Giovanna Ferrara è volata via.

Se ne è andata un’altra meravigliosa giovane persona che con i suoi racconti ed il suo sguardo sul mondo ci faceva innamorare della vita. Che infinita tristezza! Voglio ricordarla riportando qui le sue scintillanti parole sui suoi anni liceali:

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Eravamo “cuori in Atlantide”. Il nostro tempo era assoluto, erano gli anni in cui moltiplicavamo le visioni di parmenide, doppiavamo plutarco, sapevamo il flusso delle stelle e le scie della fisica, ci dividevamo tra la letteratura da programma e quella sperimentale, la politica ci riuniva in assemblea, eravamo arroganti e invincibili come lo sono tutti i corpi desideranti.

Sappiamo tutti, tra il 92 e il 96, di aver fatto parte di una anomalia collettiva, che prendeva il patrimonio di una conoscenza passionale e lo rendeva pratica di fecondazione del futuro. Noi di mestiere germogliavamo. In maniera prepotente, sfidando la docilità degli adulti, provocandoli sul terreno delle loro stesse competenze, ingaggiando con i professori più intelligenti infinite partite di senso, imponevamo il nostro ‘vogliamo tutto, a partire dall’impossibile’.

E non abbiamo mai trovato la miseria della prudenza. Ci è stato chiesto di sapere di più, di studiare di più senza che questa diventasse attività meritocratica. Il premio era il piacere, come nelle virtuose cittadelle del sole. Perché ad educarci non era solo un corpo docente allenato all’indisciplina del tumulto, era anche la natura. La cornucopia della costiera, gli scogli ed il mare. I limoni che si tuffavano sempre un minuto prima di noi. Le porte sempre aperte delle case, il vivere nella bellezza delle strade, l’essere la generazione figlia del 68, che sentiva le stesse canzoni dei genitori senza rinunciare al sacrosanto conflitto agito per dire ‘sono io, sono una moltitudine’.

Ed è per questo forse che ci hanno chiamato l’onda. Perché insieme travolgevamo e, al contempo, ci travolgevamo, ritrovandoci storditi per la vertiginosa pienezza della vita. Noi che la musica la facevamo nei garage, noi che scrivevamo i testi delle nostre canzoni, noi che eravamo i gruppi musicali, noi che riempivamo la piazza dopo la scuola per rimandare l’ora del pranzo. Noi che quando passavamo eravamo la gioia dell’eternità.

Nel mondo di fuori andiamo con il segreto di quegli anni. Li teniamo nella tasca, se siamo in difficoltà li tocchiamo con le dita del ricordo comune. E senza dirlo riconosciamo i nostri simili. Sono quelli che hanno negli occhi un sogno, quello di un mondo in cui ‘insieme’ è piu importante di ‘me’ e la conoscenza non serve a prevalere, ma ‘a prendere posizione’. Siamo quelli che avevano ragione. 

Giovanna Ferrara




Elfi

A Mariano, il mio amico che è andato via rendendo il mio mondo più povero e più silenzioso, confidavo tutte le mie idee; non diceva mai no, ma dalla luce dei suoi occhi capivo se la cosa lo convincesse o meno. Con Elfi fu subito d’accordo; in effetti anche lui era un elfo e arricchì la proposta con i suoi fulminei guizzi. Elfi fu un gruppo di scrittura creativa a tema. Eravamo in quindici ad incontrarci ogni 30 giorni per leggere le pagine (rigorosamente A4) scritte da noi su un tema scelto il mese prima ed il gioco consisteva nel dover accoppiare i racconti con gli autori ed anche in questo Mariano era bravo. Credo che per tutti fu una piacevole e stimolante iniziativa.

Il primo tema, prendendo spunto da un racconto di Čechov, lo volle scegliere proprio lui e fu Lo specchio” ed io scrissi quel che segue:

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A casa di mia nonna, in una delle tante stanze del primo piano, c’era un armadio a doppia anta, ognuna con un grande specchio.
Lontano dalla vecchia cucina, dove le numerose donne della mia famiglia usavano trascorrere il tempo chiacchierando e cucinando, il mio passatempo preferito consisteva nel posizionarmi fra i due pannelli e osservare il gioco del mio viso, del mio corpo, dei miei occhi, che rimbalzavano incessantemente più o meno numerosi all’avvicinarsi e all’allontanarsi delle superfici riflettenti.

