Anna Maria Morgera: l’urlo silenzioso della solitudine

Difficile definire la solitudine perché ha mille sfaccettature, si è spesso soli pur stando in mezzo alla gente e avendo intorno amici e famiglia. La solitudine è una condizione interiore esclusiva che non si vede, la sente solo chi la vive. La più brutta solitudine è perdere le motivazioni che mantengono viva la vita. Provai la più profonda solitudine dinanzi a mio padre agonizzante. L’impotenza rende soli. Solitudine non è essere soli. A me piace stare da sola sulle terrazze affacciate sulla baia della Calanca a Marina di Camerota, oppure seduta presso la torre delle Viole a contemplare il mare. Amo il silenzio delle spiagge e dei sentieri vuoti d’inverno, amo la quiete della città di notte. La solitudine è buio dell’anima e il buio spaventa perché nasconde mille incognite.   È quella del bambino che piange quella che erroneamente identifichiamo come sindrome dell’abbandono. Questa sindrome, benché non si voglia ammettere, ci accompagna tuta la vita. La solitudine è la paura di essere soli, sembra un gioco di parole, la realtà è che qualcosa si rompe dentro e siamo sopraffatti dallo smarrimento. Solitudine non è per esempio paura della morte, è la paura della sofferenza, è ritrovarsi in una dimensione ribaltata rispetto alla perdita di una persona cara e ad ogni altra dimensione. La solitudine rassomiglia a qualcosa che cade rompendosi. Quando qualcosa cade per terra si sente il rumore, a volte è fragoroso.  Ma quando si spezza dentro accade in assoluto silenzio. Io, però, nella mia solitudine ho sempre voluto che questa fosse evidente, che altri ascoltassero, che fosse almeno come un lieve suono di campana, invece era silenziosa, quel rumore c’era, esisteva era interno, ed era un urlo che nessuno all’infuori di me poteva sentire. Un boato così forte che le orecchie rintronavano e la testa faceva male. Si dimenava nel petto; ruggiva come la mamma orsa a cui è stato rapito il cucciolo. Era un’enorme bestia intrappolata che si agitava, presa dal panico e gridava come un prigioniero davanti ai propri sentimenti. La solitudine è così nessuno ne è indenne. È selvaggia, infiammata come una ferita aperta, esposta all’acqua salata del mare, spezza il cuore…. E non fa rumore.

La solitudine! Ore trascorse a pensare e a rivivere i nostri gesti, le parole, la gioia, fa male questo dolore che non se ne va mai. Mi sono sentita spesso sola, come un’intrusa nella mia stessa anima. Penso spesso che la Terra possa sentirsi molto sola in questa parte dell’universo, perché non c’è nessuno come lei, almeno nelle vicinanze. Nella solitudine io mi sento così, come la Terra.  Quanti fulmini, quanta indifferenza!

Da ragazza sognavo ad occhi aperti che, come da un mondo parallelo, qualcuno mi combaciasse e venisse a salvarmi. Sognavo ancora seduta sulla mia panchina in riva al mare Ma non si sedeva mai nessuno accanto a me, su quella panchina. Ecco perché la ricordo.   Una estate, una sera qualunque. Non so dire se ci fosse già prima che mi sedessi, ma c’era là, accanto a me, su quella solita panchina, non parlava, dondolava i piedi ed era a testa bassa: una bambina. Ogni tanto le davo un’occhiata, era tutta sola. Volevo sorridere come faceva lei o rendermi innocente come la sua immagine. Perché non aveva paura della strada deserta? Provavo a parlarle, ma non ci riuscivo, sentivo di sforzarmi e mi veniva da piangere. La osservavo con gli occhi lucidi e abbassavo lo sguardo sui miei piedi fermi. Chiunque ci avesse guardato, avrebbe capito la differenza tra l’essere bambino e il diventare adulto, tra la spensieratezza e il peso del mondo sui pensieri. Non è passato molto tempo da quella sera, da quella volta che mi sentivo un nodo soffocante in gola. Pochi anni. Nel frattempo sono corsa via dalla mia realtà, ho lasciato tutto ciò che credevo mi rallentasse o mi creasse costrizione. Pensavo fosse un sollievo cambiar vita, pensavo fosse possibile non sentirmi più sola. Ma sono sempre sola, lo sono davvero, sola con il corpo e con il cuore, è come non avere più nulla nemmeno il passato. La mia casa è laggiù sul mare. Da qui, dal mio “dentro” non si vedono nemmeno le stelle. È come avere sempre un cappello in testa e un collare lungo il collo, non puoi alzare il capo e non vedi altro che il solito colore e anche se qui piove sempre, non ci sono i miei fulmini sul mare, nessun ruggito del cielo, se non la mia voce che pare così debole sul manto della gente … Il tempo vola, incontrollabile, indifferente, mi sfugge e mi svuota, allontanandomi da quella che ero e dai sogni di ciò che avrei voluto essere. Perdo il senso delle mie passioni, pensando di raggiungerle, le ho abbandonate. Vorrei dipingere il sorriso di mia madre sulle pareti. Vorrei, se proprio devo piangere, tornar sulla mia bianca panchina. Vorrei tornar bambina … 

