Matteo Fasano: La valigia, partenza e arrivo in noi stessi

Ho preparato da poco la mia valigia e mi è comparsa l’ansia! Forse il ricordo di un viaggio passato o il sogno di una meta futura. Forse l’emozione di scoprire nuovi luoghi, culture e persone. Forse l’agitazione di preparare tutto il necessario o la nostalgia di lasciare qualcosa dietro. Compagna fedele che ci accompagna lungo il nostro percorso, testimone delle nostre scoperte, delle nostre gioie e delle nostre difficoltà, essa diventa il riflesso della nostra personalità, dei nostri gusti e delle nostre scelte.

La valigia ha un duplice emblema: è simbolo di partenza, di cambiamento, di sfida. Esploriamo il mondo, fuori dalla nostra comfort zone, come si usa dire di recente. Ci mettiamo alla prova, inseguendo la nostra curiosità, la nostra sete di conoscenza o semplicemente diventiamo pellegrini per realizzare i nostri sogni, per imparare, per crescere, per alimentare la nostra fede. Ma è anche un simbolo di ritorno, di arrivo, di appartenenza. In essa abbiamo portato le nostre storie, le nostre impressioni, le nostre emozioni. E in essa, almeno per me, non può mancare con il ritorno una piccola calamita dei luoghi che ho visitato. Lo confesso, forse è una stupidata acquistarne una in ogni luogo che visito ma quest’oggetto colorato è anche un modo, oltre che con la fotografia, per creare un legame con il territorio visitato. Porto con me un pezzo di quel mondo. Mi occorre per alimentare i sogni, per stimolare progetti futuri.

La valigia purtroppo è anche necessità, per chi, come me, ha affrontato un percorso di cure. Ansia e inquietudine sono diventati i miei compagni di viaggio. Ricordo ancora quella drammatica improvvisa fase di organizzazione, la scelta di oggetti personali, pensando forse che sarebbe stato il mio ultimo viaggio, la mia ultima valigia. La valigia diventa così un simbolo tangibile della situazione che stiamo affrontando, un segno che indica un momento di transizione e di cambiamento, poiché si tratta di prepararsi ad affrontare un periodo di sofferenza, di debolezza e di incertezza, in cui ogni dettaglio assume un’importanza cruciale.
Mentre affrontiamo l’inquietudine che può suscitare il momento di preparare una valigia, ricordiamo che a volte è nell’incertezza e nella vulnerabilità che possiamo trovare la forza di adattarci alle sfide che ci attendono, preparati a vivere ogni esperienza con coraggio e determinazione.
Ma sono momenti passati e quella valigia è stata poi riaperta più volte!
Viaggiare è diventato molto più di semplici spostamenti fisici da un luogo all’altro: è un’esperienza che mi ha permesso di arricchire la conoscenza, di immagazzinare impressioni e di alimentare la vitalità. Ogni posto visitato porta con sé un bagaglio di storie, di paesaggi e di emozioni che si insinua dentro di noi e ci cambia.

Le impressioni che raccogliamo, con l’inquietudine che può suscitare il momento di preparare una valigia, fa parte del nostro modus vivendi ma è nell’incertezza e nella vulnerabilità che possiamo trovare la forza di adattarci alle sfide che ci attendono, preparati a vivere ogni esperienza con coraggio e determinazione.
I nostri viaggi sono come tasselli di un puzzle che creano un quadro unico e irripetibile. L’incontro con paesaggi mozzafiato, con opere d’arte straordinarie, con persone affascinanti lascia un’impronta profonda dentro di noi, che arricchisce la nostra anima e ci permette di vedere il mondo con occhi nuovi: un toccasana per la nostra vitalità e per i nostri momenti di felicità. Con la nostra valigia, incontreremo persone diverse da noi ed alimenteremo una vitalità che deriva dalla conoscenza di posti nuovi con un senso di libertà, di avventura, di scoperta che ci rende più vivi e più consapevoli di noi stessi.




