Mia madre mi insegnò come attraversare il mare senza timore. Ricordo,da ragazzino, un’ estate e un bagno di fine stagione. Gli amici erano già corsi via, tornati nelle loro case in paese, ed io non trovai nessuno ad aspettarmi sulla spiaggia. Ci rimasi male all’inizio, ma poi quella sensazione di solitudine mi piacque.

Mi svestii e mi tuffai. Il corpo si lasciò andare e cominciai a nuotare verso l’orizzonte, senza una meta né un tempo di arrivo. Non mi importava dove sarei finito né quando sarei tornato. Poi mi girai e, stando a galla sulla schiena, mi si stagliò la vegetazione colorata che ricopriva la roccia dell’isola, i ciuffi di macchia, che dalle fessure si proiettvano a picco sul mare.

Nuotai senza chiudere gli occhi, come i pesci. Volevo essere uno di loro.

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Avvolti nelle nostre reciproche solitudini, temevamo di scoprire un mondo diverso da quello che avevamo lasciato, in un’altra stagione, in un tempo che ci sembrava ormai lontano, benché bastasse voltarsi indietro e riconoscerlo senza fatica. Non fummo in grado, per un certo tempo, di parlare a quella parte di noi che avevamo in comune, come se si fosse inabissata in un fondo al quale sarebbero arrivate le voce di andata, ma da dove non ne sarebbe riemersa nessuna di ritorno.

dal libro “Il posto degli assenti

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