Che fai?”, le ho chiesto in sogno questa notte. La bambina che avevo incontrato quell’estate continuava a dondolare con le gambine e a sorridere. Non avevo il nodo in gola.
Perché sei tutta sola? –  Lei mi guarda ancora.
Non sono sola. – risponde. –
Rimango stupita, e lei ride: – Ci sei tu …
Davvero ti faccio compagnia? –  le chiedo rincuorata. Lei fa cenno di sì con la testa. –
Perché muovi sempre le tue gambe, non ti stanchi mai? –
La bimba si avvicina, sembra volermi sussurrare un segreto:
Tolgo la sabbia dai piedi … – mi dice. –

 Io l’abbraccio forte forte. Questo ho capito, questo faccio: abbraccio la mia infanzia, poiché crescere ci rende soli … la spensieratezza e l’innocenza dei sogni bianchi, questo perdura nei nostri occhi e solo così potrò avventurarmi senza spegnermi.  




Un viaggio con il sottomarino del “Comandante”

“Perché siamo italiani!” la frase finale di Favino nel film Comandante ha suscitato le stroncature di tanti giornalisti, critici ed  intellettuali soprattutto, purtroppo, sul giornale Il Manifesto e anche in parte sul Fatto Quotidiano.
Come se fosse il pensiero del regista De Angelis e non il modo per il protagonista di rifiutare il ruolo di eroe, di non sentirsi l’unico Sisifo costretto a portare  faticosamente su e giù il suo amor patrio senza riuscire a liberarlo dal pesante fardello  della retorica fascista e della guerra  che gli impedisce oltretutto di abbandonarsi alla sensualità e alla serenità della vita familiare.
Guardando il film sono ancor diventate più vivide nella mia mente le immagini dei fatiscenti barconi degli emigranti in balia delle onde del mediterraneo e (ce n’è sempre bisogno) la consapevolezza della spietatezza di ogni guerra in cui l’umanità per sopravvivere deve vestirsi da palombaro.

Ma forse anche il Carlo Panzella degli anni 70 avrebbe parlato male di questo film.

Marx Mandel Maitan

Marx, Mandel e Maitan mi avevano dato gli strumenti per capire e cercare di combattere le nefandezze del capitale e la lucidità delle loro analisi ancora oggi sono una piccola torcia per orientarmi nel buio sempre più cupo di questo mondo. Ma  il rischio era sempre di guardare un film a colori sul televisore in bianco e nero e giudicare un nuovo film, un nuovo libro, i comportamenti e le idee delle persone con uno schema estremamente bipolare: o di qua o di là. Per nostra fortuna la responsabilità verso gli operai e gli studenti cavesi e la nostra vita associativa giovenile ci impedivano di diventare estremisti censori, ciò nonostante, per esempio, coprimmo di foglie gialle l’affetto verso persone per esempio come Bruno, buono e generoso, sol perché era di destra. Con il tempo mi sono convinto che la palla al piede della sinistra europea è stata la sua impronta leninista: la miope ed ideologica scelta di Lenin di mettere alla guida della rivoluzione russa il partito bolscevico e non i soviet.

Salvatore Todaro

Ecco, stroncare un film come “Comandante” ed esaltare in maniera spropositata innocui film pur godibilissimi ma dei quali non vale la pena di parlare con nessuno, mi sembra l’avvelenato frutto della malattia del togliattismo-stalinismo  di cui da sempre è purtroppo è vittima buona parte della sinistra italiana (non parlo ovviamente del PD che considero un confuso  partito di centro più o meno simile alla fu sinistra democristiana), la maggior parte di quella che scrive sui giornali, quella dei partitini pulviscolo, quella che gironzola per le stanze delle televisioni; il fascismo si combatte sì con l’intransigenza e con la lotta politica ma non con la sottovalutazione delle emozioni, dei sentimenti popolari e delle contraddizioni del vivere quotidiano.
Naturalmente becera mi sembra la lettura dei giornalisti di destra ai quali la parola Italiani provoca orgasmo chiunque la pronunci. Ma su loro non voglio infierire più di tanto, voglio solo aggiungere che mi fanno ricordare il mio amico S. che raccontava che quando era ragazzino bastava che leggesse una frase tipo “Ella entrò nella stanza” per eccitarsi , e penso perciò che Meloni dovrebbe sentirsi responsabile delle loro masturbazioni mentali.