Entrare in questi mondi paralleli fatti di luce e di fantasia era un viaggio sempre meraviglioso. Mi intrigavano questi ubbidienti me stessi disposti a ripetere velocemente le mie smorfie e i miei movimenti per poi sparire e ritornare nel loro universo misterioso appena io decidevo in tal senso, chiudendo le ante.
Avrò avuto forse undici anni ed era l’ultimo giorno d’estate. Valigie già pronte, tutti in procinto di lasciare Pertosa per ritornare un po’ malinconicamente a Cava. Di lì a pochi minuti sarebbero comparsi i due muli di mio zio sui quali i miei avrebbero caricato i bagagli e ci saremmo avviati a piedi lungo la discesa e la successiva faticosa e mesta salita verso la stazione situata in alto lungo i pendii degli Alburni.
Come facevo sempre prima lasciare il paese volli correre a salutare i miei compagni di gioco.
Entrato nella camera presi a manovrare gli specchi ma dopo aver guidato per qualche minuto con le mani appoggiate sulle maniglie, chiamato dalla voce perentoria di mia madre, mi apprestavo a bloccare i battenti con un ultimo movimento a fisarmonica, ma questa volta i miei numerosi gemelli non mi assecondarono e prima di essere risucchiati dalla chiusura dell’armadio, invece di ripetere i miei gesti, fecero malinconicamente ciao con le mani.
Una, due, tre volte! L’apparizione sulla porta di mia sorella Rosa, inviata dai miei genitori a scoprire dove mi ero cacciato, mi costrinse ad allontanarmi.
A natale, ritornato a Pertosa, dopo aver fatto di corsa tutto il percorso dalla ferrovia al paese, mi precipitai nel mio magico rifugio, ma grande fu la mia delusione nello scoprire che uno degli specchi si era rotto ed era stato sostituito da un pannello di legno.
La giostra dei mondi era scomparsa per sempre, portandosi via la mia fanciullezza.
Ancora oggi mi chiedo come le mie immagini riflesse avessero potuto in quel momento sapere che si trattava di un addio definitivo.




Fuggire

Di questi tempi la fuga è l’unico mezzo per continuare a sognare.
(Jim Morrison)

Erano forse diecimila le notti che aveva passato sulla barca, aggredito dal buio umido del mare a malapena contrastato dalla lampada posta a prua del suo peschereccio.

Troppe! All’alba, Stavros, tornato a reti vuote nel porticciolo del suo villaggio Άγιος Νικόλαος nella provincia di βολος, raccolse poche cose in una bisaccia, comprò del pane e caricatosi un remo sulle spalle cominciò a camminare verso l’interno. Percorse sentieri e strade di pianura e di montagna fermandosi solo per rifocillarsi, per riposarsi o per dormire sotto le stelle; nei primi giorni del suo viaggio nessuno badò al remo che portava in spalla; poi, mentre procedeva sempre di più verso l’interno, la gente iniziò a domandargli a che cosa gli servisse quel remo così lontano dal mare…ma Stavros si limitiva a rispondere con un sorriso e senza fermarsi continuava d andare avanti.

Un giorno capito in un piccolo villaggio di montagna vicino al confine con la Macedonia e quando da un uomo ed una giovane donna si senti dire: ”A che cosa serve quezzo pezzo di legno con questa strana forma?” piantò il remo in terrà e rispose: ”E’ il primo pezzo della mia nuova casa!”.

Sempre più spesso penso di trascorrere quel che resta della mia vità in un luogo dove se dicessi che vengo dall’Italia le persone mi chiederebbe: “Ma dove si trova questo paese che tu chiami Italia? Esiste veramente?”




Sogni




Giancarlo Durante: che ruolo per noi?

Cari Carlo e Enzo,  per me è sempre un piacere leggervi,  anche perché le occasioni di vedersi sono diventate rare e, forse,  i social qualche opportunità aggiuntiva ce l’hanno pure data:quella di mantenere i contatti tra di noi, anche se in forma virtuale. Certo mi lusinga che ci sia qualcuno che ti cerchi per sentire come la pensi (?)  e che faccia da muro contro un’abulìa mentale in agguato.  Detto questo, però no!Per quanto mi riguarda non ho più la forza (qualcuno, sosterrebbe la vis polemica)  di una volta, né, semplicemente, conservo stimoli per abbozzare una qualche proposta politica o sociale che si possa rivelare degna di questo nome. Io poi, (non so voi), sono fuori dalla vita lavorativa attiva, non ho alcun incarico di responsabilità, non posseggo alcun ruolo in pubbliche o private amministrazioni, non sono massone, non sono iscritto al Rotary né ai Lyons. Amministrare, lo sapete,  è terribilmente complesso e, anche, alla fine, talvolta scarsamente remunerativo in rapporto al carico di responsabilità che comporta. Certo ci sono buoni e cattivi amministratori o amministratori semplicemente mediocri.

