Antonio Polichetti: solitudine…un’isola da esplorare

Alle volte, mi capita di sognare di avere vent’anni. Vent’anni, ma con la testa che mi ritrovo ora che ho superato i quaranta. E così, immagino di sapere illusoriamente tutto ciò che dovrei fare ritrovandomi con molto più tempo davanti. Poi, mi sembra di capire perché questo pensiero sia irrealizzabile. Perché una persona che riuscisse in questo proposito potrebbe soltanto essere un semidio o un mostro. Perché una vita senza difficoltà, senza la sfida dell’errore, del sentirsi incompleti in qualità di esseri finiti, senza la gara contro il tempo che scorre, non sarebbe vera vita. Per la via incerta di questo pensiero, che è quasi un sentimento, mi ritrovo spesso raccolto in solitudine con il mio tempo, come se fossi di fronte ad uno specchio cosmico. Ed è lì che posso assumere le sembianze più svariate. Sembra dipendere tutto da me, ma, al contrario, è una lotta contro qualcosa e, alle volte, contro ogni cosa, corpo a corpo, ogni giorno. 

Che sia un sentire, alle volte soltanto bello o brutto a seconda del caso, o che sia, forse in senso più ampio, una condizione dell’animo umano, vivo la solitudine come qualcosa che, fino a un certo punto, dipende da me.

Mi sento come un marinaio di fronte al mare calmo, ma di una calma che può rapidamente svanire: mare agitato e tempesta sono in agguato. E so pure che tanti sono finiti naufraghi a schiantarsi sulle alte coste della solitudine, dal bianco d’ossa. 
Cerco di navigare, dunque, con prudenza cercando di diventare amico degli dei del vento e del mare. 

Perché lo sento che la solitudine può essere un gran male, se diventa isolamento e vita inautentica. Se diventa una bolla di indifferenza in cui nascondersi e guardare il mondo dalle finestre social mentre ogni notizia, anche la più terribile, scorre nel flusso. E odio l’indifferenza e odio anche la solitudine, se diventa chiusura, barriera tra se stessi e gli altri, per paura di soffrire, per vergogna dei propri sentimenti – anche per una strana difficoltà che si può incontrare nell’elaborarli – o per innata timidezza. 
Guardare una persona negli occhi è tra le cose più interessanti che possano capitare perché gli occhi dicono sempre qualcosa che le parole non possono dire. So anche che può suonare come l’ennesima tirata moralistica, ma in tempi in cui gli schermi delle scatolette digitali occupano molto spazio e tempo, una seppur timida ricerca degli occhi fa parte del calore delle mie giornate. Staccare dal telefono è diventato difficile per tutti e, anche per questo motivo, può capitare che le giornate passino senza lasciare abbastanza segni in profondità. E già, di per sé, non è mai facile stabilire connessioni veramente intime con l’altro. Ma si tratta di momenti preziosi nella vita. Ed è fortunato chi non si fa scoraggiare dagli ostacoli di ogni giorno, chi ci prova sempre riuscendo a creare scintille di spirito, chi non smette di sfregare pietre tenendo viva l’attesa del grande fuoco contro tutto il freddo intorno. 

Solitudine e isolamento tendono a somigliarsi spesso anche per via del politicamente corretto che imperversa sui social. È diventato più difficile incontrare l’altro perché la libertà di espressione viene significativamente limitata: diffidenza e paura di offendere o essere offesi fanno molta ombra. I musi lunghi e un perbenismo, sempre più affettato e ai limiti della paranoia, rendono tutto più freddo e triste.
La solitudine, però, può anche essere un momento bello di vita, se riesce a far parte di un processo di liberazione – anche attraverso scelte scomode o comunque difficili – dalla heideggeriana vita inautentica, dalla vita dei “si dice” e dei “si conviene”, dalla vita delle opportunità e degli opportunismi. In tal caso, meglio soli che male accompagnati, come dice l’antico adagio.