Giancarlo Durante: La valigia della restanza

Non più tardi di un mese fa una cara amica postava sui social le foto dei suoi preparativi per una partenza importante: un viaggio umanitario imminente in un villaggio congolese, uno dei tanti, sparsi in quello sterminato spazio abitato per lo più dalla miseria che è il Congo. Fotografava quattro valigie, enormi, gonfie fino all’inverosimile, e commentava: queste sono le prime quattro ma ne ho programmate, in aggiunta, altre quattro! Sapete, diceva, i bambini lì hanno bisogno di tutto! Questa che doveva essere la condivisione di una generosità non ostentata, merce sempre più rara, mi trasmetteva, a dire il vero, un sentimento di ammirazione misto a un non so che di rabbia e tristezza.
Ma come, nel 2024, ai tempi della neo-globalizzazione, abbiamo ancora la necessità di stipare in uno spazio angusto i nostri regali, di trasportarli e doverli consegnare di persona? Meditavo: possibile che non ci sia una modalità meno invasiva di questa, un po’ più moderna, che preservi affidabilità, celerità e sicurezza e che sia confacente ai nostri tempi? Questo per dire che io con la valigia ho sempre avuto un rapporto un po’ conflittuale. Non ne disconosco l’utilità, no, ma diciamo la verità: dov’è la valigia, là non ci sono io. La ritengo un contenitore in perenne fame d’aria e, come tutti gli oggetti chiusi, quindi, compressa e comprimente e, in fondo, anche deprimente (figuriamoci se fosse di noce o mogano!). Non mi evoca né la partenza né tantomeno il ritorno.

La vedo, poi, elencativa, classificatoria, numerologica. Mi trasmette un po’ l’ossessione per la programmazione, che confligge con l’imprevedibilità del viaggio. Perché, parliamoci chiaro, per quanto tu voglia metterci dentro tutto, qualcosa, alla fine, rimarrà sempre fuori. Tanti anni fa, nelle rare partenze che potevo permettermi da studente universitario, avevo ufficialmente delegato mia madre a prepararmi il bagaglio (e se non era fatto di cartone, poco ci mancava!). Poi il testimone è passato a mia moglie e, con gli anni, la valigia é diventata sempre più elegante, colorata, tecnologica, anche griffata.
Ma mai, dico mai, l’ho resa oggetto per me indispensabile. Poi se dobbiamo accennare che il tema dato sottintendeva il concetto di valigia dei desideri o dei sogni, la mia avversione, se possibile, si amplifica. Sarà un mio errore interpretativo, ma considero la valigia dei desideri un ossimoro.
Quanto i desideri sono aleatori, volatili, tanto la valigia è una potente appendice del sé, la sovrastruttura che ognuno si porta appresso.

Un po’ la plastica materializzazione della zavorra del proprio super-io, che, insieme ai titoli, ai riconoscimenti, ai diplomi veri o inventati, meritati o rubati, ci sovrastano e, alla fine, si rivelano disturbanti per un tranquillo percorso di vita. Pensate come sarebbe bello partire leggeri, vivere in una società liberata dalle valigie! Devo confessarvi, però, che una valigia, almeno una, posso dire di essere orgoglioso di possederla: quella che gelosamente custodisco nel soffitto di casa, intonsa, mai usata.
È la valigia della mia “restanza”, che non fu mai semplice permanenza, piuttosto coraggio della resistenza. Spesso mi capita di andare a scrutare il suo processo di mutazione nel tempo: la vedo di anno in anno trasformarsi in una conchiglia, aperta a mo’ di palmo di mano, mentre raccoglie un aquilone coloratissimo e magico.

 È quasi pronta! Un giorno, ne sono certo, mi permetterà, anche solo per qualche istante, di danzare, volando a pochi metri da terra, in un girotondo con le persone che ho conosciuto e a cui ho voluto bene. Ci sarò io e ci saranno loro e saranno presenti anche i figli e i nipoti che loro non hanno mai potuto conoscere. Sarà una danza leggera, impalpabile con i volti sorridenti di tutti, di chi ancora sta qui e di chi da tempo ci ha lasciati. E questo, posso dirlo con orgoglio, sarà il paradiso che mi sarò meritato!