Ma è gente che ha saputo comunque raccogliere il consenso della maggioranza dei cittadini. Ricordo quando, tanto tempo fa(era il 1999!)  ebbi l’ardire di presentarmi alle tornata elettorale per le Provinciali. Non ce la feci, anche perché metà del partito non mi sostenne. Ma ottenni,  non è solo un giudizio personale, un lusinghiero risultato. Mi dissero che avevo fatto confusione tra proposte tecniche e proposte politiche. Conservo da qualche parte ancora dei folders dove mi illudevo(figuriamoci!) di rafforzare alla Provincia le funzioni perse di sanità pubblica, a partire dall’abolizione della figura del Medico Provinciale. Mi avventurai anche in diverse idee di orientamento ambientalista:proponevo, tra l’altro, una sorta di road pricing per alleggerire il traffico veicolare alla Badia. Più di venti anni dopo, visto quello che sta accadendo nel mondo, una piccola, personale rivincita,  forse, l’ho ottenuta. Ma chi vuoi che si ricordi!

Ma, poi,  con tutta sincerità credo che bisogna dare spazio a una classe politica più giovane (abbiamo amministratori vecchi e continuiamo a essere un Paese dove tuttora vige una strisciante gerontocrazia) . C’è bisogno,  a mio avviso,  di una generazione che maneggi bene i social, che sappia interagire con sistemi d’intelligenza artificiale sofisticati e riesca ad inserirsi negli spazi che questi ci vorranno lasciare. Non so voi, ma io ho qualche difficoltà,  anche solo a livello locale, a pensare a uno schema di proposte sociali realizzabili in questo nuova schema di pensiero e in una realtà così riglobalizzata.  Con questo non voglio dire che dobbiamo, alla nostra età, stare alla finestra e attendere la fine. No. Un ruolo di “consigliere”, di esperto, uno se lo può sempre ritagliare. Ma che ci si limiti a questo.

Permettetemi, infine,  di cogliere l’occasione che mi avete dato per farvi una confidenza.  Il sentimento che provo,  giunto a questa fase della mia vita,  come persona non credente: un senso di vuoto, che sta diventando una sorta di ossessione,  che corre sotto pelle come una fastidiosa fascicolazione muscolare. Ma anche una disposizione d’animo che somiglia sempre più a un senso di straniamento,  di distanza, che arriva financo all’invidia,  che mi ritrovo a provare nei confronti di tutti quelli che siano credenti,  fedeli cristiani,  quelli che si consolano nella certezza di un aldilà e si vedono al cospetto di un Dio giudicante, quelli che ardentemente sperano di rivedere i propri cari, i propri amici in un mondo parallelo composto di anime,  di spirito.  Senza arrivare alle forme di anti-clericalismo alla Odifreddi,  ritengo questa una forma di trascendenza abbastanza infantile,  se non rozza,  certamente inquinata da una visione terrenocentrica.  

Siccome il tempo si va irrimediabilmente accorciando è su questo mio “mood”,  quest’assenza di consolazione che,  cari amici,  adesso tenterei di “ragionare“ con voi.   




Angela Pellegrino: nostalgia

Una città ‘sorridente’, questo mi manca della Cava di quando ero giovane. Cava era lieta, era allegra, ci si stava proprio bene.

I portici erano una sequenza di negozi di cavesi che tutti conoscevamo, e con cui le nostre famiglie spesso erano imparentate, o comunque erano amiche storiche, o almeno buone conoscenti.

Camminare per il corso era ‘stare in famiglia’, ci accordavamo per vederci davanti alla pasticceria Vietri o davanti a D’Andria, o davanti a Liberti ecc, e si comprava il buonissimo bacio dalla burbera ma indimenticabile signora Liberti, se avevamo i soldi.

Adesso non conosciamo più i commercianti, li sentiamo estranei, anonimi.

Del resto, nella maggior parte degli esercizi commerciali troviamo solo commesse (malpagate e sfruttate), non ci sono più i titolari, anzi molto spesso le ditte sono sconosciute, forestiere . . . mah, un po’ freddo tutto ciò, forse non per i giovani, ma per noi che ricordiamo certe cordialità, certa confidenza, sì.

E poi, andavamo a piazza Roma (così si chiamava) a comprare alla bancarella i lupini che mangiavamo nella villa raccogliendone accuratamente le bucce, e lanciandone qualcuno (pochi! avevamo fame) ai bellissimi cigni che ricordo con nostalgia.