La solitudine può aiutare a cercare se stessi, a sentire la propria voce. Per la via di questa ricerca, si può trovare il modo di esprimersi meglio e si può raggiungere una maggiore armonia con gli altri. E amo la solitudine, se mi mette nelle condizioni di ricercare il mio io interiore e di interrogarmi sul senso di questo stare al mondo, sul senso di questa vita – questa “isola in un Oceano di solitudine”, come scrisse il poeta Khalil Gibran. La amo quando mi aiuta a cercarne dei segni e a trovare il modo di lasciarne almeno uno. 




Ermeneziano Lambiase: Melosolitudine

Ogni melomane è convinto di essere Il Melomane: ha le sue opere preferite, colleziona le incisioni di riferimento (meglio se in vinile), conosce gli allestimenti che hanno fatto la storia della lirica, tifa per questo o quel cantante, conosce “i tempi” dei grandi direttori e le “tradizioni”, odiadora il divismo delle dive, si incanta ad ascoltare i racconti dei vecchi cantanti perché è un po’ come fare
un viaggio nel tempo. Ma più di ogni altra cosa, ogni buon melomane compie un processo di appropriazione di brani (a volte anche solo semplici e brevi passi) delle opere, li fa propri, quasi si convince che l’autore li abbia scritti proprio per lui, e ci costruisce sopra immagini, storie, sentimenti.
Personalmente associo il «Mimì» urlato alla fine di Bohème al Dolore straziante. “Quando ero paggio del duca di Norfolk” è per me la Leggerezza (e l’effetto umoristico-paradossale è dirompente, visto che una musica tutta giocata su pizzicati degli archi e orchestrata con sonorità diafane dei legni, il genio di Verdi la mette in bocca al pingue Falstaff). La quinta essenza dell’Amore è il duetto del finale I atto di Otello (ancora Verdi). Spensieratezza e Gioia di vivere li ritrovo nella cavatina di Figaro del Barbiere di Rossini. La Bellezza in qualsiasi melodia scritta da Bellini.

E così via, procedendo alla costruzione di un privato vocabolario sentimentale.
E la Solitudine? Credo di aver ascoltato per la prima volta Manon Lescaut da bambino quando mio padre, melomane pure lui, passava le domeniche a sentire opere (io avevo il delicato compito di cambiare la facciata del disco), e l’aria cantata dalla protagonista nel IV atto, “Sola, perduta, abbandonata”, mi ha sin da subito comunicato il senso della Solitudine.
Non mi sono mai interrogato circa il motivo di queste associazioni, è qualcosa di istintivo, di pancia, è così e basta. Quando però Carlo mi ha invitato a scrivere qualcosa sull’argomento, ho iniziato a chiedermi “perché?”, o meglio “cosa?”. Cosa mi induce ad associare questa o quella musica a quel particolare sentimento?
Riflettendo sulla Solitudine e l’aria di Manon, al di là della facile suggestione del libretto che recita “Sola, perduta, abbandonata” (ricordiamo che nell’opera sovente il testo è solo un pre-testo per scriverci sopra la musica), posso dire che ciò che ha colpito maggiormente la mia fantasia è il particolare uso che Puccini fa di uno strumento: il flauto. Da grande uomo di teatro quale fu, il musicista colloca un flauto nelle quinte del palcoscenico.

Non era certo un artificio nuovo quello di posizionare musicisti sopra (o dietro) al palco. Ma ci trovavamo di fronte alla cosiddetta musica di scena o musica in scena, categorie ben note a tutti gli operisti. Nel caso di Manon Lescaut avviene qualcosa di diverso. Le frasi del flauto non hanno alcuna relazione diretta con l’azione scenica come accade nelle categorie citate (per intenderci, non si tratta di musica o suoni che verrebbero uditi anche dai protagonisti del dramma). La relazione avviene invece a livello narrativo e drammaturgico. Perciò non musica di scena né musica in scena, bensì musica sulla scena. Con ogni probabilità Puccini è stato fra i primi grandi operisti a capire l’importanza della spazialità del suono (pochi anni dopo avrebbe lasciato meticolose indicazioni sul posizionamento delle campane del mattutino di Tosca).

