difficile per tutti e, anche per questo motivo, può capitare che le giornate passino senza lasciare abbastanza segni in profondità. E già, di per sé, non è mai facile stabilire connessioni veramente intime con l’altro. Ma si tratta di momenti preziosi nella vita. Ed è fortunato chi non si fa scoraggiare dagli ostacoli di ogni giorno, chi ci prova sempre riuscendo a creare scintille di spirito, chi non smette di sfregare pietre tenendo viva l’attesa del grande fuoco contro tutto il freddo intorno.
Solitudine e isolamento tendono a somigliarsi spesso anche per via del politicamente corretto che imperversa sui social. È diventato più difficile incontrare l’altro perché la libertà di espressione viene significativamente limitata: diffidenza e paura di offendere o essere offesi fanno molta ombra. I musi lunghi e un perbenismo, sempre più affettato e ai limiti della paranoia, rendono tutto più freddo e triste. La solitudine, però, può anche essere un momento bello di vita, se riesce a far parte di un processo di liberazione – anche attraverso scelte scomode o comunque difficili – dalla heideggeriana vita inautentica, dalla vita dei “si dice” e dei “si conviene”, dalla vita delle opportunità e degli opportunismi. In tal caso, meglio soli che male accompagnati, come dice l’antico adagio.
La solitudine può aiutare a cercare se stessi, a sentire la propria voce. Per la via di questa ricerca, si può trovare il modo di esprimersi meglio e si può raggiungere una maggiore armonia con gli altri. E amo la solitudine, se mi mette nelle condizioni di ricercare il mio io interiore e di interrogarmi sul senso di questo stare al mondo, sul senso di questa vita – questa “isola in un Oceano di solitudine”, come scrisse il poeta Khalil Gibran. La amo quando mi aiuta a cercarne dei segni e a trovare il modo di lasciarne almeno uno.
Ermeneziano Lambiase: Melosolitudine
Ogni melomane è convinto di essere Il Melomane: ha le sue opere preferite, colleziona le incisioni di riferimento (meglio se in vinile), conosce gli allestimenti che hanno fatto la storia della lirica, tifa per questo o quel cantante, conosce “i tempi” dei grandi direttori e le “tradizioni”, odiadora il divismo delle dive, si incanta ad ascoltare i racconti dei vecchi cantanti perché è un po’ come fare un viaggio nel tempo. Ma più di ogni altra cosa, ogni buon melomane compie un processo di appropriazione di brani (a volte anche solo semplici e brevi passi) delle opere, li fa propri, quasi si convince che l’autore li abbia scritti proprio per lui, e ci costruisce sopra immagini, storie, sentimenti. Personalmente associo il «Mimì» urlato alla fine di Bohème al Dolore straziante. “Quando ero paggio del duca di Norfolk” è per me la Leggerezza (e l’effetto umoristico-paradossale è dirompente, visto che una musica tutta giocata su pizzicati degli archi e orchestrata con sonorità diafane dei legni, il genio di Verdi la mette in bocca al pingue Falstaff). La quinta essenza dell’Amore è il duetto del finale I atto di Otello (ancora Verdi). Spensieratezza e Gioia di vivere li ritrovo nella cavatina di Figaro del Barbiere di Rossini. La Bellezza in qualsiasi melodia scritta da Bellini.
E così via, procedendo alla costruzione di un privato vocabolario sentimentale. E la Solitudine? Credo di aver ascoltato per la prima volta Manon Lescaut da bambino quando mio padre, melomane pure lui, passava le domeniche a sentire opere (io avevo il delicato compito di cambiare la facciata del disco), e l’aria cantata dalla protagonista nel IV atto, “Sola, perduta, abbandonata”, mi ha sin da subito comunicato il senso della Solitudine. Non mi sono mai interrogato circa il motivo di queste associazioni, è qualcosa di istintivo, di pancia, è così e basta. Quando però Carlo mi ha invitato a scrivere qualcosa sull’argomento, ho iniziato a chiedermi “perché?”, o meglio “cosa?”. Cosa mi induce ad associare questa o quella musica a quel particolare sentimento? Riflettendo sulla Solitudine e l’aria di Manon, al di là della facile suggestione del libretto che recita “Sola, perduta, abbandonata” (ricordiamo che nell’opera sovente il testo è solo un pre-testo per scriverci sopra la musica), posso dire che ciò che ha colpito maggiormente la mia fantasia è il particolare uso che Puccini fa di uno strumento: il flauto. Da grande uomo di teatro quale fu, il musicista colloca un flauto nelle quinte del palcoscenico.