P.S. Spero che a tanti critici un po’ spocchiosi sia perlomeno piaciuta la lunga  e strabiliante citazione dei piatti della cucina italiana sui titoli di coda.  




Viaggi

Avrei voluto organizzare il caffè della valigia, ma fra impegni vari e disponibilità delle persone non è stato possibile;
avremo modo di incontrarci, però il blog già da segni di impazienza e perciò……..
……L’altra sera ho incontrato Angela e ho avuto la riprova che la sua valigia non riposa mai; appena ritornata dall’Argentina è ora in partenza per l’Andalusia ed allora ho pensato che dopo aver preparato le nostre valigie potremmo partire anche noi.
Una viaggio reale verso nuove mete o un ritorno verso terre già visitate, un gita fuori porta nelle pagine di un libro, una escursione fra le scene di un film, una toccata e fuga nelle terre dei desideri…. purché sia o sia  stato anche un vagabondare nella propria mente o un pellegrinaggio nel proprio animo.

Potremmo dire: “Dimmi dove sei stato e ti dirò chi sei”

Inizio io proprio con l’Andalusia riportando qui un ricordo che ho già condiviso con qualcuno di voi.

Cordoba 8,30 del mattino

In un giorno di fine settembre, insieme a silenziose persone assonnate come noi ci immergiamo, senza noiose file, nell’immensità della Mezquita, qui a Córdoba.
Per vetusta decisione del dittatore Franco, la Spagna ha dagli anni ‘30 la stessa ora della Germania e quindi anche dell’Italia e perciò il sole è ancora sonnacchioso e fa fatica, ma forse non ne ha voglia, a farsi largo fra le vetrate colorate.
La luce è timida e soffusa e gli orpelli cristiani, che alla maniera spagnola occupano chiassosamente le pareti di quella che fu la più maestosa moschea europea, sono ancora silenziosi e non offensivi per i nostri sguardi affamati di armonia.
L’ora mattutina rende un po’ pigri i visitatori che evitano di congelare troppo le emozioni e perciò pochi sono gli scatti fotografici e rari i selfie distruttivi della commozione.
Le innumerevoli colonne e gli archi rossi e bianchi intrappolano lo spazio e rallentano i minuti invitandoti ad un peregrinare randomatico in un gioco di cangianti visioni ottiche e mentali e di alterazioni del tempo.
Schiere geometriche di prospettive ti vengono incontro e ad ogni passo fra questi guardiani dell’anima, che ora ti invitano ad un percorso lineare ora ti suggeriscono nuovi angoli da esplorare, ti ammanti di ovattata leggerezza e ti sembra di percepire sempre di più un rassicurante profumo spirituale di infinito.

Ho rivisitato qualche giorno fa l’Alhambra che era stata per me il motivo principale del mio primo viaggio in Andalusia. Se la Mezquita è nutrimento per l’anima, Granada fu, la prima volta, il nutrimento della mente, il paradiso dei matematici, il regno palese e nascosto della Geometria. Non è stato così in questo viaggio. Sparita la curiosità e la ricerca delle simmetrie nei pavimenti e nelle pareti, non è bastato lo stupore per i giochi perfetti dell’acqua e della luce a dare vivacità a quella giornata e ne sono uscito stanco e un po’ deluso.
Eravamo in quattro , ma la visita viene fatta necessariamente insieme a centinaia di persone che lentamente in una sorta di sincronizzazione finiscono per imporre ai tuoi passi e ai tempi dell’anima il ritmo standard e spersonalizzato dei viaggi organizzati. Naturalmente questo vale solo per me che nella disorganizzazione mi trovo in genere molto bene.

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P.S. per quanti hanno scritto sulla valigia. Ho raccolto  i  vostri racconti in libricino e lo ho pubblicato su Amazon dove sarà disponibile fra qualche giorno. Ne prenderò tre copie che donerò ai primi tre di voi che incontrerò per strada. Gli altri se vorranno potranno acquistarlo su Amazon al prezzo di 5,5 Euro prezzo imposto da Amazon, con un accredito per me di ben 15 centesimi.

