Prima del post devo fare una premessa, che ritengo doverosa. Per evitare una qualche contiguità (che non mi appartiene) con certo intellettualismo radical-chic, devo dire subito che il mio rapporto con i libri e le modalità di lettura, spesso, non appare lineare. Mi spiego! Non appartengo alla categoria dei macinatori di libri né sono di quelli che pubblicizzano sui social l’ultimo best-seller acquistato. È  vero mi ritrovo talvolta a leggere libri un po’ strani(?), bizzarri, tipo:treni strettamente sorvegliati, il quarto angolo, la passeggiata, saggio sul cercatore di funghi (che non è un trattato di micologia). Posseggo un discreto numero di scritti letterari, molti mai iniziati, altri letti a metà o mai terminati. Posso distrarmi e talvolta mi capita di ritornare a rileggere la stessa frase o, quando un racconto ha tanti protagonisti, non è raro che li confonda tra di loro. Per dirne una: quel capolavoro letterario che è ”L’ombra del vento” di Zafòn ho impiegato circa un anno per terminarlo (anche se letto insieme ad altri, più scorrevoli).
Fatta la precisazione, con animo più sgombro posso partire!

Quando ci si confronta con il tema della solitudine a me, che ho un po’ la fissa dell’etimologia delle parole, la prima cosa che viene in mente è quel che scrisse tempo fa uno dei maggiori interpreti dell’opera di Joyce :Enrico Terrinoni. La lingua inglese, lo sappiamo, a differenza della nostra, tende a semplificare i concetti: è misurata, non pleonastica, talvolta, addirittura essenziale. Però sul concetto di solitudine appare, forse, più ricca di sfumature dell’italiano.
In inglese isolamento può essere insulation oppure isolation. . . Il primo lemma identifica la condizione di rimanere da soli, di essere tagliati fuori-ovvero un isolamento nello spazio; il secondo ci parla di solitudine, dell’esser separati dalle altre persone-ovvero un isolamento sociale, dal risvolto umano. . . . L’esilio, però, è una insulation in space e una isolation in spirit, come ricordò alla Vigilia di Natale del 1849 in un famoso sermone sulla solitudine di Cristo il reverendo Frederick W. Robertson. Ma è anche una condizione filosofica, a volte adottata consapevolmente per riuscire a tornare in sé e a parlare di quanto ci circonda. Ed è per questo che,dice sempre Terrinoni, è possibile addirittura invertire il messaggio (la Meditazione XVII, declamata dal Decano della Cattedrale di St Paul, John Donne nel novembre del 1621), quando tuonò “no men is island (un vero inno alla comunità e allo stare insieme) mutabile e mutato in “every man is an island”, ciascuno di noi è un’isola. Un concetto che descrive bene la condizione dell’uomo moderno. L’idea stessa di isola, poi, implica quello di viaggio e, perciò, di movimento.


Ma, in antitesi, dico io, rimanda anche all’uso, alla funzione che per secoli è stata affidata alle isole come confino, come esilio, isole come carceri (basti pensare a Procida o ad alcune trasposizioni cinematografiche, in “Fuga da Alcatraz “ o in “Shutter Island”). Il termine “isola”, precisa Terrinoni, viene dal latino “insula”. In antico inglese ealand significava qualcosa come “ terra bagnata da un fiume”. La stessa radice latina del termine proverrebbe dal greco sà-los , ovvero mare, acque tumultuose. In qualche stadio della storia della lingua la radice sàl/sol iniziò a significare il suo opposto, soil, suolo. Abbiamo, dunque, una stessa radice alla base di due concetti distanti di terra e acqua, senza cui l’idea stessa, anche etimologicamente, di isola sarebbe impossibile. Un’ ambiguità, un’apparente antinomia, che riscontriamo anche in autori del calibro di Montale, che nel 1952, in un saggio, quasi introvabile, dal titolo “La solitudine dell’artista” rimarcava il rapporto tra comunicazione e isolamento comunicativo, in un’antitesi, mai risolta, tra un io “ empirico” , soggettivo, profondo, isolato e un io trascendentale, capace di comunicare, che si rilevava alla fine un alter ego idealizzato(da “Montale e la parola Riflessa” di C. Ott).
Certo, come qualcuno mi ha suggerito, si potrebbe parlare di come siamo necessariamente soli nello spazio, nel cosmo, nonostante gli infiniti mondi e gli infiniti universi. Altrimenti quante cacciate dall’eden dovremmo avere, quante arche di noè, quanti golgota e quanti milioni di san Gennaro? No, temo che nonostante la scienza ci suggerisca il contrario, se vogliamo tenerci la splendida storia di Gesù, dovremmo pensare che Iddio nella sua infinita saggezza all’Uomo abbia voluto regalare una dolorosa, e, in fin dei conti, fantastica unica esperienza.


Nel ringraziare chi mi ha dato l’occasione, l’opportunità di trascorrere un po’ di tempo libero con me stesso, esaurito l’armamentario delle citazioni dotte, rimessomi dalla trance “ letteraria“, (posso dirlo senza sembrare decadente?) mi sembra di provare un po’ di vergogna, se solo di striscio penso alla nostra condizione di uomini privilegiati (a vario titolo e a diversa intensità), di cittadini dell’occidente grasso e crasso, che ha il tempo di discettare sulla propria (inesistente?) solitudine. Perché, lo sappiamo in tanti! Al mondo ci sono uomini e donne e bambine e ragazzi reclusi in territori desertificati dalle guerre o dal clima o terrorizzati in carrette in mezzo a una minacciosa distesa di mare: un’umanità sopraffatta dalla propria miseria, che ha solo l’urgenza di sopravvivere, spesso nemmeno sorretta dagli strumenti per pensare, elaborare . Anche ignara di essere sola!

1 thought on “Giancarlo Durante: l’ambiguo privilegio della solitudine

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