La voce del flauto che ci parla dalle quinte ci restituisce quel malinconico senso dell’altrove che i francesi chiamano ailleurs, e che non avrebbe avuto se invece il suono fosse arrivato dalla fossa orchestrale. L’effetto è straniante, il timbro si fa spettrale, a evidenziare una distanza che è non solo fisica, ma soprattutto emozionale.
Insomma quel flauto posto lì, isolato dal resto del golfo mistico, segna il passato e il presente di Manon, è ricordo e consapevolezza di un destino che sta per compiersi. Quel flauto rappresenta, almeno nel mio vocabolario sentimentale (e magari anche in quello di Puccini), il manto di solitudine che lento e inesorabile avvolge Manon morente.




Elisabetta Di Marino: Un’affollata solitudine

Non c’ è solo una solitudine “fisica” ma anche la solitudine che si prova circondati dagli altri, nella propria famiglia, nella cerchia dei propri amici, nell’ ambiente di lavoro; è quella della non-comunicazione e della incomprensione. È una condizione pesante e frustrante che alla fine logora quanto la “vera” solitudine anche se non ne ha il silenzio/silenzio, l’assenza di affetti, l’isolamento. Apparentemente.
L’amore, l’affetto anche quello ancestrale e biologico, quello naturale tra madre e figlio, quello inestirpabile, anche esso vive di comunicazione, di condivisione, di complicità, di compatibilità. Senza queste modalità il rapporto diventa sofferto e monco. Come si arriva ad una tale situazione? Cosa può provocare questo senso di solitudine tra una folla di presenze?

Se escludiamo una condizione puramente soggettiva, di disagio comunicativo ai confini con qualche psicopatologia, i motivi possono essere diversi. Ci sono elementi “divisivi” che scavano fossati tra gli esseri umani e questi possono concretizzarsi in passioni, gusti, sensibilità, visione del mondo, conoscenza, maturità, esperienze diverse. Tutto questo erge steccati. La condanna al silenzio è il prezzo che si paga al mondo degli affetti per la propria diversità. E dunque questa solitudine è un fardello che non genera empatia, che non produce il balsamo della comprensione. Al contrario ti circonda di insofferenza e rifiuto.

In una recente visita dal mio endocrinologo, scambiandoci notizie e considerazioni sugli ultimi aggiornamenti scientifici sul ruolo delle disbiosi in una serie di affezioni che coinvolgono l’ asse intestino/cervello, il dottore ha osservato: “Ma lei che conosce tanto su questi argomenti, non è molto isolata?
L’ ho guardato, assentendo con un senso di grande amarezza: “Certo, dottore!
E lui ha continuato: “Eh, immagino, spesso, al di fuori dell’ ambito professionale, l’ isolamento me lo vivo io che sono medico, figuriamoci lei che non lo è“. Appunto. Ma questo è solo un esempio. Come fare, allora? Allenarsi a separare affetto e comunicazione, amore e condivisione. Comunicare solo con le persone (ci sono, sì, per fortuna) con le quali si con-divide. Imparare ad amare nonostante la solitudine.

Per Voltaire la più felice di tutte le vite è quella di una solitudine affollata. Vediamola così. Occasione di crescita interiore, ridimensionamento del proprio io, accettazione della impossibilità di comunicare, esercizio di amore incondizionato per l’ altro.




Libertà per Ilaria




Alberto Barone: solitudine di massa

Caro Carlo altri temi suggeriti da te non hanno riscosso lo stesso interesse. Qui invece si è formata una coda: tutti in fila per scrivere della solitudine, i più della propria come se non ce ne fosse di peggiori, oppure per esorcizzarla, testimoniare una condizione che non ci appartiene, per dire che ne siamo immuni, protetti, o nascosti da una autocondizione di sicurezza che ci rende intoccabili.