Ecco la copertina




Enzo De Leo: La valigia che lasciamo

Il più efficace meccanismo di difesa contro il pensiero della morte è la rimozione. Non pensarci. Purtroppo la rimozione non interviene guidata dalla nostra volontà. Tra l’altro proprio rispetto alla morte la rimozione funziona abbastanza bene quando più si è giovani e la vita ci sembra eterna. Ma l’approssimarsi inesorabile dell’ultima ora – come si diceva un tempo – rende la rimozione sempre meno efficace. Infine, oltre che impossibile, bisogna anche chiedersi se sia proprio un bene non pensare mai alla propria morte.
E’ evidente che il problema si pone in maniera diversa per coloro che credono nell’esistenza di un’altra vita rispetto a coloro che pensano che non esiste nessun al di là.

E tuttavia credenti e non credenti dovranno pur riconoscere che un mondo continuerà ad esistere anche quando non ci saremo più. E in questo mondo ci saranno i nostri figli, i coniugi, i compagni, i nipoti, gli amici, una umanità intera oltre agli animali, alle piante e all’universo che ci circonda. Se, per assurdo, potessimo rimuovere completamente il pensiero della morte ci sarebbe impossibile pensare a tutti quelli che restano e al lascito che desideriamo assicurare loro. Verrebbe meno – come osserva Francesco Campione, noto tanatologo italiano – “il sodalizio, che da sempre sostanzia ogni umanità, tra il morente del cui morire si fa carico il vivente e il vivente del cui vivere dopo la morte si fa carico il morente.”
Ma se tale sodalizio presuppone, da parte del morente, la necessità di farsi carico di quelli che gli sopravvivranno allora sarà si necessario preparare una valigia per il nostro ultimo viaggio, ma, stavolta, il nostro bagaglio non ci seguirà. Quest’ultima valigia contiene la dote che noi lasceremo ai nostri cari, ma anche a persone che non abbiamo mai conosciuto ma che beneficeranno di ciò che abbiamo saputo costruire nella nostra vita. Non importa se siamo medici, falegnami, casalinghe, scrittrici o muratori. Qualcosa di noi resterà per gli altri.

E’ evidente che con il passare degli anni e il sopraggiungere della vecchiaia la necessità di organizzare, in qualche modo, questa dote diventa qualcosa di più cosciente e più urgente. A chi darò la mia casa, l’orologio che era di mio nonno, i miei libri, le poesie che scrissi in gioventù? Ci sarà spazio per tutto? E si perché quando cominciamo a porci il problema della valigia ci accorgiamo che da qualche parte, in soffitta magari, c’è già una valigia, forse, ormai, un baule, con tante cose ( troppe? qualcosa verrà buttato? ) che avevamo cominciato a preparare senza pensare bene al loro destino. Ci sono quelle azioni, che a volte ci sono costate non poco, per aiutare i nostri figli nel loro percorso di vita, ma anche il frutto del nostro lavoro e di cui qualche traccia continua a vedersi, ci sono quei gesti di affetto o di solidarietà verso i nostri compagni che hanno reso loro la vita un po’ più sopportabile o addirittura migliore.
E troviamo anche, nella valigia, alcune cose che non ci piacerà vedere. Si tratta di sgarbi, a volte anche qualche cattiveria, quell’indifferenza che tanto fece soffrire quel mio amico e chissà quant’altro. Vorremmo togliere tutto questo per far spazio a cose migliori.

Ma non si può. Ormai sono là e vanno lasciate insieme a tutto il resto. Saranno gli altri a giudicare se tutto quello che ci sopravvive e che ormai è contenuto in una non tanto piccola valigia ha giustificato la pena che ci siamo dati per produrlo.




Carlo: Insopportabile acufene

Il mio amico Goti che soffre di un coriaceo acufene mi dice sempre che il silenzio è il più temibile alleato di questo disturbo. Ascoltare la musica, stare in compagnia di familiari ed amici, vedere un buon film è come rifugiarsi sotto una campana di vetro che tiene fuori l’acuta monotonia del tinnito.

Succede a me, come a tanti altri, una cosa simile.

