Giancarlo Durante: Praga ’78 nera e misteriosa bellezza

 Vivere è stare sveglie concedersi agli altri,
dare di sé sempre il meglio e non essere scaltri.
Vivere è amare la vita coi suoi funerali e i suoi balli,
trovare favole e miti
nelle vicende più squallide.
Angelo Maria Ripellino – da Wikipedia-

Avevo da poco compiuto i 18 anni quando Jan Palach il 16 gennaio del 1969 volle esprimere la sua fiera opposizione alla dittatura imposta dai sovietici in Cecoslovacchia, dandosi fuoco in Piazza San Venceslao a Praga. Immolare la propria vita per ideali così alti da parte di un giovane, quasi mio coetaneo, colpì, e, in qualche modo, segnò molti di noi, incuriositi dai movimenti libertari che si andavano sviluppando negli Stati Uniti, in Francia e in quasi tutta l’Europa Occidentale. Ci fu questo, ma anche altro, a spiegare perché dieci anni dopo fui spinto a visitare “la nera bellezza” di Praga. Un po’ di tempo prima con amici, mentre attraversavamo la Cecoslovacchia per raggiungere Cracovia, in un viaggio che precedeva non di molto i tic maschilisti di un’ italietta non solo da sottoproletariato (come raccontato nel film icona di Verdone “Un sacco bello“) , avevo conosciuto una ragazza che ci aveva chiesto un passaggio in auto per qualche chilometro. Come appresi dalla corrispondenza epistolare intrecciata, che seguì quella rapida conoscenza, Jana si era, poi, iscritta alla Facoltà di Lingue proprio a Praga. Decisi di andarla a trovare e di visitare quella splendida capitale europea, tante volte immaginata leggendo l’incredibile descrizione che ne volle fare Angelo Maria Ripellino in “Praga Magica”. ”Una città che chi l’abbia guardata una volta nei profondi occhi trepidi e misteriosi, resta per tutta la vita succubo dell’incantatrice. . . . , per secoli nido di avventurieri senza pietà né legami, …. dalla quale ciascuno strappava, ingoiava un pezzo della viva polpa . . . , la quale dava sino ad esaurirsi, senza che alcuno le si desse, per ripagarla di ciò che le aveva tolto”.

https://www.facebook.com/watch/?v=823490361610228

Arrivato di buon mattino con viaggio aereo da Roma mi recai al Centro della Città presso l’ Ufficio di Turismo Giovanile, al quale mi ero precedentemente iscritto. Mi consigliarono, o meglio mi assegnarono, una sistemazione presso una delle camerette ricavate da un barcone ancorato su una delle due rive della Vltava. Ero un giovane Medico senza grandi disponibilità economiche e senza grosse pretese. Accettai, recandomi subito a fare il check-in in quella sorta di piccolo Hotel. Attraversando Vaclavske Namesti (Piazza San Venceslao), il lungo boulevard, che ha inizio dal Narodni Museum e si biforca, poi, in due importanti arterie (una delle quali è l’elegante Na Prikopè), oltre che dai palazzi dell’antica nobiltà ceca requisiti dallo Stato e trasformati in raffinati ristoranti, rimasi incuriosito dai tanti giovani in istrada che con passo veloce, imbracciando le custodie di vari strumenti musicali, si recavano a lezione di musica. Risulterebbe noioso e ridondante elencare i percorsi (e nemmeno li ricordo tutti), riportati in qualsiasi guida turistica e rivissuti tanti anni dopo con Rosanna:Mala Strana e il Ponte Carlo, La Piazza della Città Vecchia, la Torre dell’Orologio, il Teatro Nazionale, la Cattedrale di S. Vito, e il Municipio di Praga, oltre all’impareggiabile Castello di Praga con la sua Viuzza d’oro.

Vi dirò, quindi, un po’ della mia Praga del ’78.

Uno dei miei desideri (forse perché da poco avevo finito di leggere Il Castello) fu quello di visitare la tomba di Franz Kafka, situata presso il Nový židovský Hřbitov (il Nuovo Cimitero Ebraico). In un luogo che certamente non trasmette allegria, mi venne d’immaginare che se per avventura quei feretri, quelle ossa con un sussulto si fossero anche per pochi istanti riappropriati dei propri corpi, non avrebbero potuto che gridare “Non dimenticate in quale abisso la natura umana può sprofondare”. O qualcosa di simile. E non erano solo le ombre di quelle poche centinaia di ebrei sopravvissuti alla furia dell’olocausto. C’erano anche le vittime della Resistenza alla dittatura comunista del ’68 e altri ancora: tutti quegli onesti, composti, spesso colti cittadini cechi, slovacchi, tedeschi, ebrei costretti in terra boema a lunghi anni di tirannia, nella condizione di paura e terrore che si hanno quando si è privati di libertà essenziali. Quest’immagine trasmessami dalla città di una “defenestrazione assoluta”, come l’ha appellata qualcuno, mi accorsi non poteva essere disgiunta da un’altra, simmetrica e opposta, che si ha osservando di sera Praga dalla sommità del Castello di Hradcany.

”Se guardi di lassù Praga, che accende ad una ad una le sue luci, ti senti come uno che volentieri si getterebbe a capofitto in un lago chimerico (V. Nezval)”. Ti accorgi, così, che  “il lutto cosmico, il lato misterico e l’ambiguità” di Praga non poteva avere una descrizione più appropriata e commossa di quella offerta da Ripellino nelle lunghe pagine del suo libro su Praga.

Incontrai la ragazza nel suo collegio femminile situato non lontano da una fermata della metro di Piazza della Pace. Le avevo portato come regalo un profumo italiano e l’ultimo L. P. dei Pooh, che ascoltammo insieme alle sue colleghe di stanza. Cenammo in uno dei ristoranti di Piazza San Venceslao.