Non era certo un artificio nuovo quello di posizionare musicisti sopra (o dietro) al palco. Ma ci trovavamo di fronte alla cosiddetta musica di scena o musica in scena, categorie ben note a tutti gli operisti. Nel caso di Manon Lescaut avviene qualcosa di diverso. Le frasi del flauto non hanno alcuna relazione diretta con l’azione scenica come accade nelle categorie citate (per intenderci, non si tratta di musica o suoni che verrebbero uditi anche dai protagonisti del dramma). La relazione avviene invece a livello narrativo e drammaturgico. Perciò non musica di scena né musica in scena, bensì musica sulla scena. Con ogni probabilità Puccini è stato fra i primi grandi operisti a capire l’importanza della spazialità del suono (pochi anni dopo avrebbe lasciato meticolose indicazioni sul posizionamento delle campane del mattutino di Tosca).
La voce del flauto che ci parla dalle quinte ci restituisce quel malinconico senso dell’altrove che i francesi chiamano ailleurs, e che non avrebbe avuto se invece il suono fosse arrivato dalla fossa orchestrale. L’effetto è straniante, il timbro si fa spettrale, a evidenziare una distanza che è non solo fisica, ma soprattutto emozionale. Insomma quel flauto posto lì, isolato dal resto del golfo mistico, segna il passato e il presente di Manon, è ricordo e consapevolezza di un destino che sta per compiersi. Quel flauto rappresenta, almeno nel mio vocabolario sentimentale (e magari anche in quello di Puccini), il manto di solitudine che lento e inesorabile avvolge Manon morente.
Elisabetta Di Marino: Un’affollata solitudine
Non c’ è solo una solitudine “fisica” ma anche la solitudine che si prova circondati dagli altri, nella propria famiglia, nella cerchia dei propri amici, nell’ ambiente di lavoro; è quella della non-comunicazione e della incomprensione. È una condizione pesante e frustrante che alla fine logora quanto la “vera” solitudine anche se non ne ha il silenzio/silenzio, l’assenza di affetti, l’isolamento. Apparentemente. L’amore, l’affetto anche quello ancestrale e biologico, quello naturale tra madre e figlio, quello inestirpabile, anche esso vive di comunicazione, di condivisione, di complicità, di compatibilità. Senza queste modalità il rapporto diventa sofferto e monco. Come si arriva ad una tale situazione? Cosa può provocare questo senso di solitudine tra una folla di presenze?
Se escludiamo una condizione puramente soggettiva, di disagio comunicativo ai confini con qualche psicopatologia, i motivi possono essere diversi. Ci sono elementi “divisivi” che scavano fossati tra gli esseri umani e questi possono concretizzarsi in passioni, gusti, sensibilità, visione del mondo, conoscenza, maturità, esperienze diverse. Tutto questo erge steccati. La condanna al silenzio è il prezzo che si paga al mondo degli affetti per la propria diversità. E dunque questa solitudine è un fardello che non genera empatia, che non produce il balsamo della comprensione. Al contrario ti circonda di insofferenza e rifiuto.
In una recente visita dal mio endocrinologo, scambiandoci notizie e considerazioni sugli ultimi aggiornamenti scientifici sul ruolo delle disbiosi in una serie di affezioni che coinvolgono l’ asse intestino/cervello, il dottore ha osservato: “Ma lei che conosce tanto su questi argomenti, non è molto isolata?” L’ ho guardato, assentendo con un senso di grande amarezza: “Certo, dottore!” E lui ha continuato: “Eh, immagino, spesso, al di fuori dell’ ambito professionale, l’ isolamento me lo vivo io che sono medico, figuriamoci lei che non lo è“. Appunto. Ma questo è solo un esempio. Come fare, allora? Allenarsi a separare affetto e comunicazione, amore e condivisione. Comunicare solo con le persone (ci sono, sì, per fortuna) con le quali si con-divide. Imparare ad amare nonostante la solitudine.
Per Voltaire la più felice di tutte le vite è quella di una solitudine affollata. Vediamola così. Occasione di crescita interiore, ridimensionamento del proprio io, accettazione della impossibilità di comunicare, esercizio di amore incondizionato per l’ altro.
Libertà per Ilaria
Alberto Barone: solitudine di massa
Caro Carlo altri temi suggeriti da te non hanno riscosso lo stesso interesse. Qui invece si è formata una coda: tutti in fila per scrivere della solitudine, i più della propria come se non ce ne fosse di peggiori, oppure per esorcizzarla, testimoniare una condizione che non ci appartiene, per dire che ne siamo immuni, protetti, o nascosti da una autocondizione di sicurezza che ci rende intoccabili.