Se sto con Anna, con Lucia , con Rosaria, se mi faccio riscaldare dal calore dell’amicizia, se mi immergo nella lettura di un libro, se ad  accarezzarmi le orecchie sono  le mie canzoni preferite, se i miei occhi si perdono in immagini e scene accattivanti, se mi misuro con un problema di matematica o con una sfida a scacchi, se esco per una passeggiata nel verde, se dedico le mie ore a questo blog, se sono in viaggio o lo sto organizzando… ecco che i rumori sordi del mondo si attenuano fino qualche volta a scomparire quasi del tutto. La pace e la serenità nel mondo sono diventate rarissime , ma in questi momenti riesco a percepire,  anche se ovattato, il profumo della tranquillità interiore.
Ma le guerre, la merce, la miseria, la miopia e gli interessi, la crudeltà, l’arroganza, i bambini e le donne massacrati, le bombe, i soldi sporchi di sangue sono testardamente lì fuori e riescono sempre come un cavallo di Troia a penetrare nella mia mente anche se non leggo i giornali, anche se non accendo la tv. Appena alzo gli occhi il panorama grigio , spietato e doloroso mi appare immodificabile, anzi sempre più cupo e più nero.

Uguaglianza, libertà, fraternità, dignità come fede, speranza e carità sono ormai solo parole sempre più desuete e prive di forza.
Oscar Wilde diceva di essere socialista perché vedere la sofferenza degli ultimi gli impediva di vivere come individuo libero.  A me oggi la brutalità di questo mondo induce solo un senso di impotenza, di inadeguetezza ed i momenti anche gioiosi e leggeri della giornata sono sempre appoggiati su una amara vellutata di erbe indigeste.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi

Ma credo che non ci siano, se mai siano esistiti, approdi  o buoni venti per  questo vasel nel quale caricare le valigie mie e di altri trenta,  come sembrano non esserci per quanti, molto ma molto meno privilegiati di me, cercano di fuggire  dalla  miseria e dalle mitragliatrici su affollatissimi barconi con i loro bagagli di emigranti di cui parla Enzo. Per tanti di loro solo la morte  e la  spietata insensibilità di chi potrebbe e dovrebbe accoglierli ma reagisce  come il satollo riccone che, uscendo dal ristorante, al  mendicante che chiedeva l’elemosina perché aveva fame,  rispose “Beato te, io mo sto schiattando!”.

Il buon papa Francesco dice “Siamo tutti fratelli”.  No!  Su questo non sono d’accordo.   Quel satollo signore come tutti quelli come lui non sono miei fratelli; un tempo avevo creduto di poter svuotare le loro valigie e distribuirne il contenuto ora mi accontenterei di  poterne fuggire  lontano in un luogo per liberarmi dell’acufene che ogni giorno mi tormenta con l’insopportabile rumore delle loro falsità, della  loro ipocrisia e dei  loro non 7 ma 700 vizi capitali; ma l’isola che non c’è purtroppo veramente non c’è .




Enzo De Leo: La valigia dell’emigrante

Anch’io, come altri che hanno scritto su questo blog, preferisco una valigia leggera. Ma quando ho cominciato a pensare al tema che questa volta ci è stato proposto e procedendo mentalmente per associazioni, quasi senza farci caso, mi sono venute in mente le valigie dei migranti, il bagaglio che questi viaggiatori per forza maggiore si portano dietro nelle lunghe traversate tra terra e mare, quell’aggettivo mi è parso fuori luogo. Mi sono sentito quasi un po’ ridicolo pensando alla borsa che qualche volta porto con me in qualche fine settimana preoccupandomi di non farmi mancare lamette e dopobarba. Lo so, così stanno le cose. Ma è meglio che ogni tanto ce lo diciamo: esistono altri viaggi e altre valigie.

Ma intanto mi è venuta la voglia di approfondire un po’ l’argomento.

Ho scoperto così che sui bagagli dei migranti esistono diversi studi e interessanti pubblicazioni. Tramite queste ho appreso che la gran parte delle poche cose che i migranti portano con sé sono ricordi della loro terra. Molte fotografie contenute in un immancabile cellulare e oggetti di vario genere spesso singolari. L’antropologo Luca Pisoni, autore di un’importante ricerca poi pubblicata in un libro – Il bagaglio intimo, Meltemi linee – parla di bibbie, corani, amuleti vudù, mazze da cricket e magliette di calcio. Insomma tutto quello che può alleviare la nostalgia di un paese che potrebbero non rivedere.   Giustamente, a questo proposito, scrivono V. Pieroni e A. Santos Ferminino – “La valigia del migrante” ricerca finanziata dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali – che quando il migrante parte si attrezza
“….portando con sé la sua valigia dove racchiude il suo progetto di vita e tutto il suo bagaglio fatto di speranze, sogni, nostalgie, paure per il distacco dalla rete familiare, amicale e sociale. Come tale la valigia rappresenta il contenitore più prezioso per l’immigrato, in quanto equivale alla sua identità: li dentro egli racchiude il suo modo di essere, il bagaglio culturale, il progetto di andare a trapiantare altrove la sua vita. Emigrare significa infatti il distacco da quell’ insieme di relazioni familiari e comunitarie che nella cultura dell’origine proteggevano e garantivano sicurezza a ciascun membro della famiglia.”

