Carlo chiede di scrivere qualcosa sulla solitudine.  Premetto che non mi sento mai sola e non sto mai male se sto isolata, anche se amo moltissimo la gente e sono molto vivace affettuosa e comunicativa.
Tuttavia questa richiesta mi induce a riflettere. Cerco uno spiazzo nella mia immaginazione dove costruire le mie riflessioni.Â

La solitudine è un prisma.
Non uno stato fisico né uno stato mentale né un sentimento.
La solitudine è un vuoto che non riesci a vedere. Se non lo vedi non lo puoi riempire.
Non lo puoi riempire!
Questa incapacitĂ  Ă© la percezione della solitudine.
Legata a un dolore.
Legata a una scelta.
Legata a un ricordo.
Legata a un privilegio di cui solo tu hai l’esclusiva.
Legata a una gioia che non vuoi condividere.

La solitudine.
Un prisma con tante facce. Una sola riflette la luce se colpita.
In quel momento ti fermi e osservi. La lontananza ti isola da qualcosa che possiedi o che hai posseduto. La privazione ti relega in una piccola desolazione.
Un luogo una persona un affetto un suono un odore…
Vado con la memoria a raccogliere questi frammenti.

Petali lievi che lasciano una traccia sonora. Un’ eco ti coglie e sei lì. Solo.
Quando? Il suono è forte e dolente. Fa male? Cerchi di ignorarlo addolcirlo.
Il pudore mi blocca ma posso raccontare di quando ho capito che i miei genitori non mi potevano assecondare a realizzare i miei sogni. Un tuffo nel buio!! Ero sola. I miei desideri congelati. Inaccessibili per sempre forse…. Inerme… Sola…

La cittĂ  eterna mi ha accolta fascinosa e generosa. Ero sposa mentre i miei monti si azzurravano di oblio. Come quella marina bagnata di gioventĂą e salsedine.Tornavo e ritrovavo tutto e mi accorgevo di avere le guance rigate di lacrime. La lontananza non ne aveva mai sbiadito l’appartenenza violenta come una passione mai estinta. Ritrovavo il canto lento dell’idioma parlato dalla mia gente. Risentivo gli odori e un senso di abbandono mi colpiva implacabile. Era tutto mio ma io non ero piĂą loro. Non appartenevo piĂş a quel divenire. Divenivo altrove. Ho tentato di restituirmi alla mia cittĂ . Con l’impegno politico. Con il lavoro. Con l’amore per i miei che restavano ancora lì.  Con i legami d’amicizie. Con la partecipazione sporadica ai fatti della cittĂ . Compatibilmente con gli impegni di famiglia. Tutto cambia. Tanti spariscono.
I respiri restano. Fermi come statue nel vento.

Ricordo i libri di Wilburg Smith che leggevamo regolarmente durante l’estate. C’era spesso un giovane africano costretto ad abbandonare la sua terra. Ricordo che ne metteva un mucchietto in un sacchetto e se lo legava al collo senza mai staccarsene. Era ingenuo ma ogni tanto ho pensato di fare lo stesso. Un’usanza tribale che la parte selvaggia della mia natura non avrebbe disdegnato.


Sono un’esperta subacquea. Una volta in Indonesia per una serie di disattenzioni che non sto a riferire mi staccai dal gruppo e fui trascinata da una corrente violentissima.  Restai isolata in mezzo al mare per oltre due ore. Solitudine totale implacabile pericolosa. Tutto era lontanissimo!
Non ho avuto paura. Allora! Mi ritrovarono. Mi salvarono.
La paura l’ho avuta dopo. Ora se ci penso.
In quel momento mi organizzai per raggiungere un’isoletta  a circa un miglio. Divenni fredda e insensibile. Surreale!  Entrai nel mito. Ero una sirena. Le sirene di tutti i mari mi sorreggevano e spingevano contro corrente verso la riva.
La solitudine di una distesa di mare infinita mi consacrava alla lontananza. Non ne ero prigioniera ma padrona. 

Troppo intime queste confidenze?
Parlare delle proprie emozioni è come sospendere l’anima in uno spazio aperto.
Un viaggio senza ritorno.

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