Sogno americano

di Giancarlo Durante

Ma non scherziamo. Negli Stati Uniti bisogna andarci. E, per chi ne ha la possibilità, consiglio di andarci spesso. Escludere gli USA dagli itinerari turistici solo per partito preso, per una visione grossolanamente ideologica, perché gli States sono marchiati come regno del male, fa parte di un anti americanismo ormai fuori moda e fuori luogo, tribale, un falso apoftegma per gli amanti del greco antico, perché confonde le enormi responsabilità che gli USA hanno avute nelle politiche d’imperialismo a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale con le infinite sfaccettature di un mondo che contiene tutto e il suo contrario e la cui complessa storia sarebbe un delitto ignorare. Deponete, perciò, cari amici, l’abito del turista europeo(peggio italiano, peggio ancora di sinistra)spocchioso e con la puzza al naso. Allenate la vista l’olfatto l’udito e anche il gusto agli eccessi, lasciandovi trasportare dalla voracità del conoscere, dalla bulimia di nuove esperienze sensoriali e soprattutto abituatevi a standard abnormemente amplificati:createvi un nuovo concetto di dimensione. Perché in USA la quantità, per incanto, si trasforma in qualità. Dalle piazze ai giardini, dai grattacieli all’intensità delle luci, dai suoni alle pinte di birra, dalle prime colazioni dei cuochi obesi dei college alle adunate delle più pittoresche sette religiose, tutto in America è esagerato, dilatato. Bello perché profondamente diverso dalla nostra tranquilla ipocrita realtà strapaesana. Se non c’è questa precisa disposizione di animo, se non si materializza questa speciale“apertura”mentale, lasciate stare: gli States non sono fatti per voi! New York, poi, è una città stupenda. E per chi ama il cinema, come si fa a non associarla all’immagine che viene fuori dai films di Woody Allen, contaminati dalle atmosfere patinate e dai riti e vizi della medio-alta borghesia newyorkese, che ignora l’infimo dei sobborghi violenti e delle sterminate e dimenticate periferie della città? New York rimane, comunque, impareggiabile:un luogo dove ti può capitare di essere proiettato in un futuro astratto, apparentemente anonimo, ipertrofico e ipertecnologico, come il World Trade Center, con l’ascensore che in 1 minuto ti proietta al 100° piano o a sperimentare l’inno apotropaico della scultura del Bowling Green Bull a Wall Street. Una città dove puoi aspettarti di essere “sequestrato” dalla simpatica proprietaria di un bar (strano i chioschi a New York non possono servire alcolici! ), alla quale non sembra vero di poter raccontare di essersi recata due volte in Italia a degli italiani:giusto per farti illudere un attimo di essere una persona importante.

E insieme restare basito di fronte alla scena del gruppetto di ragazzine sorvegliate da un anziano “signore” mentre escono da un Mac Donald’s per fuggire di corsa chissà dove nell’indifferenza della moltitudine della Quinta Strada. Come restare impassibili , poi, ai canti e balli lungo la spiaggia di Long Beach o al frastuono del Luna Park di Coney Island o quando vai a cercare ciò che resta dei fasti di quella che, una volta, era la Little Italy, ingoiata dagli impenetrabili quartieri di China-Town?E se per avventura ti dovesse capitare di visitare qualcuno degli stupendi Colleges Universitari del New England, non sarebbe difficile calpestare immensi spazi verdi, boschi abitati dagli animaletti più strani che pensavi comparissero solo nelle storie di Walt Disney. In quale altro luogo al mondo puoi, poi, scoprire lo stesso orgoglio e lo stesso patriottismo che mostrano gli americani nella cerimonia dell’alzabandiera, se non recandoti a Philadelphia, al Memorial Day? Come pure qualcosa in più potrai capire della recente storia americana se ti avventuri sul lungomare di Baltimora, luogo citato, persino, nei fumetti del Grande Blek. E quando ti rechi a Boston, sai che ti trovi in uno dei maggiori templi della cultura, della storia e del progresso non solo americano, sede dell’ Harvard University e del Massachusetts Institute of Technology. E nessuna emozione ti assale nell’aggirarti a pochi passi dalla Casa Bianca o, autorizzato, quando ti permettono di visitare un’ala del Campidoglio? E non dirmi che non ti solletica un po’ entrare in una capsula spaziale al National Air and Space Museum di Washington? Con qualche giorno in più di permanenza potresti, poi, solcare in canoa gli incontaminati corsi d’acqua e i laghi dell’Oregon, lo Stato americano che offre uno dei sistemi sanitari più avanzati al mondo. E andare a vedere le famose Cascate, e gli Stati del Middle-West e quelli del Sud, i deserti dell’Arizona e il New Mexico, la Florida, la California, la musica di New Orleans, la Silicon Valley e Disneyland, e così via. La Repubblica Federale degli Stati Uniti d’America conta 50 Stati, pochi localizzati fuori dal territorio americano, gli altri distribuiti su di una superficie che è più di trenta volte quella dell’Italia. All’interno di ciascuno di questi stati trovi una ricca, caleidoscopica società pulsante, lontana, però, dagli stilemi e dai ritmi di vita di noi, abitanti del Vecchio Continente. Non è una novità, quindi, se scopri che in America c’è troppo da conoscere e troppo da vedere e appare naturale mostrare un iniziale moto di rigetto. Iniziale, però. Perché se ti riprendi, in America poi ci torni. Così alla fine ti accorgi che le cose sono tante, troppe, da poter essere contenute e banalizzate in una paginetta del blog di Carlo. Sterminati i territori e le metropoli e sterminata la letteratura americana. Così, col rischio di avvicinarmi pericolosamente al senso del ridicolo oso proporvi due testi che mi vengono in mente (il tempo sta diventando sempre più risicato e da leggere c’è ancora tanto e pure i luoghi da visitare al mondo sono ancora troppi e diversi sono gli spezzoni di vita vera ancora da vivere). Il primo un po’ fuori dagli schemi abituali é formato da storie di ordinaria normalità, un autentico gioiello di lettura “leggera”che esce fuori da un libro edito nel lontano 1964 e acquistato per 350 lire come Oscar Mondadori, che si chiama ”Che ve ne sembra dell’America?” e l’autore non è di quelli stra-conosciuti:William Saroyan. Il secondo è dell’arci-noto David Foster Wallace. E mi sembra illuminante riportarvi qualche passo significativo, tratto da uno dei suoi pamphlets più noti“Considera l’Aragosta”.

