Ogni melomane è convinto di essere Il Melomane: ha le sue opere preferite, colleziona le incisioni di riferimento (meglio se in vinile), conosce gli allestimenti che hanno fatto la storia della lirica, tifa per questo o quel cantante, conosce “i tempi” dei grandi direttori e le “tradizioni”, odiadora il divismo delle dive, si incanta ad ascoltare i racconti dei vecchi cantanti perché è un po’ come fare
un viaggio nel tempo. Ma più di ogni altra cosa, ogni buon melomane compie un processo di appropriazione di brani (a volte anche solo semplici e brevi passi) delle opere, li fa propri, quasi si convince che l’autore li abbia scritti proprio per lui, e ci costruisce sopra immagini, storie, sentimenti.
Personalmente associo il «Mimì» urlato alla fine di Bohème al Dolore straziante. “Quando ero paggio del duca di Norfolk” è per me la Leggerezza (e l’effetto umoristico-paradossale è dirompente, visto che una musica tutta giocata su pizzicati degli archi e orchestrata con sonorità diafane dei legni, il genio di Verdi la mette in bocca al pingue Falstaff). La quinta essenza dell’Amore è il duetto del finale I atto di Otello (ancora Verdi). Spensieratezza e Gioia di vivere li ritrovo nella cavatina di Figaro del Barbiere di Rossini. La Bellezza in qualsiasi melodia scritta da Bellini.

E così via, procedendo alla costruzione di un privato vocabolario sentimentale.
E la Solitudine? Credo di aver ascoltato per la prima volta Manon Lescaut da bambino quando mio padre, melomane pure lui, passava le domeniche a sentire opere (io avevo il delicato compito di cambiare la facciata del disco), e l’aria cantata dalla protagonista nel IV atto, “Sola, perduta, abbandonata”, mi ha sin da subito comunicato il senso della Solitudine.
Non mi sono mai interrogato circa il motivo di queste associazioni, è qualcosa di istintivo, di pancia, è così e basta. Quando però Carlo mi ha invitato a scrivere qualcosa sull’argomento, ho iniziato a chiedermi “perché?”, o meglio “cosa?”. Cosa mi induce ad associare questa o quella musica a quel particolare sentimento?
Riflettendo sulla Solitudine e l’aria di Manon, al di là della facile suggestione del libretto che recita “Sola, perduta, abbandonata” (ricordiamo che nell’opera sovente il testo è solo un pre-testo per scriverci sopra la musica), posso dire che ciò che ha colpito maggiormente la mia fantasia è il particolare uso che Puccini fa di uno strumento: il flauto. Da grande uomo di teatro quale fu, il musicista colloca un flauto nelle quinte del palcoscenico.

Non era certo un artificio nuovo quello di posizionare musicisti sopra (o dietro) al palco. Ma ci trovavamo di fronte alla cosiddetta musica di scena o musica in scena, categorie ben note a tutti gli operisti. Nel caso di Manon Lescaut avviene qualcosa di diverso. Le frasi del flauto non hanno alcuna relazione diretta con l’azione scenica come accade nelle categorie citate (per intenderci, non si tratta di musica o suoni che verrebbero uditi anche dai protagonisti del dramma). La relazione avviene invece a livello narrativo e drammaturgico. Perciò non musica di scena né musica in scena, bensì musica sulla scena. Con ogni probabilità Puccini è stato fra i primi grandi operisti a capire l’importanza della spazialità del suono (pochi anni dopo avrebbe lasciato meticolose indicazioni sul posizionamento delle campane del mattutino di Tosca).

La voce del flauto che ci parla dalle quinte ci restituisce quel malinconico senso dell’altrove che i francesi chiamano ailleurs, e che non avrebbe avuto se invece il suono fosse arrivato dalla fossa orchestrale. L’effetto è straniante, il timbro si fa spettrale, a evidenziare una distanza che è non solo fisica, ma soprattutto emozionale.
Insomma quel flauto posto lì, isolato dal resto del golfo mistico, segna il passato e il presente di Manon, è ricordo e consapevolezza di un destino che sta per compiersi. Quel flauto rappresenta, almeno nel mio vocabolario sentimentale (e magari anche in quello di Puccini), il manto di solitudine che lento e inesorabile avvolge Manon morente.

2 thoughts on “Ermeneziano Lambiase: Melosolitudine

  1. Li ho letti tutti! Ognuno ha dispiegato un ventaglio di emozioni logiche ragionamenti situazioni. Molto interessanti. Il melomane mi ha toccato più sensibilmente.
    Puccini era molto raffinato e accurato. Mi raccontava mia zia Nanda Primavera che andava a vederla e seguiva con attenzione ogni parola. Zia Nanda fu una grande soubrette dell’operetta. Calcava le scene ai primi del secolo scorso. Già nel 1915. Aveva 17 anni ed era la prima donna. Mio papà non era ancora nato.

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