N.D.R. questo è il primo post con il quale diamo inizio al gioco del commento generato dalla Intelligenza artificiale. Potete leggerlo qui di seguito




Marinella Melchionda: Una valigia leggera

Questa  è  la domanda prima della partenza e se l’idea  del viaggio è  piacevole, organizzare la propria valigia  è   noioso, spesso si vive ” con fatica”.
Tutti  vorremmo preparare un bagaglio  intelligente, contenuto ed essenziale  ma spesso lo arricchiamo  di  “inutilità “. Più  che abbondare dovremmo lasciare le nostre paure, le nostre cattive abitudini, partire” leggeri” e chiudere in valigia l’entusiasmo, la curiosità, uno sguardo  attento e innocente e preoccuparci di dividere  l’esperienza del viaggio con il compagno  ideale con cui confrontare  le nostre esperienze ed arricchire  i nostri ricordi.

Prendo una valigia leggera e salgo sul treno, carrozza meraviglia, lato finestrino, vicino all’imprevedibile.
(Fabrizio Caramagna
)




Maria Rita Saggese: La valigia verso un sogno

Questa settimana l’ho dedicata a preparare le valigie. Per me, che parto spesso, fare la valigia è un’operazione semplice e ben collaudata, ma questa volta no, perché parto alla volta di un sogno: la Patagonia.
Per raggiungerla passerò per Buenos Aires e la Penisola Valdes. Il  tango e i pinguini che incrocerò lungo questo percorso di avvicinamento costituiranno le tappe intermedie prima dell’arrivo a Ushuaia, nella Patagonia argentina per poi risalire verso il Perito Moreno, l’enorme ghiacciaio in movimento che si affaccia sul lago Argentino.
Quelle terre all’estremità sud del mondo abitato hanno esercitato un enorme fascino su tante persone, da Jovanotti a Chatwin . La mia passione per la Patagonia è iniziata molti anni fa leggendo il libro autobiografico di Pablo Neruda “  Confesso che ho vissuto”.  Il poeta racconta la sua vita a partire dall’infanzia nella Patagonia cilena. “…Sotto i vulcani, accanto ai ghiacciai, fra grandi laghi, il fragrante, il silenzioso, lo scarmigliato bosco cileno…” canta Neruda  ne  “La tierra austral”. È questo l’incipit che il poeta ha scelto per l’introduzione al libro e che conclude dicendo “….da quelle terre, da quel fango, da quel silenzio, io sono uscito ad andare, a cantare  per il mondo”. La sua infanzia, felice e naturale, immersa nel clima sconfinato di questa terra di frontiera, ritorna come una costante in tutta l’opera di Neruda.

Come non innamorarsi della Patagonia che ha ispirato una delle voci più potenti e appassionate della Poesia?
E quindi parto … e preparo le valige, con difficoltà, come ho detto, non solo perchè  l’Argentina è un paese lungo più di 3000 km e dovrò affrontare il caldo di Buenos Aires e il freddo del Perito Moreno ma soprattutto perché’ non so precisamente cosa troverò ad attendermi: i frequenti controlli sulle temperature delle città che visiterò ai confini del mondo mi hanno rimandato dati contrastanti, anche l’estremo sud non ha più le temperature di una volta, la crisi climatica morde anche lì, ovviamente. E quindi in valigia bisognerà mettere di tutto un po’, e a quel punto realizzare l’ambizione di portare con se’ quanto e’ necessario, niente di più e niente di meno, diventa una pia illusione, con grave disappunto della mia schiena.
Al disagio “pratico” per la preparazione di queste difficili valige se ne accompagna uno più profondo e sottile: il timore che la realtà non sia all’altezza del mio sogno, che questo sia stato stravolto dallo sfruttamento delle risorse e delle bellezze naturali, dal consumismo che porta me per prima ad affrontare un viaggio (comodamente organizzato) per raggiungerlo.

Probabilmente è un timore che accompagna tutti i sognatori e fa intimamente parte del pacchetto “sogno”. Chiunque intraprenda un viaggio reale o metaforico verso una meta desiderata lo mette in conto, o forse non proprio tutti, solo i più realisti.
Un po’ di sollievo al mio disagio mi viene dai poeti:

“Dietro un miraggio c’e sempre un miraggio da considerare
Come del resto alla fine di un viaggio
C’e sempre un viaggio da ricominciare….”