Illusi: la solitudine è sempre in agguato; si fortifica con molti alleati fidati, che non la tradiscono, a cominciare dall’interesse, forma predatoria che quando si abbatte non fa prigionieri e distrugge ogni possibile legame, ben celata dietro maschere accattivanti, addobbate con principi etici falsi quanto banali. Di fronte all’interesse che si impone non c’è difesa, c’è sempre qualcuno o qualcosa che ‘vale’ più di te, degli affetti che hai riversato, delle cure, delle tensioni emotive, degli sforzi per realizzare una relazione in grado di metterti al riparo. E poi accade, non te ne accorgi e ti giunge di fronte, senza preavviso, resti solo e solo il fallimento ti fa compagnia.
Ma chi è veramente solo: chi ha dato o chi ha preso? E a Londra, in quel triste appartamento dov’è la solitudine: in quelle mura o nel clamore urbano di una città che non sa proteggere un bambino di due anni?

Lì, in due stanze si consuma la tragedia: il padre è colpito da infarto ed il bambino che è con lui – ha solo due anni – lo segue tra gli stenti di una morte non improvvisa ma lenta; il ritrovamento avverrà,  ma dopo giorni, sempre troppo tardi, tranne che per il cane: sopravvive per gridare che il dramma della solitudine è lì fuori, ed avvolge quanti non sanno salvare i naufraghi di tante Cutro e la bambina morta nel deserto, vicina a sua madre. Ormai la solitudine non è più del singolo, per favore non mi si parli della solitudine del capo, siamo seri, quella è arroganza del potere. La solitudine ha contagiato, si è estesa, è un ‘UNO’ collettivo che raccoglie un sentimento sociale e non riesce a trattenerlo. C’è una condizione esistenziale specchiata negli occhi terrorizzati di un cane a dire tutto questo.




Angela Pellegrino: La vera solitudine non è stare da sola

Siamo egoisti e narcisisti quando parliamo della nostra solitudine, secondo me.
Io, per esempio, spesso la cerco, certo mi piace, anzi mi è necessario stare da sola, ma quella non è vera solitudine.
Io la cerco e me la godo, nel senso che faccio ciò che voglio, se lo voglio e quando lo voglio, mangio se ne ho voglia, vado in giro per musei, parchi, strade, negozi ecc, mi godo la gente, la città, la folla. Quando sei da sola stai in silenzio, quindi inevitabilmente ciò che gli altri dicono, tu lo senti, e così conosci meglio un popolo, una città, anche ascoltando i discorsi in un ristorante, in un bus, in un museo, per strada.
Io amo molto stare con amici, ma – soprattutto con alcuni – poi ho bisogno di ristorarmi la mente stando da sola, rilassandomi.
Ma il mio ‘essere sola’ non è la vera solitudine: io mi parlo e mi rispondo, mi ascolto e rifletto, prendo tempo prima di decidere qualcosa . . . piuttosto é un essere libera.

Il VERO ESSERE SOLI è quello che ti piomba addosso sotto forma di un missile che improvvisamente ti distrugge la casa e le tue cose e tutta la famiglia in cui vivevi, di tuo padre che sgozza tua madre e quindi, giustamente, va in galera, di un gommone da cui cadete urlando tutti e tu perdi la mamma che prima ti teneva abbracciato stretto, di bombardamenti continui che non ti danno mai più la pace, di avere tanta fame e sete e dover imparare a fare da solo, e magari hai pochi anni . . . e nessuno ti aiuta . . . e vedi i grandi correre, e allora ti metti a correre pure tu ma non sai dove stai andando . . . Poi magari c’è anche qualcuno che ti prende in braccio, ti dà da mangiare, ti cura, ma la tua mamma . . . le tue radici . . . tu stesso . . .




Enza Barbaria: La solitudine

Seduta sul pendio di me stessa
Ti guardo e mi spaventi
Non ti conosco
Sei al margine del mio essere
Ti distinguo
Ci provo
Non ti vedo
Mi affanno nella corsa libera per raggiungerti e toccarti…
Odo il tuo ghigno.
Mi spavento, madre dei miei silenzi.
Compari e mi perdo in ciò che sono.
Tu che valorizzi e denigri il mio essere.
Tu… serenità e delirio
Tu… carezza e schiaffo
Tu… pretesa e disperazione
Mi vesti di abiti diversi
Ed io delicatamente sorrido a ciò che sono… sola.