Oggi i giovani passano le serate stazionando per strada, in quella che si chiama piazza Abbro, o sui gradini della chiesa di San Francesco, o lungo le vie del centro. A volte ho l’impressione che questi gruppi di ragazzi stiano in silenzio, si limitino a restare lì ciondolando, aspettando che il tempo passi e basta, che differenza con noi che chiacchieravamo, ridevamo, scherzavamo di continuo!  

Siamo troppo vecchi? E’ questa la normalità? Mah




Enzo De Leo: Una città disattenta

Esiste a Cava  –  ma un po’ dappertutto – una sofferenza sommersa, profonda, diffusa. Una sofferenza che non fa notizia – se non occasionalmente e in maniera spesso clamorosa e shoccante – che è vissuta in silenzio e che trova un ascolto limitato, insufficiente. Un ascolto e qualche debole risposta da poche e spesso malmesse istituzioni pubbliche e qualche gruppo di volontariato.

E’  la sofferenza di quelle famiglie che hanno al loro interno un proprio membro portatore di problemi gravi che si collocano tra la sfera sanitaria e quella sociale e psicologica. 

Si tratta di ragazzi tossicodipendenti gravi, anziani con demenza di Alzheimer, persone con severa disabilità, giovani autistici, sofferenti psichici gravi talvolta anche fortemente aggressivi, giovan@ con patologie anoressiche o bulimiche donne che subiscono violenze soprattutto da parte del coniuge.. e si potrebbe continuare.

E’ difficile immaginare, per chi non vive queste condizioni, l’impatto devastante che esse hanno sui nuclei familiare e l’infelicità che inevitabilmente comportano.

Sono convinto, anche se questa sensazione non è, per il momento, sostenuta purtroppo da dati più precisi che non le sensazioni che uno psichiatra prova nel suo studio con frustrazione e senso di impotenza e alcuni indicatori che emergono dalla situazione nazionale – sono convinto, dicevo, che qui a Cava tali situazioni siano causa della sofferenza più profonda e diffusa e a cui siamo meno attenti ( fatte salve lodevoli eccezioni ).

Si può fare qualcosa in più di quello che attualmente, spesso con sacrifici personali, si riesce a fare? Io credo che il Comune possa, per esempio, mettendo in campo risorse anche molto limitate assumersi il compito di coordinare, organizzare e mettere in rete tutto quello che in maniera sparsa e disorganizzata esiste e produce risposte, pure utili, ma largamente inadeguate ai bisogni che spesso non vengono espressi anche perché non si conosce l’interlocutore competente. 

Ecco, mi piacerebbe discutere di questo.




Calcio, Sokker,futbol, ποδόσφαιρο,футбол,足球

Non sono un grande appassionato di calcio…vedo solo le partite del Napoli o quasi, però questo libro è troppo bello.

Splendori e miserie del gioco del calcio di Eduardo Galeano

Un pic-nic nel mondo del pallone insieme ad un grande scrittore. Tre ore di piacevole lettura sia quando la tua squadra ha perso, sia quando ha vinto. Se poi non segui le partite ed il calcio non ti interessa, dopo aver letto le veloci e accativanti pagine di questo libro potrà succedere che continuerai a non soffermarti su  22 persone che corrono su un campo appresso ad una palla, ma è anche possibile che comincerai a seguirli.

In ogni caso avrai sicuramente fatto una piacevole escursione nel mondo e nella storia di questa piccola elastica sfera presa a pedate da milioni di bravi, modesti o scarsi giocatori ma amata da miliardi di persone.

Ecco qualche passo preso a caso:

Siete mai entrati in uno stadio vuoto? Fate la prova. Fermatevi in mezzo al campo e ascoltate. Non c’è niente di meno vuoto di uno stadio vuoto. Non c’è niente di meno muto delle gradinate senza nessuno.

……

Ci sono attori insuperabili nell’arte di guadagnare tempo: il giocatore si mette la maschera da martire che è appena stato crocefisso e allora si contorce in piena agonia, tenendosi il ginocchio o la testa e resta steso sull’erba. Passano i minuti. Con la velocità di una tartaruga accorre il massaggiatore, il manosanta, il grassone sempre sudato, che odora di linimento, che porta l’asciugamano al collo, la borraccia in una mano e nell’altra mano qualche pozione infallibile. Così passano le ore e gli anni, fino a che l’arbitro ordina di portar via dal campo quel cadavere. E allora, improvvisamente, il giocatore spicca un salto, hop, e si compie il miracolo della resurrezione.

……

Prima esisteva l’allenatore e nessuno gli prestava particolare attenzione. L’allenatore morì, con la bocca chiusa, quando il gioco smise di essere un gioco e il calcio professionistico ebbe bisogno di una tecnocrazia dell’ordine. Allora nacque il direttore tecnico, con la missione di evitare l’improvvisazione, controllare la libertà ed elevare al massimo il rendimento dei giocatori, obbligati a trasformarsi in disciplinati atleti.