Illusi: la solitudine è sempre in agguato; si fortifica con molti alleati fidati, che non la tradiscono, a cominciare dall’interesse, forma predatoria che quando si abbatte non fa prigionieri e distrugge ogni possibile legame, ben celata dietro maschere accattivanti, addobbate con principi etici falsi quanto banali. Di fronte all’interesse che si impone non c’è difesa, c’è sempre qualcuno o qualcosa che ‘vale’ più di te, degli affetti che hai riversato, delle cure, delle tensioni emotive, degli sforzi per realizzare una relazione in grado di metterti al riparo. E poi accade, non te ne accorgi e ti giunge di fronte, senza preavviso, resti solo e solo il fallimento ti fa compagnia. Ma chi è veramente solo: chi ha dato o chi ha preso? E a Londra, in quel triste appartamento dov’è la solitudine: in quelle mura o nel clamore urbano di una città che non sa proteggere un bambino di due anni?
Lì, in due stanze si consuma la tragedia: il padre è colpito da infarto ed il bambino che è con lui – ha solo due anni – lo segue tra gli stenti di una morte non improvvisa ma lenta; il ritrovamento avverrà, ma dopo giorni, sempre troppo tardi, tranne che per il cane: sopravvive per gridare che il dramma della solitudine è lì fuori, ed avvolge quanti non sanno salvare i naufraghi di tante Cutro e la bambina morta nel deserto, vicina a sua madre. Ormai la solitudine non è più del singolo, per favore non mi si parli della solitudine del capo, siamo seri, quella è arroganza del potere. La solitudine ha contagiato, si è estesa, è un ‘UNO’ collettivo che raccoglie un sentimento sociale e non riesce a trattenerlo. C’è una condizione esistenziale specchiata negli occhi terrorizzati di un cane a dire tutto questo.
Angela Pellegrino: La vera solitudine non è stare da sola
Siamo egoisti e narcisisti quando parliamo della nostrasolitudine, secondo me. Io, per esempio, spesso la cerco, certo mi piace, anzi mi è necessario stare da sola, ma quella non è vera solitudine. Io la cerco e me la godo, nel senso che faccio ciò che voglio, se lo voglio e quando lo voglio, mangio se ne ho voglia, vado in giro per musei, parchi, strade, negozi ecc, mi godo la gente, la città, la folla. Quando sei da sola stai in silenzio, quindi inevitabilmente ciò che gli altri dicono, tu lo senti, e così conosci meglio un popolo, una città, anche ascoltando i discorsi in un ristorante, in un bus, in un museo, per strada. Io amo molto stare con amici, ma – soprattutto con alcuni – poi ho bisogno di ristorarmi la mente stando da sola, rilassandomi. Ma il mio ‘essere sola’ non è la vera solitudine: io mi parlo e mi rispondo, mi ascolto e rifletto, prendo tempo prima di decidere qualcosa . . . piuttosto é un essere libera.
Il VERO ESSERE SOLI è quello che ti piomba addosso sotto forma di un missile che improvvisamente ti distrugge la casa e le tue cose e tutta la famiglia in cui vivevi, di tuo padre che sgozza tua madre e quindi, giustamente, va in galera, di un gommone da cui cadete urlando tutti e tu perdi la mamma che prima ti teneva abbracciato stretto, di bombardamenti continui che non ti danno mai più la pace, di avere tanta fame e sete e dover imparare a fare da solo, e magari hai pochi anni . . . e nessuno ti aiuta . . . e vedi i grandi correre, e allora ti metti a correre pure tu ma non sai dove stai andando . . . Poi magari c’è anche qualcuno che ti prende in braccio, ti dà da mangiare, ti cura, ma la tua mamma . . . le tue radici . . . tu stesso . . .
Enza Barbaria: La solitudine
Seduta sul pendio di me stessa Ti guardo e mi spaventi Non ti conosco Sei al margine del mio essere Ti distinguo Ci provo Non ti vedo Mi affanno nella corsa libera per raggiungerti e toccarti… Odo il tuo ghigno. Mi spavento, madre dei miei silenzi. Compari e mi perdo in ciò che sono. Tu che valorizzi e denigri il mio essere. Tu… serenità e delirio Tu… carezza e schiaffo Tu… pretesa e disperazione Mi vesti di abiti diversi Ed io delicatamente sorrido a ciò che sono… sola.