Canta Francesco De Gregori in “Viaggi e miraggi”

“…Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo sulla strada…”

Scrive Kostantinos Kavafis nella sua famosa poesia “Itaca”.

Da queste auliche cime discendo faticosamente con i piedi per terra, e quindi …. sotto con la preparazione delle valige, inevitabile scotto da pagare per affrontare un bel viaggio che ha come meta un sogno.




Antonio Bisogno: sedotta e abbandonata

A 18 anni mi sento già vecchia,mi ritrovo ad essere abbandonata,tradita, derelitta. Lui ormai, non mi degna più nemmeno di uno sguardo, mi ha letteralmente accantonata. E a rendermi ancora più triste è cosa dice di me un po’ con tutti, che sono imbolsita, che la mia pelle non è più liscia e levigata, che da tempo si vergognava ad uscire e a portarmi in giro con lui. È vero, ogni scarpa diventa scarpone, che anche Medea dopo tutto quello che aveva fatto per Giasone fu da lui abbandonata sola e piangente in un lontana isola, ma io ho solo 18 anni e sono stata sua senza se e senza ma da quando nei grandi magazzini posò gli occhi su di me la prima volta che ci incontrammo.
Eppure ce n’erano magari più belle e appariscenti di me. Ma ai suoi occhi esistevo solo io per lui. E da quando mi portò a casa mi fece sentire una regina, ogni volta che uscivamo mi teneva stretta a lui, non mi lasciava mai da sola, mi coccolava e accarezzava dappertutto, in strada, in tram, in stazione o negli aeroporti. Che tempi! Spesso mi tirava fuori di casa senza nessun preavviso e io condiscendente mi facevo in quattro per lui e gli davo tutto lo spazio di cui aveva bisogno.

Lui era sempre al primo posto per me, io invece mi aprivo tutta e mi chiudevo ai suoi comandi, accettavo la compagnia anche di quanti detestavo. Ne ho ingoiato di rospi per lui mai rifiutando il suo invito ad accompagnarlo in orari terribili, in luoghi che erano dall’altra parte del mondo, in ogni stagione, con qualsiasi temperatura.
Eravamo davvero inseparabili e quando successe per errore che io rimasi in aeroporto mentre lui non mi trovò pronta ad accoglierlo all’arrivo, perse completamente la testa,fece partire decine e decine di telefonate fin quando non mi rintracció.

Col passare del tempo però ho finito col perdere ai suoi occhi il fascino dei primi anni. Non mi accarezzava più, mi dava per scontata, ha cominciato con il lasciarmi da sola a casa. Anche in mia presenza si girava indietro, guardava con interesse quante passavano accanto a lui, addirittura qualche volta ho visto che non riusciva più a sottrarsi al desiderio di toccarle. E, il colmo dei colmi, qualche tempo fa si è presentato a casa con una di loro. È stato l’inizio della fine, una coabitazione che mi straziava il cuore. E se mei primi tempi a volte mi permetteva di uscire con lui, da tempo ormai non mi rivolge più nemmeno uno sguardo. L’altra è più giovane, bella e ha un look accattivante e nuovo. E come se non bastasse ho sentito che mi manderà fuori di casa abbandonandomi nelle mani del portinaio che è venuto a fare pulizie in cantina.