Poi la riaccompagnai (era molto tardi) con la metro al collegio e mi avviai a piedi in una serata freddissima e umida verso la riva della Moldava, dov’era situata l’imbarcazione. In un silenzio abissale con la speranza, tutta giovanile, d’incontrare il Golem e i Vodnik (folletti) in una di quelle stradine, rese scivolose dalla neve caduta copiosa nei giorni precedenti e poco illuminate da lampioni, quasi ottocenteschi, raggiunsi, trafelato, la mia accogliente e calda sistemazione alberghiera. Il giorno successivo Jana venne a prendermi presto sul lungo fiume. La sera precedente avevamo concordato di concederci una gita fuori porta per recarci in autobus a Karlovi Vary, a due ore circa da Praga. Visitammo la cittadina e le Terme di Karlsbad, quasi vuote, per via della stagione. Prendemmo un gelato e ricordo ci fu qualche effusione tra di noi. Ci demmo appuntamento per un paio di giorni dopo (i cellulari erano ancora di là da venire) ad uno spettacolo, forse di mimi, che davano al famoso Teatro Laterna Magika, tuttora in funzione. Quando mi ero recato in mattinata a prenotare i due biglietti mi accadde, però, un episodio, che all’inizio, mi parve irrilevante nell’economia del viaggio, ma che, ripensandoci tempo dopo, credo non lo fu affatto. Mi si avvicinò all’uscita dal teatro un signore, minuto, sui quarant’anni che, rivolgendosi a me in francese, mi chiese con tono apparentemente “minimal” e distratto, di quale nazionalità ero, i motivi per i quali mi trovavo da solo lì in Cecoslovacchia nel mese di dicembre e il luogo dove alloggiavo (ricordo che era il 1978, dieci anni dalla brutale repressione di Praga e con l’Italia squassata dal terrorismo delle Brigate Rosse).

Insomma credo si trattasse di un poliziotto della famigerata StB della Cecoslovacchia Comunista (Státní bezpečnost). Il giorno successivo l’impiegato della ricezione dell’Alberghetto, mi comunicò, con mia sorpresa, che loro per Natale dovevano chiudere e che io avrei dovuto lasciare quella sistemazione, ma anche il Paese, in quanto non c’erano posti liberi in altri alberghi. Ebbi solo il tempo di andare nel collegio femminile, salutare Jana e cambiare il biglietto di aereo per un ritorno frettoloso e anticipato in Italia. Questo è quel che resta di un viaggio, il cui ricordo non è stato mai completamente sepolto e che, a volte, torna a galla come un rigurgito mai assorbito, come una falla mai sanata, riaffiorato grazie a quegli strani intrecci che talvolta la memoria sa offrirci.

Il vecchio Tupolev atterrò con qualche difficoltà a Fiumicino in una mattinata piovosa, illuminata dai fulmini di un temporale a ridosso di un lontano Natale. Girò per un bel po’ in alto sopra l’imbronciato cielo di Roma, con le segnalazioni luminose rosse vicino alle portiere dell’aereo che avvertivano “uscita di emergenza”, scritte in quella strana lingua. L’aereo con un’improvvisa virata, poi, finalmente si decise ad atterrare a Fiumicino sull’asfalto bagnato. Scendendo dalla scaletta, non mi sfuggì la gioia concitata con cui l’ambasciatore ceco a Roma accolse la giovane figlia seduta (per caso?) appena accanto a me durante il breve tragitto. L’esperienza di quel viaggio fu toccante: Praga si confermò ai miei occhi di una bellezza abbagliante e misteriosa. Ma di colpo mi assalì, improvviso, un insolito senso di liberazione, come di chi avesse compreso qualcosa in più della fortuna di vivere nel suo Paese. Anche in quello, allora, squassato da tensioni e drammi e quasi sull’orlo di una guerra civile.




Antonio Polichetti: viaggio nel tempo, quarta dimensione

Era un tardo pomeriggio d’Autunno e osservavo il cielo perché era davvero particolare in quel momento. Andavo un po’ di fretta per la verità, ma decisi di provare a scattare una foto perché una scena così non mi era ancora capitato di vederla. Tra le nuvole, si vedevano due occhi grandi e molto accigliati. Sembravano proprio gli occhi di Dio, per nulla contento della sua creazione, un pasticcio riuscito male questa volta: troppe ingiustizie, troppe guerre, troppa crudeltà e noncuranza verso la vita, con questi umani che sembrano rifuggire dalla ricerca di un senso più profondo nello stare su questa terra. È impossibile capire l’effetto che farebbe osservare il tutto da lassù, in un colpo solo. La natura stessa sembra tutta in collera, a momenti, quando il vento infuria e poi scoppia in un pianto a dirotto di pioggia e grandine, per rendere il dolore più freddo. Un cielo grigio può essere tremendo. Amore e nostalgie lontane si aggrovigliano tra castelli di nuvole. Poi, però, mentre guardo un fiore giallo, arriva un raggio di sole, che come un bel sorriso, scaccia l’ombra. 