Il Festival dell’Aragosta del Maine, immenso , pungente ed estremamente ben pubblicizzato, si tiene ogni anno a fine luglio. . . L’affluenza totale quest’anno ha superato le centomila persone, . . Food & Wine proclamava il F. A. M. forse la migliore festa a tema gastronomico del mondo. Ricordo che l’industria alimentare statunitense produce circa quaranta milioni di chili di aragosta e il Maine è responsabile per più della metà del totale. Punti salienti di questa edizione sono: concerti di Lee Ann Womack e degli Orleans, concorso di bellezza, annuale Dea Marina del Maine, grande Parata del Sabato, corsa sulle casse in memoria di William Atwood, di domenica:gara di cucina amatoriale , giostre e attrazioni da luna park, e stand di roba da mangiare , oltre al al tendone del Ristorante del F. A. M. , dove vengono consumati qualcosa come più di undicimila chili di aragosta del Maine appena pescata, cotti nella Pentola per aragosta più grande del mondo vicino all’ingresso nord della Fiera. . . Il Festival , alla fine, non é poi così diverso dalle sagre del granchio nella regione del di Tidewater, dalle sagre del granturco del Midwest, o del chili con carne in Texas, eccetera, e con queste ha in comune il paradosso di fondo di tutti gli eventi commerciali demotici e brulicanti: non è per tutti. In realtà c’è molto da dire sulle differenze fra la Rockland operaia e il sapore populista del festival vs l’agiata ed elitaria Camden con il suo panorama costoso e i negozi ceduti a maglioni costosissimi e schiere di villette trasformate in B&B. . . . Essere turisti americani di massa per me significa diventare puri americani dell’ultimo tipo ; alieni, ignoranti, smaniosi di qualsiasi cosa che non si potrà mai avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare, per mera ontologia, quell’ incontaminatezza che si è andati a sperimentare. Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi non-economici, migliori e più veri senza la nostra debordante presenza. Scrivendo queste righe mi è venuto alla mente quel che un po’ di anni fa mi confessò una cara amica venuta a trovarmi per la prima volta a Cava. Ti devo dire la verità, mi disse, seria e con un tono solenne, asseverativo, ho preso un maglione in un negozio di Cava; ma l’educazione e la bonomia che ho trovato comprando un vaso di ceramica a Vietri non le ho riscontrate nella vostra città. Sarebbe lungo raccontarti, le risposi, cara mia, ma la gente di Vietri, sai, ha origini etniche un po’ diverse da quelle dei cavesi. Poi l’aria di mare. . . ! Tanto per dire:fantasioso e originale archiviare con una battuta”turistica” Cava e i suoi cittadini, un po’ più arduo farlo quando si maneggiano America e Americani!




Dal libro “Gocce sognanti”: Stravos e Despina, Alexis e Vassilikì

Nella zona nord occidentale di Creta una lingua di terra, il promontorio di Corico, sfida il mare per protendersi verso l’arcipelago Gramvousa. Non ci sono strade se non un’ampia pista in pietrisco che va dai dintorni di uno dei ristoranti più caratteristici e più belli di Creta fino ad altura in prossimità della Baia di Balos. Li vicino è anche previsto un parcheggio per gli asini.

Fermata l’auto si imbocca il sentiero che porta alla laguna che appare improvvisamente appena inizia la ripida discesa verso il mare.
Si rimane a bocca aperta per i colori e la limpidezza delle acque e per il bianco ed il rosa della spiaggia.
Nei pressi dell’area di parcheggio c’èra una baracca nella quale una coppia di vecchietti teneva un piccolo commercio di bibite, e proprio là decidemmo di riposarci nel tardo pomeriggio al termine dell’affaticante ritorno.
Mi piaceva già allora scambiare qualche parola in greco quando potevo e perciò subito presi a chiacchierare con i simpatici Stavros e Despina.
Scoprii che l’uomo conosceva un po’ della nostra lingua essendo stato a contatto da ragazzo per due anni con il piccolo presidio di soldati italiani presente nell’isola dal 1941 al 1943 e negli anni 50 era stato diverse volte ospite a Bari del capitano Riccardo Bonadies che lo aveva preso a benvolere.
Saltellando fra le due lingue ci fu fatto questo racconto:

Ai vecchi tempi, ai tempi del mio trisavolo, Gramvousa era un covo di pirati che avevano costituito una vera e propria città marinara con tanto di chiesa dedicata alla Παναγια η Κλεφτρινα, “patrona dei ladri”.
Oltre ad essere il terrore di tutte le navi che solcavano quel mare, i grabusini non disdegnavano scorrerie nei villaggi della zona alla ricerca di animali e cibarie, ma soprattutto di donne.
Perciò una mattina gli abitanti di Kissamos, vedendo avvicinarsi le barche dei pirati, si affrettarono a nascondere le loro ragazze e le loro giovani mogli.
Il vecchio settantenne Alexis, pieno di angoscia, disse alla moglie Vassilikì:

-Presto io non posso muovermi ma tu corri a nasconderti ..se no questi arrivano e se ti vedono ti prendono …
-Ma io non ho paura, rispose lei, sono vecchia e malridotta…. che mi possono mai fare? “
Allora il marito la guardò con tenerezza e facendole una carezza le disse:
– Sì …. ma, se ti vedono con i miei occhi?