Enzo De Leo: Solitudine e narcisismo

“E’ quando ci sei che mi manchi”
Franca Grosso

Il termine “narcisismo” ha finito per assumere sempre più una connotazione negativa e, anzi, dispregiativa. In realtà aspetti narcisistici fanno parte normalmente e necessariamente della personalità di ciascuno di noi. Secondo Freud il narcisismo rappresenta una funzione essenziale al fine di costruire una propria capacità di vita autonoma, di avvertire un’adeguata autostima, di percepire confini definiti della propria identità e, ancora, che questi confini delimitino parti di sé diverse ma bene integrate.

In questo senso è possibile parlare di un narcisismo sano e funzionale alla maturazione dell’individuo e al mantenimento di buone relazioni con gli altri. Per dirla in breve e in maniera forse eccessivamente sintetica, concentrarsi su se stessi, cedere al bisogno di idealizzarsi, rivedere con autocompiacimento i propri successi, sottolineare a se stessi le proprie qualità e cosi via ci aiuta a ricompattarci e ad affrontare con più forza le sfide del mondo esterno e soprattutto le relazioni con gli altri.
Tuttavia, condizioni di vita per così dire particolarmente difficili, possono rendere impossibile mantenere una buona e stabile immagine di se stessi e gli aspetti narcisistici della personalità finiscono per debordare divenendo man mano pervasivi, in diverso grado, della personalità. Si parla in questo caso di narcisismo patologico la cui importanza, nella definizione complessiva della personalità varia seconda dei casi (fino a giungere al cosiddetto narcisismo maligno).
Cosa c’entra tutto questo con la solitudine di cui Carlo ci invita a parlare?

Ho scelto di parlare brevemente di questa tematica per due motivi. Intanto perché ritengo che il diffondersi del narcisismo (come tratto importante della personalità o come vera e propria patologia sociale) abbia molto a che vedere con la solitudine. Non intesa in questo caso come condizione in cui siamo da soli senza nessuno che ci tenga compagnia. Ma, al contrario, parlo qui di quei momenti in cui questo sentimento è tanto più struggente perché abbiamo vicino a noi persone – amici, familiari, compagn@ – la cui presenza, avvertita a distanze siderali, ci fa sentire ancora più soli. E’ questa la condizione di chi vive relazioni, di qualunque natura, con uomini o donne con importanti tratti narcisistici della personalità.

Nella storia della psicoanalisi il narcisismo è di solito considerato l’antitesi perfetta della capacità empatica. Quest’ultima è stata definita in diversi modi. Ma nella sostanza quando parliamo di empatia ci riferiamo a un’esperienza emotiva che ci permette di condividere – di vivere insieme – i sentimenti di un altro. Insomma, stare veramente con qualcuno è possibile se abbiamo la capacita di entrare in sintonia con gli altri, di fare esperienza dei sentimenti altrui. Questa possibilità è preclusa, in tutto o in parte, a coloro la cui personalità presenta rilevanti aspetti narcisistici. E preclusa al narcisista ma anche a chi si accompagna con lui.

Ha ragione Alfonso D’Arco, quando su questo blog parlando del rapporto medico paziente, pone l’accento sull’empatia come unica possibilità che si stabilisca fra i due una relazione reale. Senza questa relazione il malato rimane solo con la sua malattia e il medico finisce per perdere potenzialità terapeutiche enormi e una ricchezza che questo mestiere eccezionale è in grado di dare. Vale la pena di ricordare quel che diceva G.A. Maccacaro “L’unica salvezza del medico è con il malato che a lui la chiede” Sappiamo che per molti motivi, per i medici come per chiunque altro, la possibilità di una relazione empatica è una problematica – soprattutto in epoca di social – più che mai all’ordine del giorno.