Sono suggestioni, anche abbastanza comuni. Perché, se sei triste dentro, puoi esserlo anche su una spiaggia assolata davanti al mare azzurro. Il problema, per me, non è viaggiare – lo faccio pure, appena posso -, ma cercare di capire quanta energia ho per viaggiare dentro, quanto riesco a guardare con occhi diversi il posto che vedo ogni giorno – per ogni passo un ricordo, un incontro – e cercare di capire come affrontare la difficoltà dei cambiamenti, dentro e fuori di me. 
Mi capita spesso di pensare a Dio, da un po’ di tempo a questa parte. Troppe domande, nessuna risposta. Ciò che è bello, giusto, vero, cos’è e dov’è? E sarà poi questo? Cercare tracce di Dio – la fede o il sogno di migliorare come persona, di lasciare possibilità sempre aperte – questo è il viaggio che cerco di fare, l’esplorazione più difficile che abbia provato ad intraprendere. 
Parlo di viaggi che non posso fare fisicamente, dunque. I viaggi immaginativi sono quelli che amo e che , spesso, mi portano in una quarta dimensione, quella del tempo. 
Sono viaggi dove, ad un certo punto, mi sono ritrovato a colazione – molto tardi – con un sonnacchioso Baudelaire in un caffè parigino. Un’altra volta, invece, ero da qualche parte in Louisiana a fare l’autostop insieme a Jim Morrison: Los Angeles era ancora lontanissima, l’attesa lunga, ma, con la lettura di una poesia dopo l’altra, eravamo già in viaggio verso altre mete. Volevo domandargli da dove fosse riuscito a tirare fuori Light my fire, ma poi ho capito che Light my fire era proprio lì, davanti a me. Light my fire era lui. 
Un giorno – sembra ieri – ero alla Cheetham Library di Manchester e cercavo frettolosamente un panno fresco o una bevanda, una qualsiasi cosa che potesse dare sollievo. Dovevo aiutare Engels. Era appena tornato da uno dei suoi sopralluoghi. Aveva come gli occhi in fiamme per ciò che aveva visto, ma – la testa dura come la roccia – voleva mettersi immediatamente a lavoro per denunciare l’inumano sfruttamento della classe operaia in Inghilterra. E in uno di questi viaggi in quarta dimensione, mi è capitato persino di trovarmi nella stanza di lavoro di Mussolini, 1939. Sorrideva, come si fa con i bambini, nel leggere la lettera che Francesco Saverio Nitti gli aveva mandato da Parigi, dal suo esilio antifascista. Gli stava spiegando, come un vero statista sa fare, che l’ingresso dell’Italia in guerra sarebbe stato un errore tragico, una sciagura da evitare in ogni caso. Non so come, riuscii a trovare il coraggio di battere un pugno sul tavolo e di dirgli che, se non si fosse separato da Hitler, sarebbe stata la Storia a farsi beffe di lui e di tutti i suoi ripugnanti servi propagandisti, pronti a gridare alla guerra senza mai doverci andare davvero. Gli dissi che, ancora una volta, i padri avrebbero seppellito i propri figli, che sarebbe stata la rovina per tutti noi e per le generazioni a venire. Non so come andò a finire. Devo essermi risvegliato altrove. Ma fu un viaggio inutile, come altri che non vale la pena richiamare. 
Poi ricordo anche di quando rincorrevo Ernesto “Che” Guevara e Alberto Granado, la neve di Val Paraiso tutta addosso. Non avevo la vecchia Poderosa come loro. Erano troppo avanti in ogni caso, ma le loro tracce sono sempre così vive, per quanto tanti cerchino di cancellarle. Da lì, mi è venuto in mente Troisi e il suo Postino e, sempre in Cile, iniziai a cercare Pablo Neruda. Anche io volevo parlare con lui di amore, di poesia e degli occhi della più bella. Per lei ho perso la testa, tempo fa. In un altro viaggio, ho lasciato tutto di colpo e sono corso da lei per dirglielo ancora una volta, per trovare il modo di farglielo capire, veramente. E ancora una volta, mi mancava quasi la voce e il cuore batteva forte. 
In questo cuore si muovono tante cose, nella quarta dimensione del tempo, dove tutto si fonde e niente resta fermo. In questo viaggio non ci sono mete da raggiungere, niente è stabilito una volta per tutte e ogni volta ho la possibilità di ricercare il senso possibile di tante cose nello stesso percorso mutevole. E sono con me tutti i maestri che ho incontrato, tutti coloro che, da quando ero un bambino fino ad oggi, mi hanno insegnato qualcosa, che mi hanno fatto crescere. Loro sono qui con me e lo saranno sempre. 

Questo è il mio viaggio, o meglio, il mio sogno di viaggio e desiderio inesprimibile

“Il desiderio inesprimibile
che mai vita né terra esaudirono, 
ora tu, viaggiatore, 
salpa e va’ a cercarlo,
va’ a trovarlo” .

(Walt Whitman) 




Geoteo

“Sei è un numero perfetto di per sé, e non perché Dio ha creato il mondo in sei giorni; piuttosto è vero il contrario. Dio ha creato il mondo in sei giorni perché questo numero è perfetto, e rimarrebbe perfetto anche se l’opera dei sei giorni non fosse”  (Sant’Agostino”)

Nella mente di tante persone, compresi moltissimi miei amici, la matematica è la più feroce nemica della poesia, della letteratura, della filosofia, della teologia; i  numeri e le figure geometriche sono l’acqua che spegne il fuoco dell’ immaginazione e delle emozioni.
Cosa c’è di più arido in una concatenazione logica che da scarne ipotesi approda a risultati numeri primi, rette parallele etc.etc.?” mi disse una volta un mio quasi-amico poeta i cui versi sciolti erano per la verità abbastanza brulli.
Purtroppo nelle scuole secondarie italiane e nell’università vige ancora la sprezzante dittatura di Croce per cui Cartesio è solo il cogito ergo sum ma non l’inventore della geometria analitica e Leibniz è il filosofo delle monadi, senza lenessun legame di queste entità al concetto di  differenziale, la base della matematica moderna.
Come si fa a studiare questi due personaggi solo come filosofi, senza entrare nei dettagli della loro produzione matematica? Farlo, vuol dire imbrogliare i malcapitati studenti, vuol dire privarli di una cultura filosofica e scientifica che deve andare di pari passo, e che non può essere offerta monca.