Mentre mi raccontava questa dolce storia, Stavros non distolse lo sguardo dal viso di sua moglie Despina e quando giunse alla fine la abbracciò mentre i suoi occhi diventavano lucidi.
Anche noi ci commuovemmo molto e rimanemmo ancora un po’ di tempo in loro compagnia a bere raki fino a quando al calar del sole ci allontanammo mano nella mano verso la nostra auto.
Ci proponemmo di ritornare a Balos e lo facemmo dopo due anni e grande fu la malinconia quando trovammo la capanna di Stravos e Despina in evidente abbandono.
Probabilmente avevano lasciato il paradiso terrestre della laguna per raggiungere, non so dove, Alexis e Vassilikì!

Siamo stati altre volte a Creta, ma non siamo più tornati a Balos.




Giancarlo Durante: Praga ’78 nera e misteriosa bellezza

 Vivere è stare sveglie concedersi agli altri,
dare di sé sempre il meglio e non essere scaltri.
Vivere è amare la vita coi suoi funerali e i suoi balli,
trovare favole e miti
nelle vicende più squallide.
Angelo Maria Ripellino – da Wikipedia-

Avevo da poco compiuto i 18 anni quando Jan Palach il 16 gennaio del 1969 volle esprimere la sua fiera opposizione alla dittatura imposta dai sovietici in Cecoslovacchia, dandosi fuoco in Piazza San Venceslao a Praga. Immolare la propria vita per ideali così alti da parte di un giovane, quasi mio coetaneo, colpì, e, in qualche modo, segnò molti di noi, incuriositi dai movimenti libertari che si andavano sviluppando negli Stati Uniti, in Francia e in quasi tutta l’Europa Occidentale. Ci fu questo, ma anche altro, a spiegare perché dieci anni dopo fui spinto a visitare “la nera bellezza” di Praga. Un po’ di tempo prima con amici, mentre attraversavamo la Cecoslovacchia per raggiungere Cracovia, in un viaggio che precedeva non di molto i tic maschilisti di un’ italietta non solo da sottoproletariato (come raccontato nel film icona di Verdone “Un sacco bello“) , avevo conosciuto una ragazza che ci aveva chiesto un passaggio in auto per qualche chilometro. Come appresi dalla corrispondenza epistolare intrecciata, che seguì quella rapida conoscenza, Jana si era, poi, iscritta alla Facoltà di Lingue proprio a Praga. Decisi di andarla a trovare e di visitare quella splendida capitale europea, tante volte immaginata leggendo l’incredibile descrizione che ne volle fare Angelo Maria Ripellino in “Praga Magica”. ”Una città che chi l’abbia guardata una volta nei profondi occhi trepidi e misteriosi, resta per tutta la vita succubo dell’incantatrice. . . . , per secoli nido di avventurieri senza pietà né legami, …. dalla quale ciascuno strappava, ingoiava un pezzo della viva polpa . . . , la quale dava sino ad esaurirsi, senza che alcuno le si desse, per ripagarla di ciò che le aveva tolto”.

https://www.facebook.com/watch/?v=823490361610228

Arrivato di buon mattino con viaggio aereo da Roma mi recai al Centro della Città presso l’ Ufficio di Turismo Giovanile, al quale mi ero precedentemente iscritto. Mi consigliarono, o meglio mi assegnarono, una sistemazione presso una delle camerette ricavate da un barcone ancorato su una delle due rive della Vltava. Ero un giovane Medico senza grandi disponibilità economiche e senza grosse pretese. Accettai, recandomi subito a fare il check-in in quella sorta di piccolo Hotel. Attraversando Vaclavske Namesti (Piazza San Venceslao), il lungo boulevard, che ha inizio dal Narodni Museum e si biforca, poi, in due importanti arterie (una delle quali è l’elegante Na Prikopè), oltre che dai palazzi dell’antica nobiltà ceca requisiti dallo Stato e trasformati in raffinati ristoranti, rimasi incuriosito dai tanti giovani in istrada che con passo veloce, imbracciando le custodie di vari strumenti musicali, si recavano a lezione di musica. Risulterebbe noioso e ridondante elencare i percorsi (e nemmeno li ricordo tutti), riportati in qualsiasi guida turistica e rivissuti tanti anni dopo con Rosanna:Mala Strana e il Ponte Carlo, La Piazza della Città Vecchia, la Torre dell’Orologio, il Teatro Nazionale, la Cattedrale di S. Vito, e il Municipio di Praga, oltre all’impareggiabile Castello di Praga con la sua Viuzza d’oro.

Vi dirò, quindi, un po’ della mia Praga del ’78.

Uno dei miei desideri (forse perché da poco avevo finito di leggere Il Castello) fu quello di visitare la tomba di Franz Kafka, situata presso il Nový židovský Hřbitov (il Nuovo Cimitero Ebraico). In un luogo che certamente non trasmette allegria, mi venne d’immaginare che se per avventura quei feretri, quelle ossa con un sussulto si fossero anche per pochi istanti riappropriati dei propri corpi, non avrebbero potuto che gridare “Non dimenticate in quale abisso la natura umana può sprofondare”. O qualcosa di simile. E non erano solo le ombre di quelle poche centinaia di ebrei sopravvissuti alla furia dell’olocausto. C’erano anche le vittime della Resistenza alla dittatura comunista del ’68 e altri ancora: tutti quegli onesti, composti, spesso colti cittadini cechi, slovacchi, tedeschi, ebrei costretti in terra boema a lunghi anni di tirannia, nella condizione di paura e terrore che si hanno quando si è privati di libertà essenziali. Quest’immagine trasmessami dalla città di una “defenestrazione assoluta”, come l’ha appellata qualcuno, mi accorsi non poteva essere disgiunta da un’altra, simmetrica e opposta, che si ha osservando di sera Praga dalla sommità del Castello di Hradcany.

”Se guardi di lassù Praga, che accende ad una ad una le sue luci, ti senti come uno che volentieri si getterebbe a capofitto in un lago chimerico (V. Nezval)”. Ti accorgi, così, che  “il lutto cosmico, il lato misterico e l’ambiguità” di Praga non poteva avere una descrizione più appropriata e commossa di quella offerta da Ripellino nelle lunghe pagine del suo libro su Praga.