La questione è resa più complessa (e più grave) dal fatto che le caratteristiche della società odierna sono tali da favorire il diffondersi in maniera esponenziale dei tratti narcisistici della personalità.
C. Lasch, alcuni decenni fa, ha scritto un saggio diventato poi molto famoso che si intitola appunto “La cultura del narcisismo”.

Si tratta non solo della descrizione di alcune caratteristiche psicologiche sempre più diffuse e tipiche di questa epoca, ma anche di un tentativo di individuarne cause e genesi.
Per cui, individualismo, difficolta ad esprimere sentimenti empatici nelle relazioni, culto del corpo e del successo vengono messi in relazione con la perdita progressiva di sicurezza e di autostima, caduta del principio di autorità, esasperato consumismo e valori diffusi da una pubblicità che al consumo smodato ènaturalmente finalizzata.
Ecco quindi che la questione si complica. Il desiderio di uscire da una condizione di solitudine trova seri ostacoli in tendenze socio – culturali che vanno in una direzione antitetica. Naturalmente esistono gruppi, persone, istituzioni che, anche se minoritari, si muovono, con proposte e azioni concrete, in direzione opposta. Vanno sicuramente da ascriversi a quest’ultime le numerose e sempre molto partecipate iniziative di Carlo che, stimolando il nostro narcisismo (sano, si spera) tendono a creare spazi di confronto, memoria condivisa, partecipazione collettiva e paritaria.




Giacomo Santarsieri: Solo come un… prete!

La Chiesa d’Occidente, nel corso della sua storia, ha legato progressivamente il celibato al sacerdozio. Essere prete, in Occidente, implica il celibato come stato di vita. Conosciamo le ragioni economiche, morali, pastorali e spirituali di questa situazione. D’altronde, può sembrare importante oggi riflettere sulla solitudine del prete che il celibato manifesta e accentua in maniera particolare. Riconosciamolo, il ministero sacerdotale rimane attraversato dalla solitudine.  
La solitudine del prete è uno dei temi più dibattuti dalla stampa e talkshow. Un tema senza dubbio di grande interesse che non sembra essere analizzato sempre compiutamente. La prima argomentazione prodotta con l’intento velato di denigrare, riguarda la scelta celibataria della Chiesa Cattolica. Ma la solitudine del prete non dipende dalla mancanza di cose o di persone ma piuttosto dall’ assenza della pienezza di Dio.  

Quasi a voler dimostrare che: l’unico modo per allontanare la solitudine basta una relazione matrimoniale. La solitudine che il prete vive non ha nulla a che vedere, almeno non in modo determinante, con il fatto che, tornato a casa, non ci sia qualcuno che gli corre incontro o che gli chiede di vedere i compiti, qualcuno con cui parlare o sfogarsi, con cui ridere o piangere. Esistono variegate diversificazioni a determinare il problema della solitudine del clero.  
Esiste ad esempio una incisiva differenza tra i sacerdoti diocesani (i parroci) e quelli che vivono nelle Fraternità (ordini religiosi) soggetti alla osservanza condivisa della “Regola”. Vivendo in fraternità i religiosi sono meno esposti ai pericoli della solitudine; anche se ciò non è sempre sufficiente quantomeno ad arginare il problema. Per fortuna diventano sempre più frequenti, e preziose, piccole esperienze di vita fraterna tra sacerdoti diocesani che decidono di vivere insieme almeno qualche momento della giornata.   È vitale per un prete, una volta uscito dalla prima formazione, di saper guardare oltre il proprio confine “geografico” di competenza, di saper dedicare del tempo a curare le relazioni all’interno del presbiterio, di sapersi interessare alla vita degli altri preti, per intercettarne eventuali bisogni o chiedere aiuto per sé.
Non poter contare su nessuno, sia per un momento di svago, che quando si sta male, è terribile. La formazione deve prevedere l’aspetto interpersonale in modo anche esperienziale, attraverso momenti concreti di condivisione, attraverso la possibilità di portare avanti, insieme con altri confratelli, un’attività, un servizio, un progetto.
I giovani vanno verificati sul fronte della collaborazione, della generosità reciproca, anche quando non sono dentro una realtà di vita comune, perché il saper stare con altri fratelli e sorelle non è un “compito” solo dei religiosi. Come mai può accadere una situazione simile? Come può succedere che un prete arrivi ad una solitudine “insopportabile”? Non c’è da scandalizzarsi, ma non tutto si può risolvere dicendo che è solo questione di fede (anche, ma non solo). Innanzitutto siamo in un tempo di grandi individualismi, e questa “malattia” colpisce tutti. Se si parla tanto del bisogno di ri-umanizzarsi, soprattutto nei rapporti interpersonali, è perché lì risiede il punto debole della nostra epoca.
La vera, grande, solitudine del prete è ritrovarsi solo ed inascoltato nel predicare Cristo. Solitudine è non poter dire basta alla folla di lacrime che stanno alla porta e bussano perché dire basta, come scriveva don Primo Mazzolari, sarebbe dire basta a Cristo che viene e questo è impossibile. La solitudine del prete è trovarsi talvolta come in un deserto a parlare ad un mondo che non ti vuole ascoltare, o che ti ascolterà un’altra volta (come risposero a Paolo di Tarso i greci dell’Areopago di Atene). L’uomo moderno spesso va in ceca e spende le sue energie pe ciò che non lo porta a salvarsi.