Per il momento non voglio tirarla per le lunghe e mi piace sottolineare solo che sant’Agostino sapeva che 6 è il primo numero perfetto (perché somma dei sui  fattori cioè: 6=1x2x3 e 1+2+3 fa proprio 6) e poi citare qui passi della Divina Commedia in cui Dante si serve della geometria per farci partecipare alla sua visione di Dio.
Ho trovato tutto ciò nel libro Dante e la geometria di Bruno D’amore.
Non a caso, anche se non mancano riferimenti matematici nelle prime due cantiche, non a caso proprio nel Paradiso il rapporto  fra il divino e la geometria euclidea si fa strettissimo.

“Un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.” (Par. XXVIII, 16-21)

“O cara piota mia, che sì t’insusi,
Che come veggion le terrene menti
Non capere in triangol due ottusi,
Così vedi le cose contingenti
Anzi che sieno in sé, mirando il punto
A cui tutti li tempi son presenti” (Par. XVII,

13-18)

« …Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto… » (Par. XIX, 40-42)

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affigge
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a q uella vista nova;
veder volea come si convenne
l’imago al cerchio e come vi si indova” (Par. XXXIII, 133-138)

Chi è interessato troverà facilmente l’ermeneutica di questi versi in rete.

P.S. Piccola nota personale:
Una volta Alfonso mi chiese: “Come mai ti piace scrivere racconti ed altro, visto che sei un matematico?” e la mia risposta fu “Perché ho studiato Matematica




Elvira Coppola Amabile: l’Italia siamo noi?

Una giornata particolare! Aldo Cazzullo.
Da buon piemontese ha raccontato l’impresa dei mille con la solita retorica sul risorgimento. Verità bugie come al solito. Le vergone crudeli nascoste… come al solito… le glorie esaltate come al solito… curiosità svelate …pettegolezzi. Come le donne arruolate, Anita Garibaldi e la moglie di  Francesco Crispi, Rosalia Montmasson.
Ma cosa importa…
L’Italia siamo noi.
Oggi lontano dai libri di scuola che ci istruivano magnificando l’unione, sappiamo che la storia la raccontano i vincitori.
Un po delle verità sconosciute fino ad ora l’ho scoperte in un libro di un giornalista Gigi Di Fiore. “Controstoria dell’unitá d’Italia.” Poi ho continuato a documentarmi.
Franceschiello il re imbelle cugino dei Savoia. Non capí che doveva reagire! Non capì che forse firmando la costituzione avrebbe salvato il suo regno, se stesso, e forse l’Italia. Non capì. Aveva ventiquattro anni era orfano e re da solo due anni. Timido, bigotto con una madre in odore di santitá. Complessato suppongo.
La regina Sofia? Lei era fiera e ribelle e voleva che il re si ribellasse all’aggressione.
Il Re lo capí tardi. Troppo tardi. Fuggirono a Gaeta. E poi a Roma e poi al nord…Francesco II finí i suoi giorni ad Arco di Trento modestamente. Andava al bar a leggere i giornali e molti non sapevano chi fosse. Fabiani mi pare si facesse chiamare.

Non aveva depredato la corona, e disse che il tesoro non gli apparteneva. Ci pensarono gli invasori a depredare. Come tutto il resto. Un buon uomo molto religioso e imbelle, non adatto a fare il re. Soprattutto non la guerra. Era benvoluto dal popolo in ogni caso.

La regina Sofia sorella di Elisabetta (Sissi) era indignata per le titubanze del marito. Era molto amata dalla gente e fu apprezzata anche altrove. D’Annunzio la chiamava Aquiletta bavarese. Era sempre presente ad aiutare, era caritatevole e generosa. Curava i malati personalmente. A Gaeta ultimo rifugio, ancora la venerano. Quando morì re Francesco, Matilde Serao sul Mattino scrisse di lui definendolo “galantuomo e gentiluomo”.
La storia la scrivono i vincitori.
Ci raccontarono che Mazzini, Crispi, Garibaldi erano fautori di gesta eroiche. Non dissero che  ebbero pure una fortuna sfacciata! E ci fu anche un tradimento dei loro stessi ideali. Garibaldi, Mazzini, Crispi e Bixio avrebbero vagheggiato una repubblica e non un altro regno… quello dei Savoia.
E comunque la storia é andata. E forse non poteva che andare così.
Ma mi chiedo spesso se i Borboni tanto disprezzati avrebbero costretto alla fame il popolo, umiliandolo rendendolo  vittima della disoccupazione e quindi costretto ad emigrare in massa. Mi chiedo se avremmo avuto la dittatura fascista, il sogno folle delle colonie. E le guerre. Una e poi ancora un’altra.
E forse non poteva che andare così.
E io amo la nostra Italia.

Ma un monumento ai caduti mi fa pensare. Erano operai dell’acciaieria più grande e progredita d’Europa. Le Ferriere Ferdinandee di Mongiana in Calabria.  Furono  trucidati dai piemontesi perchè li supplicavano di non distruggere la fabbrica. Era la loro vita il lavoro era la loro sopravvivenza. Ed era apprezzatissima.
Il nostro passato Borbonico era ed è degno di conoscenza e rispetto. Il regno delle due Sicilie aveva costruito a Napoli  grande come una reggia “l’albergo dei poveri”.  Aveva dedicato San Leucio alle seterie: un paese intero per un artigianato raffinato e prestigioso con tutte le infrastrutture più avanzate per l’epoca. Ancora oggi prezioso e unico. Non voglio elencare le regge l’università il San Carlo i musei gli scavi. E non voglio parlare dei posti destinati al popolo dei ricchi nobili.
Ma voglio citare le leggi per proteggere le corallare di Torre del Greco altrimenti costrette a prostituirsi per sopravvivere alla povertà quando i mariti pescatori non rientravano.
Tutte le strade di Napoli erano progetti Borbonici. Via Cavour Via dei Mille….
Velocemente ho rammentato qualcosa per suscitare interesse come è successo a me.  Allora cerchiamo almeno di conoscere qualcosa in più. 
Senza giudicare. Tanto non serve.
Solo per sapere.
Forse non era cosí atroce la vita sotto la monarchia Borbonica confrontata alle altre europee e a quello che sopravvenne in seguito soprattutto al sud. I latifondisti opprimevano i contadini. Stettero meglio dopo?
Basta.
Ora teniamoci la nostra amata tormentata Italia.
Rispettiamola e proteggiamola consapevoli dei sacrifici costati a tanti. 