Incontrai la ragazza nel suo collegio femminile situato non lontano da una fermata della metro di Piazza della Pace. Le avevo portato come regalo un profumo italiano e l’ultimo L. P. dei Pooh, che ascoltammo insieme alle sue colleghe di stanza. Cenammo in uno dei ristoranti di Piazza San Venceslao.

Poi la riaccompagnai (era molto tardi) con la metro al collegio e mi avviai a piedi in una serata freddissima e umida verso la riva della Moldava, dov’era situata l’imbarcazione. In un silenzio abissale con la speranza, tutta giovanile, d’incontrare il Golem e i Vodnik (folletti) in una di quelle stradine, rese scivolose dalla neve caduta copiosa nei giorni precedenti e poco illuminate da lampioni, quasi ottocenteschi, raggiunsi, trafelato, la mia accogliente e calda sistemazione alberghiera. Il giorno successivo Jana venne a prendermi presto sul lungo fiume. La sera precedente avevamo concordato di concederci una gita fuori porta per recarci in autobus a Karlovi Vary, a due ore circa da Praga. Visitammo la cittadina e le Terme di Karlsbad, quasi vuote, per via della stagione. Prendemmo un gelato e ricordo ci fu qualche effusione tra di noi. Ci demmo appuntamento per un paio di giorni dopo (i cellulari erano ancora di là da venire) ad uno spettacolo, forse di mimi, che davano al famoso Teatro Laterna Magika, tuttora in funzione. Quando mi ero recato in mattinata a prenotare i due biglietti mi accadde, però, un episodio, che all’inizio, mi parve irrilevante nell’economia del viaggio, ma che, ripensandoci tempo dopo, credo non lo fu affatto. Mi si avvicinò all’uscita dal teatro un signore, minuto, sui quarant’anni che, rivolgendosi a me in francese, mi chiese con tono apparentemente “minimal” e distratto, di quale nazionalità ero, i motivi per i quali mi trovavo da solo lì in Cecoslovacchia nel mese di dicembre e il luogo dove alloggiavo (ricordo che era il 1978, dieci anni dalla brutale repressione di Praga e con l’Italia squassata dal terrorismo delle Brigate Rosse).

Insomma credo si trattasse di un poliziotto della famigerata StB della Cecoslovacchia Comunista (Státní bezpečnost). Il giorno successivo l’impiegato della ricezione dell’Alberghetto, mi comunicò, con mia sorpresa, che loro per Natale dovevano chiudere e che io avrei dovuto lasciare quella sistemazione, ma anche il Paese, in quanto non c’erano posti liberi in altri alberghi. Ebbi solo il tempo di andare nel collegio femminile, salutare Jana e cambiare il biglietto di aereo per un ritorno frettoloso e anticipato in Italia. Questo è quel che resta di un viaggio, il cui ricordo non è stato mai completamente sepolto e che, a volte, torna a galla come un rigurgito mai assorbito, come una falla mai sanata, riaffiorato grazie a quegli strani intrecci che talvolta la memoria sa offrirci.

Il vecchio Tupolev atterrò con qualche difficoltà a Fiumicino in una mattinata piovosa, illuminata dai fulmini di un temporale a ridosso di un lontano Natale. Girò per un bel po’ in alto sopra l’imbronciato cielo di Roma, con le segnalazioni luminose rosse vicino alle portiere dell’aereo che avvertivano “uscita di emergenza”, scritte in quella strana lingua. L’aereo con un’improvvisa virata, poi, finalmente si decise ad atterrare a Fiumicino sull’asfalto bagnato. Scendendo dalla scaletta, non mi sfuggì la gioia concitata con cui l’ambasciatore ceco a Roma accolse la giovane figlia seduta (per caso?) appena accanto a me durante il breve tragitto. L’esperienza di quel viaggio fu toccante: Praga si confermò ai miei occhi di una bellezza abbagliante e misteriosa. Ma di colpo mi assalì, improvviso, un insolito senso di liberazione, come di chi avesse compreso qualcosa in più della fortuna di vivere nel suo Paese. Anche in quello, allora, squassato da tensioni e drammi e quasi sull’orlo di una guerra civile.




Antonio Polichetti: viaggio nel tempo, quarta dimensione

Era un tardo pomeriggio d’Autunno e osservavo il cielo perché era davvero particolare in quel momento. Andavo un po’ di fretta per la verità, ma decisi di provare a scattare una foto perché una scena così non mi era ancora capitato di vederla. Tra le nuvole, si vedevano due occhi grandi e molto accigliati. Sembravano proprio gli occhi di Dio, per nulla contento della sua creazione, un pasticcio riuscito male questa volta: troppe ingiustizie, troppe guerre, troppa crudeltà e noncuranza verso la vita, con questi umani che sembrano rifuggire dalla ricerca di un senso più profondo nello stare su questa terra. È impossibile capire l’effetto che farebbe osservare il tutto da lassù, in un colpo solo. La natura stessa sembra tutta in collera, a momenti, quando il vento infuria e poi scoppia in un pianto a dirotto di pioggia e grandine, per rendere il dolore più freddo. Un cielo grigio può essere tremendo. Amore e nostalgie lontane si aggrovigliano tra castelli di nuvole. Poi, però, mentre guardo un fiore giallo, arriva un raggio di sole, che come un bel sorriso, scaccia l’ombra. 