Ma questi bagagli non sempre giungono a destinazione. Particolarmente esposti alla perdita di esso sono i minori, spesso bambini non accompagnati che vengono provvisti alla partenza di una valigia contenente quanto si ritiene più utile. Il caso di bambini che partono da soli è tutt’altro che marginale. Nell’unica ricerca che ho trovato su questo fenomeno vengono segnalati ben 15000 minori, bambini compresi, che hanno compiuto la traversata da soli tra il 2013 e il 2015. Nella gran parte dei casi, quelli che sono giunti a destinazione non avevano più la valigia.

Non e’ grossa, non e’ pesante
la valigia dell’emigrante…..
C’e’ un po’ di terra del mio villaggio
per non restare solo in viaggio..
Un vestito, un pane, un frutto,
e questo e’ tutto.
Ma il cuore no, non l’ ho portato:
nella valigia non ci e’ entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuol venire.
Lui resta, fedele come un cane,
nella terra che non da’ pane:
un piccolo campo, proprio lassù…
ma il treno corre: non si vede piu’.
Gianni Rodari




Francesco Accarino: Valigia… amo et aliquando odi

Esortato a scrivere su questo tema, scopro che, da tempo, alla valigia penso spesso.
Anzitutto perché l’ho sempre a portata di mano; poi perché non c’è mese che non la utilizzi, ormai da decenni, per lavoro, per piacere, per ragioni varie. Qualche anno fa, dopo un periodo di maniacale attenzione per la massimizzazione del contenuto ideale, feci anche una presentazione agli amici, Ex allievi del liceo, alla “Ciurma” di Vietri. Poi, più efficacemente, preparai una tabella con le componenti della mia valigia-tipo, in modo da non dimenticare il necessario. Con il tempo, ho constatato di aver memorizzato un archivio di valigie da 2 a 15 giorni,  per lavoro o vacanze a mare, sulla neve, o in altre località: un po’ dappertutto.
Ma i sentimenti tra me e lei non sono tuttora chiari: è una avversaria da sconfiggere quando la riempio? è un mezzo per garantirmi viaggio e soggiorno senza ansie? è una fidata alleata, nell’attesa in stazione, in aeroporto? un’amica che rivedo, sollevato, sbucare dal nastro bagagli? Poveretta! È solo un contenitore! Mi dà quel che le ho affidato: è il mio transfert.

Eppure suscita sentimenti di alterità: è pesante è leggera, è fatta bene, è fatta male. A pensarci bene è un’àncora, contiene quel che sento di aver lasciato, la sicurezza, il calore, l’affetto, la quotidianità di casa. Dovunque io sia, qualunque sia la ragione che mi porta via, la valigia mi ricorda da dove vengo, da dove sono partito, quante miglia ho fatto e, soprattutto, che mi piace tornare.

All’aeroporto di Napoli, alcuni anni fa, comprai un libricino che prometteva aiuto a scegliere e a fare la valigia. Una delusione! Notizie note e arcinote, senza utilità pratica.
Più passa il tempo e più la mia valigia è leggera! In questo sono aiutato dai nuovi materiali di minimo ingombro, atermici, utili per ogni circostanza: smanicati, tute tecniche, tessuti impalpabili e ingualcibili di giacche e vestiti. E, ammetto anche: scopro che, il giorno del rientro, ho sempre più fretta nel prepararla.
Però, confesso che, da qualche anno, quotidianamente utilizzo lo zaino per portare con me quel che mi serve: i fascicoli (che potrebbero essere riposti nella tradizionale borsa dell’avvocato), ma anche e soprattutto una sorta di cassetta per ogni evenienza. Ci sono post it, penne, blocco appunti, biglietti da visita, pennarello, forbici, minispillatrice, prese per cellulare, ombrello pieghevole, disinfettante (residuo Covid), smanicato leggero, caricabatteria, pin e distintivi Lion, ecc. Insomma la sacca di Eta Beta. Sostituisce la valigia? No!…. È la coperta di Linus, una sorta di amuleto contro gli imprevisti. Ma non è la valigia!!!!