Fabio Senatore: la vita è un viaggio

Ci sono sicuramente molti modi di viaggiare: prendere un treno, un aereo, partire in macchina, e io, inoltre, amo molto entrare in un buon cinema ed aspettare che le luci si spengano.
Un film che mi ha fatto volare la mente è “Into the Wild – Nelle terre selvagge” del grande Sean Penn, magnifico attore e – in questo lavoro – grande regista.

La storia vera del neo-laureato Christopher McCandless che nel 1992, a 22 anni, stanco del consumismo e del benessere fittizio, decide di abbandonare la famiglia e le promettenti prospettive di studio e professione, dà in beneficenza tutti i suoi averi e affronta un viaggio senza nessun sostegno né economico né umano, che lo porterà nei luoghi più selvaggi degli Stati Uniti fino a immergersi nell’immensa natura dell’Alaska, che segnerà per sempre la sua esistenza. (Quattro mesi dopo verrà trovato morto accanto al suo diario, grazie al quale verrà ricostruita la sua storia).

Il capolavoro di Sean Penn riesce ad emozionare il cuore e ad aprire la mente dello spettatore. Non esiste la minima banalità in un racconto di due ore e mezzo, che ti trasporta in un viaggio stupendo per gli Stati Uniti d’America fino ad arrivare alla terra selvaggia dell’Alaska.
Un personaggio con una purezza d’altri tempi, che ti lascia in corpo una grande voglia di libertà. Tutto molto bello, ad iniziare da una regia e da una fotografia che mi hanno lasciato a bocca aperta, uniti ad una colonna sonora veramente stupenda.
La ricerca del protagonista è estrema, senza mediazioni, propria di un giovane idealista di 22 anni: vuole vivere il rapporto con la bellezza e con la natura in modo diretto, completamente solo, con il suo personale sguardo e tramite la sua ricerca di assoluto. Per questa ragione si ribella alla “american way of life”, distrugge le proprie carte di credito, cancella le tracce del suo passato, si mette in viaggio senza denaro, rinnega i rapporti convenzionale e ipocriti.

La maestà dell’Alaska, le foreste sconfinate, i corsi d’acqua che, durante il disgelo, diventano prorompenti e scendono rapidi verso valle trascinando la loro portata gigantesca, il relitto di un autobus che offre un riparo provvisorio, tutto ciò fa da cornice a un viaggio inteso come ricerca interiore ed estremo approdo.Coinvolgente e trascinante, questo film prende e porta con sé lo spettatore, il regista ha saputo modulare le immagini e i numerosi primi piani sul bravissimo protagonista coinvolgendo lo spettatore fino in fondo, arrivando così al termine della stupenda storia, che poi lascia un fondo di amarezza in chi assiste a questa evoluzione del protagonista.
Un viaggio senza ritorno che dà spazio a molte cose su cui riflettere. Immenso.

Ecco una scena del film

La storia di Christopher McCandless è anche un libro scritto da Jon Krakauer che si imbattè quasi per caso in questa vicenda, rimanendone quasi ossessionato, e scrisse un lungo articolo sulla rivista “Outside” che suscitò enorme interesse. In seguito, con l’aiuto della famiglia di Chris, si dedicò alla ricostruzione del lungo viaggio del ragazzo: due anni attraverso l’America all’inseguimento di un sogno. Questo libro, in cui Krakauer cerca di capire cosa può aver spinto Chris a ricercare uno stato di purezza assoluta a contatto con una natura incontaminata, è il risultato di tre anni di ricerche.

Se volete dare un’occhiata prima di acquistarlo potete leggerlo qui

https://nuvola.porticando.eu/s/eNcXxDQGRd3sfNa




Viaggi librari:”La musica è leggera” di Luigi Manconi

A molti amici più o meno miei coetanei ho già consigliato questo libro per me da gustare per intero;  ma anche chi non è interessato ad alcuni capitoli e però ha vissuto da ventenne o trentenne gli anni 60, gli anni 70 e perché no gli anni 80, potrà ritrovare nella pagine di Manconi le emozioni giovanili, riascoltare anche senza sentirle le canzoni di quelli anni e leggere del ruolo che anno avuto Paoli, Modugno, Iannacci, Gaber, Dalla, De Gregori, Venditti, Califano, Battisti, Celentano, De André, Battiato, Bennato, Guccini, Conte e tanti altri nella storia della musica pop e non solo.
Ma oltre ad acute e leggère considerazioni e piacevoli intuizioni sulla musica italiana nell’ultimo cinquantennio  e  ricordi di incontri con cantanti e musicisti , in “La musica è leggera” è facile trovare altro.

Non voglio farla lunga e perciò mi limito a riportare il  passo che conclude la pagina dedicata a Titanic di De Gregori che anche io, come l’autore del libro considero la sua  opera migliore, più emozionante e più persistente nei meandri della mia memoria.

Generalmente sono di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Parlano lingue incomprensibili, forse antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti». E ancora: «Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra loro.

Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali Rapporto dell’Ispettorato americano per l’immigrazione del 1912 riferito agli Italiani.

Titanic



Gerardo: Via Crucis 2024




Mai ritornare sulle proprie scelte televisive!

Sono un assiduo lettore di libri gialli e ho acquistato nel tempo i libri di Cristina Cassar Scalia ambientati a Catania con protagonista la vicequestore Vanina Guarrasi. Ieri mattina sfogliando il giornale apprendo che Mediaset ne ha realizzato la trasposizione televisiva.
Per un’antica idiosincrasia per tutto quello che emanava da Berlusconi, molto, ma molto raramente, e solo con qualche piccola eccezione, negli anni ho pigiato sul mio telecomando i tasti dal 4 al 6.
Ma avendo letto con piacere i romanzi di questa autrice, soprattutto i primi due, mi sono infilato con qualche perplessità nell’app Infinity ed ho visto il primo filmato. Quel che temevo è successo.
Delusione totale!
La vivacità e i ghirigori della vita catanese completamente scomparsi e ridotti alla differenza fra arancino e arancina. Cancellate figure fondamentali come l’ex commisario Patanè, Bettina padrona di casa di Vanina, il vicecommissario Fragapane.
La riduzione a macchietta di alcuni personaggi.

E poi, non si sa bene perché, si comincia dal settimo romanzo della Scalia, sacrificando perciò l’approfondimento e l’evolversi dei rapporti umani lungo il susseguirsi dei racconti pubblicati e buttando all’aria il filo della storia familiare, amorosa e amicale della Guerrasi.
O forse la scelta di cominciare dal delitto del gelataio è legata al fatto che nel volume di riferimento non compaiano problematiche sociali né aspetti dei meccanismi di potere della provincia siciliana.
Ed infine i vezzi, le contraddizioni, le pulsioni, il rammarico, il peregrinare mentale della protagonista ridotti a piccole note di colore.
Personaggi e ambientazione piatti!

Quello che mi immalinconisce, e forse mi impedirà di leggere eventuali altri libri della Scalia è il pensiero di come una pur brava scrittrice possa permettere tale svilimento delle sue pagine ricche di brio e vitalità, per amore del successo televisivo e di tutto quello che questo comporta in termini di ritorno economico e notorietà. Purtroppo non è la prima!

SE NE SCONSIGLIA LA VISIONE SOPRATTUTTO A CHI HA LETTO I ROMANZI.

Mi consola il pensiero, però, della mia giusta diffidenza verso Mediaset.
Cassar Scalia sicuramente pensa che la televisione le farà vendere più libri, ma una cosa è certa: un lettore lo ha perso di sicuro!




Francesco Puccio presenta il suo nuovo libro




Alfonsina De Filippis: Profumo di magnolia…profumo d’infanzia

L’emozione mi toglie il fiato. Ho viaggiato per ore per arrivare sin qui ed ora mi sento stordita ed emozionata come un’adolescente al suo primo incontro d’amore. …. 
Il mio è davvero un appuntamento…. con i ricordi.
Sono davanti al cancello di un piccolo villino in cui ho trascorso le mie estati più serene. Ogni anno mia madre ci accompagnava qui e lasciava che fossero i suoi genitori a prendersi cura di me e di mio fratello. Era in questo posto dove regnava la serenità che potevamo godere della compagnia di nostra sorella che, per il resto dell’anno, viveva in città con i nonni. In pratica la nostra famiglia non era mai al completo, o mancava mia sorella o mancavano i nostri genitori. Io, inizialmente soffrivo per il distacco da mia madre e mio padre ma, col passare dei giorni, questa casa, le regole ferree di mia nonna, la compagnia dei miei fratelli e di mia cugina, il mare, la complicità di mio nonno, tutto diventava indispensabile e aveva il profumo dell’amore e dell’affetto.
Vivevo quei tre mesi di vacanza in perenne ammirazione di mia sorella (più grande di me di nove anni) ed ero affascinata da qualsiasi cosa dicesse o facesse; ero felice di passare più tempo con mio fratello (di cinque anni più grande) e, pur di stare con lui, avevo imparato a giocare a calcio, rugby, e tiravo con vero talento le biglie di vetro colorato. Mio nonno ci insegnava a colpire grossi barattoli di latta col suo fucile e, spesso correvamo allo stagno a caccia di rane e rospi. In quei giorni, e solo in quelli, io mi scoprivo veramente capace di provare vera gioia.
Io ero la più gracile e ogni inizio estate i miei nonni mi portavano da un anziano pediatra affinché mi prescrivesse le solite dolorosissime iniezioni di vitamina E.
Credo si chiamasse Bellelli ma ricordo con precisione la sua abitazione. Viveva in una piccola casa con un giardino pieno di bouganville di un rosso infuocato e davanti al cancello, a pochissimi metri, vi passavano le rotaie del treno tant’è che, spesso, eravamo costretti ad aspettare che il passaggio a livello si alzasse per varcare il cancello.
La visita era sempre scrupolosa e i miei nonni uscivano sempre dallo studio medico con aria affranta ma ben decisi a “rinforzarmi” nel corpo e nello spirito. In questo erano veri maestri, non credo che fossero le iniezioni a farmi davvero bene, più probabilmente era il concentrato di cure, di attenzioni e di amore di cui sapevano farmi dono.