Sono suggestioni, anche abbastanza comuni. Perché, se sei triste dentro, puoi esserlo anche su una spiaggia assolata davanti al mare azzurro. Il problema, per me, non è viaggiare – lo faccio pure, appena posso -, ma cercare di capire quanta energia ho per viaggiare dentro, quanto riesco a guardare con occhi diversi il posto che vedo ogni giorno – per ogni passo un ricordo, un incontro – e cercare di capire come affrontare la difficoltà dei cambiamenti, dentro e fuori di me. 
Mi capita spesso di pensare a Dio, da un po’ di tempo a questa parte. Troppe domande, nessuna risposta. Ciò che è bello, giusto, vero, cos’è e dov’è? E sarà poi questo? Cercare tracce di Dio – la fede o il sogno di migliorare come persona, di lasciare possibilità sempre aperte – questo è il viaggio che cerco di fare, l’esplorazione più difficile che abbia provato ad intraprendere. 
Parlo di viaggi che non posso fare fisicamente, dunque. I viaggi immaginativi sono quelli che amo e che , spesso, mi portano in una quarta dimensione, quella del tempo. 
Sono viaggi dove, ad un certo punto, mi sono ritrovato a colazione – molto tardi – con un sonnacchioso Baudelaire in un caffè parigino. Un’altra volta, invece, ero da qualche parte in Louisiana a fare l’autostop insieme a Jim Morrison: Los Angeles era ancora lontanissima, l’attesa lunga, ma, con la lettura di una poesia dopo l’altra, eravamo già in viaggio verso altre mete. Volevo domandargli da dove fosse riuscito a tirare fuori Light my fire, ma poi ho capito che Light my fire era proprio lì, davanti a me. Light my fire era lui. 
Un giorno – sembra ieri – ero alla Cheetham Library di Manchester e cercavo frettolosamente un panno fresco o una bevanda, una qualsiasi cosa che potesse dare sollievo. Dovevo aiutare Engels. Era appena tornato da uno dei suoi sopralluoghi. Aveva come gli occhi in fiamme per ciò che aveva visto, ma – la testa dura come la roccia – voleva mettersi immediatamente a lavoro per denunciare l’inumano sfruttamento della classe operaia in Inghilterra. E in uno di questi viaggi in quarta dimensione, mi è capitato persino di trovarmi nella stanza di lavoro di Mussolini, 1939. Sorrideva, come si fa con i bambini, nel leggere la lettera che Francesco Saverio Nitti gli aveva mandato da Parigi, dal suo esilio antifascista. Gli stava spiegando, come un vero statista sa fare, che l’ingresso dell’Italia in guerra sarebbe stato un errore tragico, una sciagura da evitare in ogni caso. Non so come, riuscii a trovare il coraggio di battere un pugno sul tavolo e di dirgli che, se non si fosse separato da Hitler, sarebbe stata la Storia a farsi beffe di lui e di tutti i suoi ripugnanti servi propagandisti, pronti a gridare alla guerra senza mai doverci andare davvero. Gli dissi che, ancora una volta, i padri avrebbero seppellito i propri figli, che sarebbe stata la rovina per tutti noi e per le generazioni a venire. Non so come andò a finire. Devo essermi risvegliato altrove. Ma fu un viaggio inutile, come altri che non vale la pena richiamare. 
Poi ricordo anche di quando rincorrevo Ernesto “Che” Guevara e Alberto Granado, la neve di Val Paraiso tutta addosso. Non avevo la vecchia Poderosa come loro. Erano troppo avanti in ogni caso, ma le loro tracce sono sempre così vive, per quanto tanti cerchino di cancellarle. Da lì, mi è venuto in mente Troisi e il suo Postino e, sempre in Cile, iniziai a cercare Pablo Neruda. Anche io volevo parlare con lui di amore, di poesia e degli occhi della più bella. Per lei ho perso la testa, tempo fa. In un altro viaggio, ho lasciato tutto di colpo e sono corso da lei per dirglielo ancora una volta, per trovare il modo di farglielo capire, veramente. E ancora una volta, mi mancava quasi la voce e il cuore batteva forte. 
In questo cuore si muovono tante cose, nella quarta dimensione del tempo, dove tutto si fonde e niente resta fermo. In questo viaggio non ci sono mete da raggiungere, niente è stabilito una volta per tutte e ogni volta ho la possibilità di ricercare il senso possibile di tante cose nello stesso percorso mutevole. E sono con me tutti i maestri che ho incontrato, tutti coloro che, da quando ero un bambino fino ad oggi, mi hanno insegnato qualcosa, che mi hanno fatto crescere. Loro sono qui con me e lo saranno sempre. 

Questo è il mio viaggio, o meglio, il mio sogno di viaggio e desiderio inesprimibile

“Il desiderio inesprimibile
che mai vita né terra esaudirono, 
ora tu, viaggiatore, 
salpa e va’ a cercarlo,
va’ a trovarlo” .

(Walt Whitman) 




Fabio Senatore: la vita è un viaggio

Ci sono sicuramente molti modi di viaggiare: prendere un treno, un aereo, partire in macchina, e io, inoltre, amo molto entrare in un buon cinema ed aspettare che le luci si spengano.
Un film che mi ha fatto volare la mente è “Into the Wild – Nelle terre selvagge” del grande Sean Penn, magnifico attore e – in questo lavoro – grande regista.

La storia vera del neo-laureato Christopher McCandless che nel 1992, a 22 anni, stanco del consumismo e del benessere fittizio, decide di abbandonare la famiglia e le promettenti prospettive di studio e professione, dà in beneficenza tutti i suoi averi e affronta un viaggio senza nessun sostegno né economico né umano, che lo porterà nei luoghi più selvaggi degli Stati Uniti fino a immergersi nell’immensa natura dell’Alaska, che segnerà per sempre la sua esistenza. (Quattro mesi dopo verrà trovato morto accanto al suo diario, grazie al quale verrà ricostruita la sua storia).

