Giancarlo Durante: La valigia della restanza

Non più tardi di un mese fa una cara amica postava sui social le foto dei suoi preparativi per una partenza importante: un viaggio umanitario imminente in un villaggio congolese, uno dei tanti, sparsi in quello sterminato spazio abitato per lo più dalla miseria che è il Congo. Fotografava quattro valigie, enormi, gonfie fino all’inverosimile, e commentava: queste sono le prime quattro ma ne ho programmate, in aggiunta, altre quattro! Sapete, diceva, i bambini lì hanno bisogno di tutto! Questa che doveva essere la condivisione di una generosità non ostentata, merce sempre più rara, mi trasmetteva, a dire il vero, un sentimento di ammirazione misto a un non so che di rabbia e tristezza.
Ma come, nel 2024, ai tempi della neo-globalizzazione, abbiamo ancora la necessità di stipare in uno spazio angusto i nostri regali, di trasportarli e doverli consegnare di persona? Meditavo: possibile che non ci sia una modalità meno invasiva di questa, un po’ più moderna, che preservi affidabilità, celerità e sicurezza e che sia confacente ai nostri tempi? Questo per dire che io con la valigia ho sempre avuto un rapporto un po’ conflittuale. Non ne disconosco l’utilità, no, ma diciamo la verità: dov’è la valigia, là non ci sono io. La ritengo un contenitore in perenne fame d’aria e, come tutti gli oggetti chiusi, quindi, compressa e comprimente e, in fondo, anche deprimente (figuriamoci se fosse di noce o mogano!). Non mi evoca né la partenza né tantomeno il ritorno.

La vedo, poi, elencativa, classificatoria, numerologica. Mi trasmette un po’ l’ossessione per la programmazione, che confligge con l’imprevedibilità del viaggio. Perché, parliamoci chiaro, per quanto tu voglia metterci dentro tutto, qualcosa, alla fine, rimarrà sempre fuori. Tanti anni fa, nelle rare partenze che potevo permettermi da studente universitario, avevo ufficialmente delegato mia madre a prepararmi il bagaglio (e se non era fatto di cartone, poco ci mancava!). Poi il testimone è passato a mia moglie e, con gli anni, la valigia é diventata sempre più elegante, colorata, tecnologica, anche griffata.
Ma mai, dico mai, l’ho resa oggetto per me indispensabile. Poi se dobbiamo accennare che il tema dato sottintendeva il concetto di valigia dei desideri o dei sogni, la mia avversione, se possibile, si amplifica. Sarà un mio errore interpretativo, ma considero la valigia dei desideri un ossimoro.
Quanto i desideri sono aleatori, volatili, tanto la valigia è una potente appendice del sé, la sovrastruttura che ognuno si porta appresso.

Un po’ la plastica materializzazione della zavorra del proprio super-io, che, insieme ai titoli, ai riconoscimenti, ai diplomi veri o inventati, meritati o rubati, ci sovrastano e, alla fine, si rivelano disturbanti per un tranquillo percorso di vita. Pensate come sarebbe bello partire leggeri, vivere in una società liberata dalle valigie! Devo confessarvi, però, che una valigia, almeno una, posso dire di essere orgoglioso di possederla: quella che gelosamente custodisco nel soffitto di casa, intonsa, mai usata.
È la valigia della mia “restanza”, che non fu mai semplice permanenza, piuttosto coraggio della resistenza. Spesso mi capita di andare a scrutare il suo processo di mutazione nel tempo: la vedo di anno in anno trasformarsi in una conchiglia, aperta a mo’ di palmo di mano, mentre raccoglie un aquilone coloratissimo e magico.

 È quasi pronta! Un giorno, ne sono certo, mi permetterà, anche solo per qualche istante, di danzare, volando a pochi metri da terra, in un girotondo con le persone che ho conosciuto e a cui ho voluto bene. Ci sarò io e ci saranno loro e saranno presenti anche i figli e i nipoti che loro non hanno mai potuto conoscere. Sarà una danza leggera, impalpabile con i volti sorridenti di tutti, di chi ancora sta qui e di chi da tempo ci ha lasciati. E questo, posso dirlo con orgoglio, sarà il paradiso che mi sarò meritato!

N.D.R. questo è il primo post con il quale diamo inizio al gioco del commento generato dalla Intelligenza artificiale. Potete leggerlo qui di seguito