Ora sono qui, ad un passo dal cancello di quella che una volta è stata anche casa mia….
Cerco con lo sguardo la piccola campana di bronzo che gli amici e gli ospiti agitavano per segnalare il loro arrivo….non c’è più. Non vedo neanche la targa di metallo su cui mio nonno aveva fatto incidere, con un carattere un po’ lezioso ma gradevole “Villino Nice”, il nome di mia nonna. Lascio che il mio sguardo penetri la barriera di edera che si è inerpicata lungo il recinto di ferro, la magnolia con le sue grandi foglie, è sempre lì, al centro del giardino e ormai ricopre quasi del tutto quella che una volta era l’enorme finestra del salone. Passavo ore, nei lunghi pomeriggi d’agosto, al fresco della sua ombra. A volte, mi sdraiavo sul prato così da avere per tetto i suoi lunghi rami ricchi di grandi foglie lucide, di un verde intenso e mi incantavo a guardarne i fiori bianchi e profumatissimi.
Le palme hanno raggiunto il tetto e grandi ciuffi di datteri dorati pendono da più parti dando un vago senso di esotico a questo mio amato giardino che nessuno sembra ormai più curare. Le aiuole non ci sono più e le piante più svariate convivono in promiscuità dandomi subito l’amara sensazione di abbandono ed incuria.
Ricordo e rivedo noi bambini sudati ed eccitati, chini sul prato a strappar erbacce. Sento, vicina e chiara, la voce di mia nonna che ci incita a far presto e bene.
Il viale d’ingresso, su cui ogni estate veniva montato un elegante gazebo di ferro lavorato, alcune sedie di eguale fattura rallegrate da grandi cuscini fiorati ed il tavolo col piano di cristallo ora è occupato da una vecchia automobile.
Alzo lentamente lo sguardo e ho un tuffo al cuore, il terrazzino davanti alla porta d’ingresso è rimasto quello d’un tempo e mi par quasi di rivedere i miei nonni, seduti sulle loro sedie di vimini, che sorridono così come erano soliti fare quando ci guardavano giocare.
Non resisto più, ho bisogno di entrare. Spingo il cancello pur essendo certa che sia chiuso. E’ bastata una leggera spinta ….è aperto. Il cigolio mi fa sobbalzare. Per un breve istante ho pensato di andar via, è stato solo un attimo di esitazione. Entro e richiudo il cancello dietro di me. Per incanto avverto la sensazione che la ringhiera sia diventata il limite del mondo, al di là di questo recinto un po’ malridotto c’è il vuoto.
Probabilmente al di là del cancello c’è il normale via vai di automobili, di donne che tornano dal mercato, di bambini che si rincorrono allegri ma io non sento più nulla, qui c’è solo silenzio e pace. Il mondo intero è racchiuso in questo giardino. Le persiane, tutte giù, rendono questa casa un po’ triste. E’ come se volesse tenere gli occhi chiusi per non vedere lo sfacelo di questo giardino. Una volta dalle finestre veniva fuori il vociare di noi bambini, il parlottare animato degli adulti e, all’imbrunire, questi grandi occhi dagl’infissi di legno bruciato dal sole e dalla salsedine, si illuminavano e splendevano attraversati dalla luce calda e allegra delle lampade. Questa casa che ha fatto da spettatrice a tante vicende e che ci ha visto prima bambini, poi adolescenti e infine adulti ora è cieca e sola. Mi avvio lentamente per il piccolo vialetto che costeggia il lato est della casa e mi ritrovo a sorridere al ricordo di quando, bambina, lo attraversavo di corsa per paura dei gechi e degli insetti che si rintanavano tra i mattoncini rossi. Istintivamente avverto lo stesso disagio ed affretto il passo fino a raggiungere il punto in cui il lungo viale diventa più ampio. Davanti a me si apre una scena di una bellezza indescrivibile. Il mio cuore ed i miei occhi si riempiono di una gioia completa, immensa, profonda. Il pergolato è un’esplosione di colori e di profumi, i grappoli di glicine si intrecciano a lunghi rami di rose selvatiche bianche e rosa tra cui fanno capolino piccoli mazzolini di gelsomino. Sono letteralmente assalita da un’ondata di profumo tanto penetrante e piacevole da sentirmene stordita e inebriata. Guardo a terra e mi accorgo che c’è uno stupendo tappeto di petali e di foglie dalle mille tonalità e sfumature di verde.
Una leggera brezza suona la sua musica fra i rami e smuove le foglie facendo piovere altre leggere gocce di seta.
Alzo lo sguardo e vedo un cielo fiorito. Il sole riesce, di tanto in tanto, ad aprirsi un varco tra il fogliame e proietta sul suolo macchie di luce che sembrano danzare al ritmo di una malinconica e sapiente melodia che mai animo umano potrebbe comporre. Mi sento estasiata e leggera, mi pare che anche la mia anima stia danzando e cantando il suo inno alla vita ed al creato.
Tra alti cespugli, dove prima fiorivano le “belle di notte” è ancora visibile il campo di bocce e l’enorme rullo di cemento che spingevamo con fatica affinché con il suo peso livellasse la terra rossa su cui lanciavamo, in modo non proprio regolare, le bocce di legno colorato. Mi pare di sentire la voce di Giovanna, la più piccola di noi quattro, che piagnucola perché vuole il pallino. Ho davanti agli occhi mio padre, in pantaloncini, che prende la mira fingendo concentrazione e impegno. 