Fabrizio Obso Di Baldo: La valigia fedele

La mia valigia è quella di un uomo in perenne viaggio, un uomo che sa che non troverà mai un porto sicuro nel quale approdare. E’ la valigia delle incertezze, delle parole non dette, dei silenzi interrotti quando il silenzio sa comunicare, è il racconto di una vita. All’interno ci sono vestiti che narrano le mie esperienze e le trasformazioni avvenute nel corso degli anni, talvolta scelgo il vestito logoro dei ricordi, altre volte quello nuovo della leggerezza che non si trasforma mai, almeno spero, in superficialità. Ci sono spazi vuoti pronti ad accogliere nuove esperienze anche se il mio pessimismo mi fa sempre dubitare che ciò possa accadere. Ogni oggetto è un microscopico tassello del viaggio personale di uomo, una testimonianza dei luoghi che ho visitato e delle persone che ho incontrato lungo il cammino che hanno saputo dare un senso profondo alla mia esistenza. E mentre continua il mio viaggio, la valigia rimane la mia fedele compagna, una compagna invecchiata dal tempo, ma che sa, con profonda saggezza, indicarmi la direzione da seguire. E’ lei che porta me e non potrebbe essere altrimenti, è quello che siamo stati e che siamo che ci racconta quello che saremo.

Non dimentico mai, quando sono in partenza, di mettere nella mia valigia un libro di poesie e la musica di Bach. Ho sempre bisogno di ricordare che in un mondo violento e stupido, non può mai esistere la violenza se non è accompagnata dalla stupidità, esiste anche la bellezza, è la bellezza dell’esistere che dovrebbe indicarci la via da seguire, ma per distrazione tendiamo a dimenticarlo.

Il mio Neruda

Posso scrivere i versi più tristi questa notte.
Posso scrivere , ad esempio : La notte è stellata,
e tremolano, azzurri, gli astri in lontananza.
Il vento della notte gira nel cielo e canta.
Posso scrivere i versi più tristi questa notte.
Io l’amai , e a volte anche lei mi amò .
in notti come questa la tenni tra le mie braccia.
La baciai tante volte sotto il cielo infinito.
Lei mi amò, a volte anch’io l’amai.
Come non amare i suoi grandi occhi fissi.
Posso scrivere i versi più tristi questa notte.
Pensare che non l’ho. Sentire che l’ho perduta.
Udire la notte immensa, più immensa senza lei.
E il verso cade sull’anima come sull’erba la rugiada.
Che importa se il mio amore non poteva trattenerla.
La notte è stellata e lei non è con me.
É tutto. In lontananza qualcuno canta. In lontananza.
La mia anima non si rassegna ad averla perduta.
Come per avvicinarla il mio sguardo la cerca.
Il mio cuore la cerca, ma lei non è con me.
La stessa notte che fa biancheggiare gli stessi alberi.
Noi quelli di allora non siamo più gli stessi.
Più non l’amo, è certo, ma quanto l’amai.
La mia voce attraverso il vento le accarezza l’udito.
Di un altro. Sarà di un ‘altro. Come prima dei miei baci.
La sua voce, il suo corpo chiaro . I suoi occhi infiniti.
Più non l’amo, è certo, ma forse l’amo .
Perché è così breve l’amore, e così lungo l’oblio.
Perché in notti come questa la tenni tra le mie braccia,
e la mia anima non si rassegna ad averla perduta.
Benché questo sia l’ultimo dolore che lei mi causa
e questi gli ultimi versi che io le scrivo.




Massimo Astore: il bastone di Cartesio, l’acqua di Kant, Papà e Cacciari sulla Badia

“‘N c’aggio capito manc’o cazz ma è stato bellissimo”

Eh si perché tu t’aspetti il Cacciari che fa l’opinionista, come opinionano tutti ora, quello che polemizza con la scienza dei vaccini, che concretizza i dubbi sull’Ucraina, che sale sulla lista nera dei proscritti del corriere della sera. Ma c’è una differenza tra lui e noi, tra lui e l’opinionificio industriale di media e social, dove tutti sappiamo tutto e mettiamo bocca su tutto. Che lui opiniona e parla seduto sul terrazzo della conoscenza, con una dialettica fenomenale, con argomenti che poggiano su un sapere che ha una profondità storica.
Così arriva, prima di lui parlano quattro sciagurati che sponsorizzano l’evento, compreso un’assessore di destra che se potesse, Cacciarone gli sputerebbe in un occhio. Poi si siede e inizia a parlare. Dapprima parla la lingua degli esseri umani, racconta del momento in cui la filosofia si scinde dalla scienza e come da allora la fisica sia divenuta solo appannaggio della matematica. Io invece da quel momento in poi mi sono totalmente perso. Non sono più riuscito a stargli dietro, come quando vado in montagna con mio padre. Uguali…il mio quasi novantenne baffetto e Cacciarone.

