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La Chiesa d’Occidente, nel corso della sua storia, ha legato progressivamente il celibato al sacerdozio. Essere prete, in Occidente, implica il celibato come stato di vita. Conosciamo le ragioni economiche, morali, pastorali e spirituali di questa situazione. D’altronde, può sembrare importante oggi riflettere sulla solitudine del prete che il celibato manifesta e accentua in maniera particolare. Riconosciamolo, il ministero sacerdotale rimane attraversato dalla solitudine.  
La solitudine del prete è uno dei temi più dibattuti dalla stampa e talkshow. Un tema senza dubbio di grande interesse che non sembra essere analizzato sempre compiutamente. La prima argomentazione prodotta con l’intento velato di denigrare, riguarda la scelta celibataria della Chiesa Cattolica. Ma la solitudine del prete non dipende dalla mancanza di cose o di persone ma piuttosto dall’ assenza della pienezza di Dio.  

Quasi a voler dimostrare che: l’unico modo per allontanare la solitudine basta una relazione matrimoniale. La solitudine che il prete vive non ha nulla a che vedere, almeno non in modo determinante, con il fatto che, tornato a casa, non ci sia qualcuno che gli corre incontro o che gli chiede di vedere i compiti, qualcuno con cui parlare o sfogarsi, con cui ridere o piangere. Esistono variegate diversificazioni a determinare il problema della solitudine del clero.  
Esiste ad esempio una incisiva differenza tra i sacerdoti diocesani (i parroci) e quelli che vivono nelle Fraternità (ordini religiosi) soggetti alla osservanza condivisa della “Regola”. Vivendo in fraternità i religiosi sono meno esposti ai pericoli della solitudine; anche se ciò non è sempre sufficiente quantomeno ad arginare il problema. Per fortuna diventano sempre più frequenti, e preziose, piccole esperienze di vita fraterna tra sacerdoti diocesani che decidono di vivere insieme almeno qualche momento della giornata.   È vitale per un prete, una volta uscito dalla prima formazione, di saper guardare oltre il proprio confine “geografico” di competenza, di saper dedicare del tempo a curare le relazioni all’interno del presbiterio, di sapersi interessare alla vita degli altri preti, per intercettarne eventuali bisogni o chiedere aiuto per sé.
Non poter contare su nessuno, sia per un momento di svago, che quando si sta male, è terribile. La formazione deve prevedere l’aspetto interpersonale in modo anche esperienziale, attraverso momenti concreti di condivisione, attraverso la possibilità di portare avanti, insieme con altri confratelli, un’attività, un servizio, un progetto.
I giovani vanno verificati sul fronte della collaborazione, della generosità reciproca, anche quando non sono dentro una realtà di vita comune, perché il saper stare con altri fratelli e sorelle non è un “compito” solo dei religiosi. Come mai può accadere una situazione simile? Come può succedere che un prete arrivi ad una solitudine “insopportabile”? Non c’è da scandalizzarsi, ma non tutto si può risolvere dicendo che è solo questione di fede (anche, ma non solo). Innanzitutto siamo in un tempo di grandi individualismi, e questa “malattia” colpisce tutti. Se si parla tanto del bisogno di ri-umanizzarsi, soprattutto nei rapporti interpersonali, è perché lì risiede il punto debole della nostra epoca.
La vera, grande, solitudine del prete è ritrovarsi solo ed inascoltato nel predicare Cristo. Solitudine è non poter dire basta alla folla di lacrime che stanno alla porta e bussano perché dire basta, come scriveva don Primo Mazzolari, sarebbe dire basta a Cristo che viene e questo è impossibile. La solitudine del prete è trovarsi talvolta come in un deserto a parlare ad un mondo che non ti vuole ascoltare, o che ti ascolterà un’altra volta (come risposero a Paolo di Tarso i greci dell’Areopago di Atene). L’uomo moderno spesso va in ceca e spende le sue energie pe ciò che non lo porta a salvarsi.


La solitudine del prete è avere un tesoro in vasi di creta, condividerlo ed accorgersi che alle persone interessa più il vaso del tesoro. Questa è la solitudine del prete, non poter fare a meno di predicare Cristo, ma doverlo predicare come è, crocifisso. In un mondo che, da sempre, fugge le croci e spera di pagarsi in qualche modo una improbabile risurrezione. Intanto non c’è da temere. Ci sono giorni così, ma non sono tanti, perché, alla fine, il prete non è mai solo, c’è sempre un tabernacolo che lo aspetta per l’ora di ascolto e i cuori aperti di fratelli e sorelle disposti a sostenerlo anche nelle sue fragilità… 

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