La solitudine del prete è avere un tesoro in vasi di creta, condividerlo ed accorgersi che alle persone interessa più il vaso del tesoro. Questa è la solitudine del prete, non poter fare a meno di predicare Cristo, ma doverlo predicare come è, crocifisso. In un mondo che, da sempre, fugge le croci e spera di pagarsi in qualche modo una improbabile risurrezione. Intanto non c’è da temere. Ci sono giorni così, ma non sono tanti, perché, alla fine, il prete non è mai solo, c’è sempre un tabernacolo che lo aspetta per l’ora di ascolto e i cuori aperti di fratelli e sorelle disposti a sostenerlo anche nelle sue fragilità… 




Giancarlo Durante: l’ambiguo privilegio della solitudine

Prima del post devo fare una premessa, che ritengo doverosa. Per evitare una qualche contiguità (che non mi appartiene) con certo intellettualismo radical-chic, devo dire subito che il mio rapporto con i libri e le modalità di lettura, spesso, non appare lineare. Mi spiego! Non appartengo alla categoria dei macinatori di libri né sono di quelli che pubblicizzano sui social l’ultimo best-seller acquistato. È  vero mi ritrovo talvolta a leggere libri un po’ strani(?), bizzarri, tipo:treni strettamente sorvegliati, il quarto angolo, la passeggiata, saggio sul cercatore di funghi (che non è un trattato di micologia). Posseggo un discreto numero di scritti letterari, molti mai iniziati, altri letti a metà o mai terminati. Posso distrarmi e talvolta mi capita di ritornare a rileggere la stessa frase o, quando un racconto ha tanti protagonisti, non è raro che li confonda tra di loro. Per dirne una: quel capolavoro letterario che è ”L’ombra del vento” di Zafòn ho impiegato circa un anno per terminarlo (anche se letto insieme ad altri, più scorrevoli).
Fatta la precisazione, con animo più sgombro posso partire!