E Cacciarone inizia a camminare nel suo bosco, e noi disorientati, e mio padre trova la strada pure se lo bendi e lo butti in vallone qualsiasi, lui alza gli occhietti sopra il baffo, con la sua aria di normalità e imbocca un sentiero. E Cacciarone bello smuove le foglie della scolastica, rivela essenti ed enti, calpesta Liebnitz e Kant come hummus di castagno. E io affanno dietro a papà e dietro a Cacciarone ma sento tutta la bellezza e mi sento ignorante e pigro, e mi viene il fiatone e mi accuccio ad ascoltare. Ta fisicà, e l’amore per la conoscenza deve trasformarsi in conoscenza già acquisita. Amare vuol dire non possedere. Inizio a sudare nel bosco e mi acquieto nel palchetto. Accetto la mia ignoranza ed inizio a divertirmi. Cacciari è solo, solo in tutti i sensi in tanti lo ascoltano ma lui è partito da solo, parla da solo, non si accorge di noi, qualcuno si offende, altri mostrano interesse, ma è meraviglioso. Parla a braccio per uno ora e mezza, forse più. Da l’idea di parlare con se stesso, e a volte si risponde. Non fa un movimento che non sia bocca. La stessa posa, gamba accavallata come nella foto, la stessa foto avrei potuto ripeterla a ritmi regolari di un quarto d’ora, sempre uguale. Cacciarone è in trance.

Mio padre arriva a un bivio tra le acacie tagliate e il brullo appena bruciato. Una via scende e una sale. Spero nella discesa, sono madido, le gambe mi tremano. Lui non si gira, sposta il bastone, passo regolare, ritmico, indica la salita. Cazzo. Vado. Vorrei buttarmi a terra. Vorrei uscire dal teatro. Massimino dice che tutto oggi è legato al numero, tutto si riduce a numeri, quantità, e alcuni grandi filosofi del passato erano matematici. Lo erano Cartesio e Liebnitz. Ma per un attimo sussulta e cambia posa. Uno degli organizzatori continua a immortalarlo col suo smartphone e lo distrae, lo desta dalla meta e lo porta nella fisica. Essente.
“- scusa, ti togli per favore con quest’aggeggio?- e si ricompone nella foto. E riparte. Il bosco dirada e mio padre arriva alla vecchia cartiera, un ruscello appare rigoglioso. Non indossa attrezzature da trekking, ha le sue scarpette scassate da ginnastica, il cappellino al contrario sulla testa quadrata, e cammina, cammina. Mi rivela che questa è la sua passeggiata che fa ogni giorno. Ha il bastone di nocciolo, semplice e leggero, non va per funghi, non cerca paesaggi da postare, cammina, cammina soltanto, cammina solo. Provo un invidia sana, una sana ammirazione, mi sento più vecchio di lui seminovantenne. Mi sento grato e purificato dalle parole di Massimone. Nel dettaglio c’ho calpito poco, sembrava un gramelot di Dario Fó, una poesia ermetica, ma tanto mi è entrato, tanto mi ha dato. Io adoro la parola, e avere il privilegio di sentirla maneggiare da un fuoriclasse, è come farsi una doccia, un bagno che ti ripulisce da tante parole inutili, spropositate, volgari, violente. La vegetazione si dirada.

Si intravede la grotta del Bonea, torna l’asfalto. Il passo è costante, passiamo il santuario dell’Avvocatella, la curvona con la croce, davanti al tabacchi solo le rughe hanno modificato gli astanti. Passiamo l’asilo, il noce, il cancello rosso. Arriviamo al garage, come sempre spalancato. Mio padre posa il suo bastone nel suo angolo, il cappello lo inzeppa sul bastone, prende il bottiglione da 5 litri di acqua della Badia e appanna la porta. Fa finta di chiuderla infilando un mazzariello biforcuto là dove andrebbe il lucchetto e sale. Io prendo l’ascensore, lui rigorosamente a piedi. In mano, l’unica cosa che raccoglie nei suoi passeggi:Un fiore per mia mamma.