Il capolavoro di Sean Penn riesce ad emozionare il cuore e ad aprire la mente dello spettatore. Non esiste la minima banalità in un racconto di due ore e mezzo, che ti trasporta in un viaggio stupendo per gli Stati Uniti d’America fino ad arrivare alla terra selvaggia dell’Alaska.
Un personaggio con una purezza d’altri tempi, che ti lascia in corpo una grande voglia di libertà. Tutto molto bello, ad iniziare da una regia e da una fotografia che mi hanno lasciato a bocca aperta, uniti ad una colonna sonora veramente stupenda.
La ricerca del protagonista è estrema, senza mediazioni, propria di un giovane idealista di 22 anni: vuole vivere il rapporto con la bellezza e con la natura in modo diretto, completamente solo, con il suo personale sguardo e tramite la sua ricerca di assoluto. Per questa ragione si ribella alla “american way of life”, distrugge le proprie carte di credito, cancella le tracce del suo passato, si mette in viaggio senza denaro, rinnega i rapporti convenzionale e ipocriti.

La maestà dell’Alaska, le foreste sconfinate, i corsi d’acqua che, durante il disgelo, diventano prorompenti e scendono rapidi verso valle trascinando la loro portata gigantesca, il relitto di un autobus che offre un riparo provvisorio, tutto ciò fa da cornice a un viaggio inteso come ricerca interiore ed estremo approdo.Coinvolgente e trascinante, questo film prende e porta con sé lo spettatore, il regista ha saputo modulare le immagini e i numerosi primi piani sul bravissimo protagonista coinvolgendo lo spettatore fino in fondo, arrivando così al termine della stupenda storia, che poi lascia un fondo di amarezza in chi assiste a questa evoluzione del protagonista.
Un viaggio senza ritorno che dà spazio a molte cose su cui riflettere. Immenso.

Ecco una scena del film

La storia di Christopher McCandless è anche un libro scritto da Jon Krakauer che si imbattè quasi per caso in questa vicenda, rimanendone quasi ossessionato, e scrisse un lungo articolo sulla rivista “Outside” che suscitò enorme interesse. In seguito, con l’aiuto della famiglia di Chris, si dedicò alla ricostruzione del lungo viaggio del ragazzo: due anni attraverso l’America all’inseguimento di un sogno. Questo libro, in cui Krakauer cerca di capire cosa può aver spinto Chris a ricercare uno stato di purezza assoluta a contatto con una natura incontaminata, è il risultato di tre anni di ricerche.

Se volete dare un’occhiata prima di acquistarlo potete leggerlo qui

https://nuvola.porticando.eu/s/eNcXxDQGRd3sfNa




Viaggi librari:”La musica è leggera” di Luigi Manconi

A molti amici più o meno miei coetanei ho già consigliato questo libro per me da gustare per intero;  ma anche chi non è interessato ad alcuni capitoli e però ha vissuto da ventenne o trentenne gli anni 60, gli anni 70 e perché no gli anni 80, potrà ritrovare nella pagine di Manconi le emozioni giovanili, riascoltare anche senza sentirle le canzoni di quelli anni e leggere del ruolo che anno avuto Paoli, Modugno, Iannacci, Gaber, Dalla, De Gregori, Venditti, Califano, Battisti, Celentano, De André, Battiato, Bennato, Guccini, Conte e tanti altri nella storia della musica pop e non solo.
Ma oltre ad acute e leggère considerazioni e piacevoli intuizioni sulla musica italiana nell’ultimo cinquantennio  e  ricordi di incontri con cantanti e musicisti , in “La musica è leggera” è facile trovare altro.

Non voglio farla lunga e perciò mi limito a riportare il  passo che conclude la pagina dedicata a Titanic di De Gregori che anche io, come l’autore del libro considero la sua  opera migliore, più emozionante e più persistente nei meandri della mia memoria.

Generalmente sono di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Parlano lingue incomprensibili, forse antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti». E ancora: «Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra loro.

Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali Rapporto dell’Ispettorato americano per l’immigrazione del 1912 riferito agli Italiani.

Titanic



Alfonsina De Filippis: Profumo di magnolia…profumo d’infanzia

L’emozione mi toglie il fiato. Ho viaggiato per ore per arrivare sin qui ed ora mi sento stordita ed emozionata come un’adolescente al suo primo incontro d’amore. …. 
Il mio è davvero un appuntamento…. con i ricordi.
Sono davanti al cancello di un piccolo villino in cui ho trascorso le mie estati più serene. Ogni anno mia madre ci accompagnava qui e lasciava che fossero i suoi genitori a prendersi cura di me e di mio fratello. Era in questo posto dove regnava la serenità che potevamo godere della compagnia di nostra sorella che, per il resto dell’anno, viveva in città con i nonni. In pratica la nostra famiglia non era mai al completo, o mancava mia sorella o mancavano i nostri genitori. Io, inizialmente soffrivo per il distacco da mia madre e mio padre ma, col passare dei giorni, questa casa, le regole ferree di mia nonna, la compagnia dei miei fratelli e di mia cugina, il mare, la complicità di mio nonno, tutto diventava indispensabile e aveva il profumo dell’amore e dell’affetto.
Vivevo quei tre mesi di vacanza in perenne ammirazione di mia sorella (più grande di me di nove anni) ed ero affascinata da qualsiasi cosa dicesse o facesse; ero felice di passare più tempo con mio fratello (di cinque anni più grande) e, pur di stare con lui, avevo imparato a giocare a calcio, rugby, e tiravo con vero talento le biglie di vetro colorato. Mio nonno ci insegnava a colpire grossi barattoli di latta col suo fucile e, spesso correvamo allo stagno a caccia di rane e rospi. In quei giorni, e solo in quelli, io mi scoprivo veramente capace di provare vera gioia.
Io ero la più gracile e ogni inizio estate i miei nonni mi portavano da un anziano pediatra affinché mi prescrivesse le solite dolorosissime iniezioni di vitamina E.
Credo si chiamasse Bellelli ma ricordo con precisione la sua abitazione. Viveva in una piccola casa con un giardino pieno di bouganville di un rosso infuocato e davanti al cancello, a pochissimi metri, vi passavano le rotaie del treno tant’è che, spesso, eravamo costretti ad aspettare che il passaggio a livello si alzasse per varcare il cancello.
La visita era sempre scrupolosa e i miei nonni uscivano sempre dallo studio medico con aria affranta ma ben decisi a “rinforzarmi” nel corpo e nello spirito. In questo erano veri maestri, non credo che fossero le iniezioni a farmi davvero bene, più probabilmente era il concentrato di cure, di attenzioni e di amore di cui sapevano farmi dono.