Video su come sistemare le valigie

Gli anni passano e la valigia è primaria compagna della notte (anche una) fuori casa, caso mai insieme allo zaino. E, se pur il desiderio di stanzialità aumenta, cedo alle tentazioni. …… Vuoi venire a Bologna? Sì quando …; In udienza a Roma chi ci va?  Io, così posso andare anche a ….; c’è il Congresso a Genova ……..;  c’è l’incontro a Arezzo ……; c’è , c’è, c’è  ….. Cerco di organizzarmi e vengo. E lei, la valigia, remissiva e paziente, ad assecondare le violenti forzature per un inutile maglione che non vuole entrare, a cercare di “dimagrire“ per rientrare nei bagagli a mano, o ad adeguarsi alle recenti decisioni di Trenitalia che dal 1/3/2024 impone una valigia per passeggero.

Nel viaggio senza valigia? Un naufrago!

Vi lascio la mia tabella: potrebbe essere utile.




Enzo Senatore: borsa tuttofare

Più che ad una valigia dedico il mio pensiero ad una mia borsa di lavoro, regalo di laurea, che ho riempito dei più svariati documenti in quasi circa trent’anni di suo onorato servizio.
E’ stata al mio fianco in stagioni totalmente diverse della mia vita ed in contesti assolutamente disomogenei.
Agli inizi avrebbe dovuto contenere solo libri, codici ed appunti di lezioni; in realtà io le detti quella destinazione, ma solo part-time….prevalentemente in concomitanza di corsi di approfondimento e, prevalentemente, di mattina.

Per due volte durante la settimana e in tutti i fine settimana codici, pandette e simili venivano riposti sul tavolo per fare posto, all’interno della borsa, a distinte di gara, documenti di riconoscimento, schemi di allenamento e di gioco che, particolarmente dal 1991 al 1993, utilizzavo per svolgere le funzioni di allenatore della squadra di calcio denominata “Centro Storico”, una formazione amatoriale della quale avevo assunto la direzione inizialmente con i miei amici Marcello Di Domenico e Mario Fimiani- questi ultimi impegnati in campo- e, successivamente, con gli altrettanto amici Enzo Lampis e Marco Antonio Monaco.
Conclusi gli impegni di campo, la stessa borsa veniva da me utilizzata- in quello stesso periodo- per inserire appunti utili per tenere una trasmissione sportiva domenicale a Radio Nova Campania e per la radiocronaca delle partite della Cavese.

Centro Storico…tanti anni dopo

Sottesa all’uso promiscuo di quella borsa di lavoro vi era una finalità poco nobile…. quella di mascherare agli occhi di mio padre i miei molteplici impegni extra studio che egli, a ragione, considerava come delle autentiche minacce per la mia futura realizzazione professionale….
Ritenevo che, vedendomi uscire di casa sempre con quella borsa di lavoro, egli si rassicurasse circa l’assenza di distrazioni rispetto al mio percorso di studi post universitario…..in realtà mi illudevo….una domenica a mia insaputa venne a vedere al campo sportivo di San Pietro una partita del Centro Storico da me allenato…si giocava il derby contro il San Gaetano Pianesi e ad un quarto d’ora dal termine il risultato non si sbloccava….inserii un attaccante al posto di un centrocampista ed il nuovo entrato pochi istanti dopo siglò il gol della vittoria….al mio ritorno a casa, ad ora di pranzo, mi venne dalle spalle e mi disse: ” Però un allenatore che indovina una sostituzione è bravo”.

Senatore Raffaele…mio padre

Quel complimento mi colse doppiamente di sorpresa….in primo luogo, perchè mio padre non era solito farmene e, soprattutto, perchè mai mi sarei atteso un apprezzamento per la mia improbabile attività di allenatore di calcio…..in ogni caso, fu un modo- molto elegante ed efficace- per farmi capire che lui non si era bevuto la mia messinscena dell’uso promiscuo di quella borsa di lavoro….
In ogni caso, quando gli obiettivi professionali furono raggiunti, per un senso di gratitudine , per avermi fatto compagnia in quel tempo giovanile in così tanti e diversi contesti, portai con me quella borsa di cuoio marrone nei diversi posti in cui mi sono trovato ad operare: in provincia di Catanzaro, a Battipaglia, ad Avellino, a Salerno e, per un breve periodo, anche a Roma.
Poi divenne, d’un tratto, troppo grande e non più necessaria perchè la dematerializzazione del telematico aveva eliminato il cartaceo e, dunque, una PenDrive riposta nel taschino della giacca più comodamente svolgeva le funzioni che un tempo erano state di quella borsa.
Così finì sotto la mia scrivania per rimanervi inutilizzata.
In occasione della riflessione sulla valigia “imposta” dal carissimo Carlo ho provato timidamente a cercarla in qualche armadio, essendo stata, nel frattempo, da “ignote mani” rimossa da sotto alla scrivania. Non l’ho trovata ed a quel punto non ho osato chiedere quando, da chi e come sia stata smaltita…messa da parte fisicamente….certamente non dal mio cuore.