 L’allenatore diceva: «Andiamo a giocare». Il tecnico dice: «Andiamo a lavorare».

Adesso si parla con i numeri. Il viaggio dal coraggio alla paura, storia del calcio del secolo ventesimo, è un passaggio dal 2-3-5 al 5-4-1, passando per il 4-3-3 e il 4-4-2. Qualsiasi profano è capace di tradurre questo, con un po’ di aiuto, ma dopo non c’è più nessuno che ne sia capace. A partire da quel momento il direttore tecnico sviluppa formule misteriose come la sacra concezione di Gesù e con esse elabora schemi tattici più indecifrabili della Santissima Trinità.

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L’arbitro è arbitrario per definizione. È lui l’abominevole tiranno che esercita la sua dittatura senza possibilità di opposizione, l’ampolloso carnefice che esercita il suo potere assoluto con gesti da melodramma. Col fischietto in bocca, l’arbitro soffia i venti della fatalità del destino e convalida o annulla i gol. Cartellino in mano, alza i colori della condanna: il giallo, che castiga il peccatore e lo obbliga al pentimento, e il rosso che lo condanna all’esilio.

I guardialinee, che aiutano ma non comandano, guardano da fuori. Solo l’arbitro entra nel campo di gioco e giustamente si fa il segno della croce al momento di entrare, appena si affaccia davanti alla folla ruggente. Il suo lavoro consiste nel farsi odiare. Unica unanimità del calcio: tutti lo odiano. Lo fischiano sempre, non lo applaudono mai.

Ti consiglio di acquistarlo ma se vuoi dare un’occhiata puoi scaricarlo da qui:

https://www.porticando.eu/libri/Splendori.pdf

Se deciderai di leggerlo lascia qui qualche tuo commento.




Prima di fuggire….

Ho letto da qualche parte questo:

Da quando ho perso l’illusione di cambiare il mondo qualche volta galleggio e qualche volta affondo.

Cambiare il mondo forse non si può ma non vorrei affondare in questa nostra città sempre più melmosa, sempre più grigia, sempre più respingente. Vivere in questa Cava, dove l’unica cultura è quella del cemento e del commercio anonimo, diventa sempre più triste e difficile.

Prima di fuggire senza scrupoli in qualche Puerto Escondido forse bisogna ancora una volta porsi qualche domanda.

Possiamo fare qualcosa per la nostra città? Possiamo ripensarla? O dobbiamo arrenderci definitivamente e consegnarla ad un populismo ex-monacale, o a una destra miope e strapaesana o rassegnarci ad una miserevole continuazione con altri sinistri personaggi dell’esperienza Servalli responsabile della peggiore amministrazione dal dopoguerra in poi?

E’ possibile fare o almeno dire qualcosa affinché le uniche cose che cercano di rompere la catatonica monotonia cavese,  a parte l’ondata di cemento che ci aspetta, non siano la stanca e malinconica disfida dei trombonieri o l’elezione di miss Italia provinciale?

Che risposte dare, non ai commercianti (fra l’altro sempre meno cavesi), ma ai giovani, ai lavoratori, ai genitori, agli anziani, agli abitanti delle frazioni a cui la città offre servizi, opportunità ed interessi  sempre più scadenti, una città in cui, se non vuoi o non puoi spendere soldi in una affollata pizzeria, l’unico modo di impegnare il tempo libero è quello di mettersi alla finestra a vedere i vari fuochi di artificio che ogni notte compaiono come funghi o ascoltare il persistente e ossessivo rumore di tamburi che ammorbano l’aria quasi tutte le sere, o per i ragazzi scendere in piazza dove fra una birra e un’altra puoi assistere o partecipare a più o meno violenti scontri di bande o, come vittime o come carnefici, ad impietosi  atti di bullismo.

Una città che emana il cattivo odore dell’acqua di palude dove degrado, sporcizia e stagnazione la fanno da padroni e dove, fatta rara eccezione, le voci che più si sentono sono i versi di rospi che gracidano tanto più forte e spesso quanto più sono stati e sono responsabili del pantano in cui hanno gettato la nostra Cava.

Possiamo fare qualcosa? E se sì da dove cominciamo?




C’è bisogno di un puerto escondido

“Che danno ci farà un sistema che ci stordisce di bisogni artificiali per farci dimenticare i bisogni reali? Come si possono misurare le mutilazioni dell’anima umana?”

Eduardo Galeano