Ora sono qui, ad un passo dal cancello di quella che una volta è stata anche casa mia….
Cerco con lo sguardo la piccola campana di bronzo che gli amici e gli ospiti agitavano per segnalare il loro arrivo….non c’è più. Non vedo neanche la targa di metallo su cui mio nonno aveva fatto incidere, con un carattere un po’ lezioso ma gradevole “Villino Nice”, il nome di mia nonna. Lascio che il mio sguardo penetri la barriera di edera che si è inerpicata lungo il recinto di ferro, la magnolia con le sue grandi foglie, è sempre lì, al centro del giardino e ormai ricopre quasi del tutto quella che una volta era l’enorme finestra del salone. Passavo ore, nei lunghi pomeriggi d’agosto, al fresco della sua ombra. A volte, mi sdraiavo sul prato così da avere per tetto i suoi lunghi rami ricchi di grandi foglie lucide, di un verde intenso e mi incantavo a guardarne i fiori bianchi e profumatissimi.
Le palme hanno raggiunto il tetto e grandi ciuffi di datteri dorati pendono da più parti dando un vago senso di esotico a questo mio amato giardino che nessuno sembra ormai più curare. Le aiuole non ci sono più e le piante più svariate convivono in promiscuità dandomi subito l’amara sensazione di abbandono ed incuria.
Ricordo e rivedo noi bambini sudati ed eccitati, chini sul prato a strappar erbacce. Sento, vicina e chiara, la voce di mia nonna che ci incita a far presto e bene.
Il viale d’ingresso, su cui ogni estate veniva montato un elegante gazebo di ferro lavorato, alcune sedie di eguale fattura rallegrate da grandi cuscini fiorati ed il tavolo col piano di cristallo ora è occupato da una vecchia automobile.
Alzo lentamente lo sguardo e ho un tuffo al cuore, il terrazzino davanti alla porta d’ingresso è rimasto quello d’un tempo e mi par quasi di rivedere i miei nonni, seduti sulle loro sedie di vimini, che sorridono così come erano soliti fare quando ci guardavano giocare.
Non resisto più, ho bisogno di entrare. Spingo il cancello pur essendo certa che sia chiuso. E’ bastata una leggera spinta ….è aperto. Il cigolio mi fa sobbalzare. Per un breve istante ho pensato di andar via, è stato solo un attimo di esitazione. Entro e richiudo il cancello dietro di me. Per incanto avverto la sensazione che la ringhiera sia diventata il limite del mondo, al di là di questo recinto un po’ malridotto c’è il vuoto.
Probabilmente al di là del cancello c’è il normale via vai di automobili, di donne che tornano dal mercato, di bambini che si rincorrono allegri ma io non sento più nulla, qui c’è solo silenzio e pace. Il mondo intero è racchiuso in questo giardino. Le persiane, tutte giù, rendono questa casa un po’ triste. E’ come se volesse tenere gli occhi chiusi per non vedere lo sfacelo di questo giardino. Una volta dalle finestre veniva fuori il vociare di noi bambini, il parlottare animato degli adulti e, all’imbrunire, questi grandi occhi dagl’infissi di legno bruciato dal sole e dalla salsedine, si illuminavano e splendevano attraversati dalla luce calda e allegra delle lampade. Questa casa che ha fatto da spettatrice a tante vicende e che ci ha visto prima bambini, poi adolescenti e infine adulti ora è cieca e sola. Mi avvio lentamente per il piccolo vialetto che costeggia il lato est della casa e mi ritrovo a sorridere al ricordo di quando, bambina, lo attraversavo di corsa per paura dei gechi e degli insetti che si rintanavano tra i mattoncini rossi. Istintivamente avverto lo stesso disagio ed affretto il passo fino a raggiungere il punto in cui il lungo viale diventa più ampio. Davanti a me si apre una scena di una bellezza indescrivibile. Il mio cuore ed i miei occhi si riempiono di una gioia completa, immensa, profonda. Il pergolato è un’esplosione di colori e di profumi, i grappoli di glicine si intrecciano a lunghi rami di rose selvatiche bianche e rosa tra cui fanno capolino piccoli mazzolini di gelsomino. Sono letteralmente assalita da un’ondata di profumo tanto penetrante e piacevole da sentirmene stordita e inebriata. Guardo a terra e mi accorgo che c’è uno stupendo tappeto di petali e di foglie dalle mille tonalità e sfumature di verde.
Una leggera brezza suona la sua musica fra i rami e smuove le foglie facendo piovere altre leggere gocce di seta.
Alzo lo sguardo e vedo un cielo fiorito. Il sole riesce, di tanto in tanto, ad aprirsi un varco tra il fogliame e proietta sul suolo macchie di luce che sembrano danzare al ritmo di una malinconica e sapiente melodia che mai animo umano potrebbe comporre. Mi sento estasiata e leggera, mi pare che anche la mia anima stia danzando e cantando il suo inno alla vita ed al creato.
Tra alti cespugli, dove prima fiorivano le “belle di notte” è ancora visibile il campo di bocce e l’enorme rullo di cemento che spingevamo con fatica affinché con il suo peso livellasse la terra rossa su cui lanciavamo, in modo non proprio regolare, le bocce di legno colorato. Mi pare di sentire la voce di Giovanna, la più piccola di noi quattro, che piagnucola perché vuole il pallino. Ho davanti agli occhi mio padre, in pantaloncini, che prende la mira fingendo concentrazione e impegno. 