Quando ci si confronta con il tema della solitudine a me, che ho un po’ la fissa dell’etimologia delle parole, la prima cosa che viene in mente è quel che scrisse tempo fa uno dei maggiori interpreti dell’opera di Joyce :Enrico Terrinoni. La lingua inglese, lo sappiamo, a differenza della nostra, tende a semplificare i concetti: è misurata, non pleonastica, talvolta, addirittura essenziale. Però sul concetto di solitudine appare, forse, più ricca di sfumature dell’italiano.
In inglese isolamento può essere insulation oppure isolation. . . Il primo lemma identifica la condizione di rimanere da soli, di essere tagliati fuori-ovvero un isolamento nello spazio; il secondo ci parla di solitudine, dell’esser separati dalle altre persone-ovvero un isolamento sociale, dal risvolto umano. . . . L’esilio, però, è una insulation in space e una isolation in spirit, come ricordò alla Vigilia di Natale del 1849 in un famoso sermone sulla solitudine di Cristo il reverendo Frederick W. Robertson. Ma è anche una condizione filosofica, a volte adottata consapevolmente per riuscire a tornare in sé e a parlare di quanto ci circonda. Ed è per questo che, dice sempre Terrinoni, è possibile addirittura invertire il messaggio (la Meditazione XVII, declamata dal Decano della Cattedrale di St Paul, John Donne nel novembre del 1621), quando tuonò “no men is island (un vero inno alla comunità e allo stare insieme) mutabile e mutato in “every man is an island”, ciascuno di noi è un’isola. Un concetto che descrive bene la condizione dell’uomo moderno. L’idea stessa di isola, poi, implica quello di viaggio e, perciò, di movimento.

Ma, in antitesi, dico io, rimanda anche all’uso, alla funzione che per secoli è stata affidata alle isole come confino, come esilio, isole come carceri (basti pensare a Procida o ad alcune trasposizioni cinematografiche, in “Fuga da Alcatraz “ o in “Shutter Island”). Il termine “isola”, precisa Terrinoni, viene dal latino “insula”. In antico inglese ealand significava qualcosa come “ terra bagnata da un fiume”. La stessa radice latina del termine proverrebbe dal greco sà-los , ovvero mare, acque tumultuose. In qualche stadio della storia della lingua la radice sàl/sol iniziò a significare il suo opposto, soil, suolo. Abbiamo, dunque, una stessa radice alla base di due concetti distanti di terra e acqua, senza cui l’idea stessa, anche etimologicamente, di isola sarebbe impossibile. Un’ ambiguità, un’apparente antinomia, che riscontriamo anche in autori del calibro di Montale, che nel 1952, in un saggio, quasi introvabile, dal titolo “La solitudine dell’artista” rimarcava il rapporto tra comunicazione e isolamento comunicativo, in un’antitesi, mai risolta, tra un io “ empirico” , soggettivo, profondo, isolato e un io trascendentale, capace di comunicare, che si rilevava alla fine un alter ego idealizzato(da “Montale e la parola Riflessa” di C. Ott).
Certo, come qualcuno mi ha suggerito, si potrebbe parlare di come siamo necessariamente soli nello spazio, nel cosmo, nonostante gli infiniti mondi e gli infiniti universi. Altrimenti quante cacciate dall’eden dovremmo avere, quante arche di noè, quanti golgota e quanti milioni di san Gennaro? No, temo che nonostante la scienza ci suggerisca il contrario, se vogliamo tenerci la splendida storia di Gesù, dovremmo pensare che Iddio nella sua infinita saggezza all’Uomo abbia voluto regalare una dolorosa, e, in fin dei conti, fantastica unica esperienza.

Nel ringraziare chi mi ha dato l’occasione, l’opportunità di trascorrere un po’ di tempo libero con me stesso, esaurito l’armamentario delle citazioni dotte, rimessomi dalla trance “ letteraria“, (posso dirlo senza sembrare decadente?) mi sembra di provare un po’ di vergogna, se solo di striscio penso alla nostra condizione di uomini privilegiati (a vario titolo e a diversa intensità), di cittadini dell’occidente grasso e crasso, che ha il tempo di discettare sulla propria (inesistente?) solitudine. Perché, lo sappiamo in tanti! Al mondo ci sono uomini e donne e bambine e ragazzi reclusi in territori desertificati dalle guerre o dal clima o terrorizzati in carrette in mezzo a una minacciosa distesa di mare: un’umanità sopraffatta dalla propria miseria, che ha solo l’urgenza di sopravvivere, spesso nemmeno sorretta dagli strumenti per pensare, elaborare . Anche ignara di essere sola!