Dall’altro lato del viale c’è un’ampia distesa di terra, ora incolta, che allora era il nostro orto. Con grande fatica di tutti gli adulti della famiglia e in parte anche di noi ragazzini, riuscivamo a coltivare di tutto e grossi cespugli di erbe aromatiche riempivano l’aria di profumi penetranti.
In fondo al viale s’intravede il garage che utilizzavamo come cucina. E’ una piccola casetta in miniatura con una finestra di minime dimensioni che fungeva da passavivande. Sotto il pergolato di vite canadese, che ora mi pare un angolo di paradiso, consumavamo le leccornie che mia nonna, eccellente cuoca, preparava per tutti noi.
C’è ancora la panca di marmo causa di liti furibonde e di vere e proprie battaglie. C’era sempre uno stesso vincitore: mio fratello Pierfederico. Unico maschio del gruppo dei piccoli, sapeva essere convincente. Utilizzava varie strategie: partiva col promettere regali e favori, passava poi ai ricatti ed alle minacce, cui io non cedevo mai…. Mia cugina Giovanna era fuori dalla competizione perché troppo piccola, mia sorella Antonella, la più grande, si rassegnava facilmente.Io ero l’unica che resisteva ad oltranza e mi lanciavo in veri e propri corpo a corpo e ne uscivamo, entrambi, pieni di lividi e di rancore.
Ora la panca è tutta mia. Mi ci siedo, gonfia di soddisfazione. Chiudo gli occhi e non mi sembra possibile che nessuno venga a recriminare o ad intimarmi di alzarmi.
“Dindi! Dindi! Alzati, vieni ad abbracciarmi”. Apro gli occhi, nel viale, tra i fiori, c’è il nonno. Farfuglio e balbetto: ”Non chiamarmi così, non vedi, ho più di quarant’anni! Ne è passato di tempo da quando usavi chiamarmi con questo nomignolo strano e tenero.” Si avvicina con passo lento e leggero, si toglie il cappello e sorride divertito. Indossa pantaloni di lino beige con le pences e una camicia candida.
Apre la porta del garage, io lo seguo in silenzio. Apre la saracinesca che dà sulla strada secondaria e l’ambiente è inondato di luce. Si avvicina al tavolo, apre il cassetto in cui ha sempre custodito i suoi attrezzi e ne tira fuori un martello ed un oliatore. “Devo sistemare il cancello. Hai sentito come cigola?”.
Le sue parole vengono fuori come se ondeggiassero, l’accento toscano le rende morbide e lievi. Vorrei abbracciarlo ma lo fisso incantata come facevo da bambina. Durante le splendide serate estive, accompagnati dai grilli e dallo svolazzare di mille lucciole, passavamo ore a guardare il cielo stellato, lui mi sussurrava il nome di tutte le stelle, Venere, il Gran Carro, l’Orsa maggiore…….Io lo ascoltavo estasiata e credevo fosse il padrone dell’infinito. Non mi stancavo mai di ascoltarlo e vivevo intere sere stando col naso in su. Mio nonno Gastone mi ha insegnato ad amare il cielo stellato e a sentirne il profumo. Ora mi pare che lui stesso sia stato per me grande e magnifico come un cielo trapunto di stelle.
Si avvia per il viale armato di tutto punto per iniziare la sua battaglia contro la ruggine. Mi fermo a guardarlo mentre si allontana lungo il viale, non lo seguo.Mi piace guardarlo mentre lo attraversa col suo passo lento e morbido.
Si volta a guardarmi, mi sorride e mi fa cenno con la mano come per salutarmi……
Sento che qualcuno mi scuote con forza: ”Signora, sta male?”. Apro gli occhi e vedo chino su di me un omone grande e grosso. Metto a fuoco con fatica il suo viso troppo vicino al mio. Mi alzo di scatto. Deve essere il guardiano o il proprietario. Lo guardo confusa e con un po’ di timore. Cerco di assumere un tono dignitoso e convincente.
Balbetto qualcosa di incomprensibile anche a me stessa. Mi guardo intorno, siamo soli ed entrambi in evidente imbarazzo. Lo guardo e cerco di inventarmi qualcosa da dire, vorrei giustificare la mia presenza. La voce mi viene fuori di getto:
“Mi perdoni l’intrusione ma, sa, in questo villino ho trascorso almeno una ventina di estati. Volevo tuffarmi nel passato. Tra questi fiori aleggiano i momenti più belli della mia vita, qui avevo lasciato ricordi, sogni e speranze di cui ora ho veramente bisogno. Io sto cercando me stessa e il coraggio di continuare a vivere. Non dica nulla, la prego. Questa, ora è casa sua ma per molto più tempo è stata mia, ha rallegrato i miei giochi di bambina, mi ha fatto sognare, è stata la mia isola-che-non-c’è. Mi perdoni ma dovevo recuperare un pezzo del mio cuore e della mia vita.
Mi prende un’incontenibile voglia di scappare via, corro, attraverso il viale, al mio passaggio mille petali volteggiano contenti.
Raggiungo il cancello, lo apro, non cigola più.
Corro alla macchina, non vedo quasi più nulla…i miei occhi sono pieni di lacrime, il cuore trabocca gioia e malinconia insieme. Ho un altro profumo che mi è entrato nell’anima. E’ un aroma che non avevo mai sentito prima: il profumo dell’infanzia.

Stringo al cuore il mio pezzetto di vita e mi volto a guardare, forse per l’ultima volta, la casa della gioia.
Sono tutti al cancello: nonna Nice più bella che mai; nonno Gastone col naso all’in su in attesa che spunti la prima stella della sera; mio padre già con la pompa in mano pronto ad annaffiare l’orto, mia madre in pantaloncini, mia sorella Antonella, adolescente, col suo sorriso tenero e caldo, mio fratello Pierfederico ragazzino sbarbatello, con gli occhi pieni di sogni e di speranze, mia cugina Giovanna, che stringe il suo orsetto di peluche, i miei zii Antonietta e Gaetano, allora giovani…….
Un desiderio irrefrenabile mi spinge ad avvicinarmi, li guardo e sussurro: “Vi voglio bene…”
E’ solo un attimo…..tutto svanisce.
La loro immagine ormai è sfuocata, si è persa tra le lacrime che si sono affollate nei miei occhi o, forse, la realtà li ha riportati tutti in quel mio passato ormai lontano.
Sto piangendo. Le lacrime non sono sempre stille di dolore, queste che mi scivolano sul viso sono il nettare dolce della mia anima felice.