Anna Maria Morgera:La valigia della vita

La mia è una valigia piena di ricordi. E’ un lungo viaggio nella vita, iniziato nel 1940, tempo di guerra a Napoli. Da allora non ho mai smesso di viaggiare con la valigia piena di abiti e con la fantasia. A dieci anni feci il primo lungo viaggio in treno diretta a Venezia, città divenuta poi la mia seconda casa. I viaggi più belli sono stati quelli con Raffaele e le mie tre figlie. Avevamo una Miniminor bianca così carica che il portabagagli non fu più sufficiente e comprammo un carrello. Valige? NOOOO bauli e la immancabile tenda.

Ne potrei raccontare di aneddoti! Quando le figlie divennero grandi non vollero più venire con noi, preferivano gli amici. Vere avventure di due coniugi incoscienti. Valle d’Aosta, Courmayeur. Decidemmo di andare su al rifugio, ma la seggiovia era ferma, la signorina della stazione, con moltissima scortesia ci disse: “Le escursioni sono terminate andate a piedi!” Andare dove? Rammentai che al club alpino mi avevano raccomandato di seguire sempre lo stesso percorso numerato. Per salire a Courmayeur era il numero 4 e ci avviammo. La gente ci passava davanti, salutava e spariva, sui prati signore in costume prendevano il sole.

Salivamo mangiando fontina e pane casereccio, l’orologio segnava sempre le 14, arrivammo in un bellissimo alpeggio, su una roccia lessi: 3250 metri, qui la valanga…” O cavolo !- urlai – dobbiamo tornare immediatamente indietro.” A valle l’orologio segnava le 18…avevamo rischiato di essere presi dal buio e perderci. Spagna, anni sessanta la valigia piena di gioventù, settembre un caldo atroce. A Barcellona prendemmo alloggio all’hotel Gaudi. Stanchi per il lungo viaggio in treno andammo a letto, la valigia sul pavimento, aperta. Nella notte sentii il rumore di una fontana aperta, Raffale al mio fianco non c’era, scesi dal letto per andare a cercarlo e mi trovai con l’acqua alle caviglie. La valigia zuppa e le mutande che nuotavano in un mare d’acqua. Intanto qualcuno bussava con forza alla porta. Avevamo allagato l’albergo…il mio signor marito aveva caldo ed era andato a farsi un bagno, ma…ma …. si era addormentato nella vasca da bagno col rubinetto aperto. Ci cambiarono stanza e dovemmo pagare le donne che vennero a mettere in ordine. Poi la valigia è servita per viaggi affatto ameni, per salute Cava-Milano, Milano-Cava. Ora la valigia è un fardello di memore bellissime e tristezze, di rimpianti, di successi e fallimenti… è.. La valigia della vita.




Francesco Puccio: Valigia smarrita

In quel noi c’era la vita che Sofia non aveva potuto vivere con Damian, che non aveva fatto in tempo, come se avesse ripreso a riempire una valigia così piena di sogni e di aspettative da doversi sedere sopra per poterla chiudere.
In quel noi lei ci vedeva due individui, non più tanto giovani, che stavano mettendo un mattone dopo l’altro sulla vita avvenire, che ora erano in due, ma che presto sarebbero potuti diventare tre o quattro, e loro sarebbero stati lì a dargli la mano per portarli a scuola o a una lezione di danza e d’inglese.
E poi quei figli sarebbero cresciuti e avrebbero fatto da soli, avrebbero portato a casa i primi fidanzati e le prime fidanzate, e non si sarebbe fatto in tempo ad abituarsi alle loro presenze che non li si sarebbe più visti, e avrebbero acceso le prime sigarette, di nascosto, fuori al balcone o chiusi nella stanza a sentire musica a tutto volume e a parlare al telefono per interi pomeriggi.
E le urla delle prime litigate e le ribellioni sul modo di educare, le richieste da grandi mentre dentro erano ancora bambini, i borsoni preparati la domenica sera e ritrovati pieni di panni da lavare il sabato successivo, i viaggi sul continente, e le preoccupazioni di una strada da inventarsi col futuro troppo piccolo per poterlo racchiudere in un pezzo di carta.