Angela Pellegrino

Viaggiare per me è un bisogno, un nutrimento, un modo di vivere meglio, quindi amo fare la valigia.
Fare la valigia è già una piccola partenza, devi ‘seguire’ l’itinerario e pensare a cosa ti potrebbe occorrere, giorno per giorno.
Da molti anni mi attengo fedelmente al famoso ‘consiglio per il buon viaggiatore’: metti sul letto tutto ciò che pensi ti possa servire per il tuo viaggio, e poi togline la metà. Poi togli ancora una parte di ciò che resta, e il rimanente mettilo in valigia.
Mi insegnò mio padre ad amare i viaggi, fino da piccoli ci portava – nella sua Fiat del momento – in tutta l’Europa raggiungibile in auto, Parigi, Vienna, la Jugoslavia ecc, dopo che avevamo conosciuto ben bene l’Italia.

E sono cresciuta con questa passione, grazie alla quale ho girato buona parte del mondo raggiungibile.
Fare la valigia mi dà subito il buonumore, è segno che la partenza si avvicina. Oramai sono una ‘preparatrice di valigia’ esperta, me la sbrigo abbastanza facilmente.
Per esempio, faccio sempre in modo da lasciare in valigia uno spazio vuoto, per poterci stivare gli oggettini (non molti) che non manco mai di comprare nelle varie tappe, e poi ho un’altra abitudine. Mi porto sempre un paio di shirts, maglioni, pantaloni ecc, che non metto più ma che sono in buone condizioni, e li lascio alle cameriere, oppure a chi mi capita. Mi è capitato di regalare, per esempio a chi mi rifaceva la camera, una sciarpa o altro, vedendo sorrisi felici. A volte lascio le scarpe o anche capi di abbigliamento in camera, stando bene attenta ad appoggiarli sull’orlo del cestino, affinché si capisca che me ne voglio disfare, ma si veda che sono utilizzabili.
Quando vado in un paese socialmente ‘arretrato’ rispetto all’Italia, metto sempre in valigia delle cose da regalare – senza che sia umiliante – alle cameriere, oppure ai bambini e ragazzi che ci vengono incontro sorridenti quando scendiamo da un pullman, per esempio.
Viaggiare allarga il cuore e la mente, arricchisce e completa, e la valigia è la compagna di viaggio che non deve contenere solo abiti e accessori vari, ma anche un po’ di umanità.




Alfonsina De Filippis Cheli: la mia valigia sono io

La mia valigia sono io. Contengo in me tutto il necessario per il mio viaggio. Nel tempo è diventata un po’ pesante, ingombrante, ma non potrei alleggerirla di nulla. Dentro c’è l’occorrente per affrontare qualunque cammino, che sia sotto il sole cocente delle passioni o dentro la nebbia fitta delle mie paure e incertezze, in lei c’è sempre quel che serve per non perdermi , per ritrovare la strada, per rialzarmi e procedere o per fermarmi a riposare. In gioventù l’avevo organizzata per scomparti, una custodia per i ricordi, una tasca per i sogni, uno scomparto per le paure, uno per i desideri. Ora, quando ne guardo il contenuto, ritrovo pezzetti di vissuto un po’ sparpagliati che si agitano e sgomitano, si librano senza un ordine, mi invadono e mi conquistano, prendono il volo e mi stupiscono , mi toccano e mi pungono.

Tra immagini e suoni , voci , sorrisi persi, risate godute, battaglie mai vinte, conquiste e gioie, delusioni e sorprese, sospiro e sorrido, mi lascio invadere e cedo. La mia valigia è il mio cuore, un po’ malandato, ma mai veramente sconfitto. Posso andare ovunque, porto con me tutto il mio mondo, i miei amori, i miei ricordi, il mio passato, il mio presente e quel minuscolo cielo che è ormai il mio futuro. E’ un mondo colorato, pieni di profumi antichi e fruttati, di sguardi ormai lontani, di carezze ricevute e donate, di sorrisi regalati, di abbracci ormai irripetibili, un caleidoscopio di mille colori. Apro spesso questa valigia ormai segnata dal tempo, mi piace ciò che contiene, quello che ancora sa dirmi. Amo prendermene cura nei lunghi pomeriggi oziosi o nelle notti in cui pare non trovi pace…sciolgo le trame dei ricordi, accarezzo i miei cari perduti e quelli lontani, intreccio le mie speranze, rispolvero sogni ormai antichi, risveglio speranze che pensavo perdute . Pesa la mia valigia e a volte, sotto il suo peso, arranco, mi piego, affanno, rallento il mio passo….eppure l’amo, è mia perchè sono io, imperfetta , insolente , incerta…ma ricca, tanto ricca. La apro, ne guardo il contenuto e so di non aver vissuto invano. Bella, pesante e piena…la mia valigia!




Pasquale Perfetto: La valigia

«Buongiorno signore, carta d’imbarco e passaporto prego».
«Ecco, a lei».
«Quante valigie ha, signore?»
«Quattro».
«Quante?… Quattro!»
«Sì, quattro».
«Mi dispiace signore ma la franchigia bagagli è di tre colli».
«Senta signorina io ho bisogno di imbarcare tutt’e quattro le valigie, per me è necessario».
«Signore le consiglio di far entrare tutto il vestiario nei tre colli».
«No, non è possibile mi servono tutti, non posso lasciarli qua…»
«Dovrà farlo signore, diversamente non può imbarcarsi».
«La prego signorina non li posso lasciare qua, ne ho bisogno, senza mi sentirei nudo».
«Perché non elimina qualche indumento?»
«Non posso».
«Perché non può?»
«Volerebbero via!»
«Come volerebbero via?»
«Sì, volerebbero via».
«Scusi signore che razza di indumenti contengono le sue valigie?»
«Non sono indumenti».

«E cosa sono, signore?»
«Pensieri».
«Pensieri? Ma non sono troppe quattro valigie di pensieri?»
«No, io ci tengo alle mie comodità».
«E li deve portare tutti con sé? Non può lasciarne qualcuno a casa?»
«No, ho paura che li rubino».
«Be’ potrebbe ridurre il numero dei pensieri e farli entrare tutti in tre soli colli, non crede signore?»
«No, non me la sento, soffrirebbero troppo: incastrati l’uno sull’altro in uno spazio ristretto e senza luce… no, preferisco tenerli comodi».
«Ma perché, quanto tempo resta fuori, signore?»
«Sei mesi, signorina».
«Non può indossarne qualcuno più di una volta,? Tanto se sono freschi e puliti, possono essere riutilizzati e…»
«No, ne voglio indossare uno al giorno, i pensieri usati non mi piacciono».
«Può comprarne altri in viaggio, il costo non è eccessivo».
«I pensieri in vendita sono polverosi e antiquati, preferisco i miei».
«Senta signore io non posso aiutarla, lei deve assolutamente eliminare una valigia. Tolga la rossa».
«No, la rossa no».
«Perché la rossa no?»
«È quella dei pensieri d’amore».
«Allora la verde».
«Neanche, è quella dei pensieri di speranza».
«Quella blu allora».
«Nemmeno, è quella dei pensieri di pace».
«Non resta che la viola. Elimini quella viola allora».
«No! Proprio quella no!»
«Perché proprio quella no, signore? Che tipo di pensieri contiene quella valigia?»
«Ehm…»
«Allora? Me lo dice signore?»
«Ehm… quella viola non contiene pensieri».
«Cosa allora?»
«Ehm… sogni».
«Sogni?! Lo sa che il contrabbando di sogni è punibile con l’arresto immediato? Lei è un folle!»
«Lo so, lo so, ma i sogni sono miei, perché non dovrei portarli con me?»
«I sogni vanno condivisi con gli altri, altrimenti è impossibile che si realizzino. Apra subito la valigia viola e faccia uscire i sogni, in modo che possano beneficiarne anche gli altri. Si muova!».
«D’accordo, d’accordo lo faccio, ma non ne posso tenere qualcuno per me?»
«Non c’è bisogno: i sognatori come lei possono produrne tanti. Felice volo signore».