Dall’altro lato del viale c’è un’ampia distesa di terra, ora incolta, che allora era il nostro orto. Con grande fatica di tutti gli adulti della famiglia e in parte anche di noi ragazzini, riuscivamo a coltivare di tutto e grossi cespugli di erbe aromatiche riempivano l’aria di profumi penetranti.
In fondo al viale s’intravede il garage che utilizzavamo come cucina. E’ una piccola casetta in miniatura con una finestra di minime dimensioni che fungeva da passavivande. Sotto il pergolato di vite canadese, che ora mi pare un angolo di paradiso, consumavamo le leccornie che mia nonna, eccellente cuoca, preparava per tutti noi.
C’è ancora la panca di marmo causa di liti furibonde e di vere e proprie battaglie. C’era sempre uno stesso vincitore: mio fratello Pierfederico. Unico maschio del gruppo dei piccoli, sapeva essere convincente. Utilizzava varie strategie: partiva col promettere regali e favori, passava poi ai ricatti ed alle minacce, cui io non cedevo mai…. Mia cugina Giovanna era fuori dalla competizione perché troppo piccola, mia sorella Antonella, la più grande, si rassegnava facilmente.Io ero l’unica che resisteva ad oltranza e mi lanciavo in veri e propri corpo a corpo e ne uscivamo, entrambi, pieni di lividi e di rancore.
Ora la panca è tutta mia. Mi ci siedo, gonfia di soddisfazione. Chiudo gli occhi e non mi sembra possibile che nessuno venga a recriminare o ad intimarmi di alzarmi.
“Dindi! Dindi! Alzati, vieni ad abbracciarmi”. Apro gli occhi, nel viale, tra i fiori, c’è il nonno. Farfuglio e balbetto: ”Non chiamarmi così, non vedi, ho più di quarant’anni! Ne è passato di tempo da quando usavi chiamarmi con questo nomignolo strano e tenero.” Si avvicina con passo lento e leggero, si toglie il cappello e sorride divertito. Indossa pantaloni di lino beige con le pences e una camicia candida.
Apre la porta del garage, io lo seguo in silenzio. Apre la saracinesca che dà sulla strada secondaria e l’ambiente è inondato di luce. Si avvicina al tavolo, apre il cassetto in cui ha sempre custodito i suoi attrezzi e ne tira fuori un martello ed un oliatore. “Devo sistemare il cancello. Hai sentito come cigola?”.
Le sue parole vengono fuori come se ondeggiassero, l’accento toscano le rende morbide e lievi. Vorrei abbracciarlo ma lo fisso incantata come facevo da bambina. Durante le splendide serate estive, accompagnati dai grilli e dallo svolazzare di mille lucciole, passavamo ore a guardare il cielo stellato, lui mi sussurrava il nome di tutte le stelle, Venere, il Gran Carro, l’Orsa maggiore…….Io lo ascoltavo estasiata e credevo fosse il padrone dell’infinito. Non mi stancavo mai di ascoltarlo e vivevo intere sere stando col naso in su. Mio nonno Gastone mi ha insegnato ad amare il cielo stellato e a sentirne il profumo. Ora mi pare che lui stesso sia stato per me grande e magnifico come un cielo trapunto di stelle.
Si avvia per il viale armato di tutto punto per iniziare la sua battaglia contro la ruggine. Mi fermo a guardarlo mentre si allontana lungo il viale, non lo seguo.Mi piace guardarlo mentre lo attraversa col suo passo lento e morbido.
Si volta a guardarmi, mi sorride e mi fa cenno con la mano come per salutarmi……
Sento che qualcuno mi scuote con forza: ”Signora, sta male?”. Apro gli occhi e vedo chino su di me un omone grande e grosso. Metto a fuoco con fatica il suo viso troppo vicino al mio. Mi alzo di scatto. Deve essere il guardiano o il proprietario. Lo guardo confusa e con un po’ di timore. Cerco di assumere un tono dignitoso e convincente.
Balbetto qualcosa di incomprensibile anche a me stessa. Mi guardo intorno, siamo soli ed entrambi in evidente imbarazzo. Lo guardo e cerco di inventarmi qualcosa da dire, vorrei giustificare la mia presenza. La voce mi viene fuori di getto:
“Mi perdoni l’intrusione ma, sa, in questo villino ho trascorso almeno una ventina di estati. Volevo tuffarmi nel passato. Tra questi fiori aleggiano i momenti più belli della mia vita, qui avevo lasciato ricordi, sogni e speranze di cui ora ho veramente bisogno. Io sto cercando me stessa e il coraggio di continuare a vivere. Non dica nulla, la prego. Questa, ora è casa sua ma per molto più tempo è stata mia, ha rallegrato i miei giochi di bambina, mi ha fatto sognare, è stata la mia isola-che-non-c’è. Mi perdoni ma dovevo recuperare un pezzo del mio cuore e della mia vita.
Mi prende un’incontenibile voglia di scappare via, corro, attraverso il viale, al mio passaggio mille petali volteggiano contenti.
Raggiungo il cancello, lo apro, non cigola più.
Corro alla macchina, non vedo quasi più nulla…i miei occhi sono pieni di lacrime, il cuore trabocca gioia e malinconia insieme. Ho un altro profumo che mi è entrato nell’anima. E’ un aroma che non avevo mai sentito prima: il profumo dell’infanzia.

Stringo al cuore il mio pezzetto di vita e mi volto a guardare, forse per l’ultima volta, la casa della gioia.
Sono tutti al cancello: nonna Nice più bella che mai; nonno Gastone col naso all’in su in attesa che spunti la prima stella della sera; mio padre già con la pompa in mano pronto ad annaffiare l’orto, mia madre in pantaloncini, mia sorella Antonella, adolescente, col suo sorriso tenero e caldo, mio fratello Pierfederico ragazzino sbarbatello, con gli occhi pieni di sogni e di speranze, mia cugina Giovanna, che stringe il suo orsetto di peluche, i miei zii Antonietta e Gaetano, allora giovani…….
Un desiderio irrefrenabile mi spinge ad avvicinarmi, li guardo e sussurro: “Vi voglio bene…”
E’ solo un attimo…..tutto svanisce.
La loro immagine ormai è sfuocata, si è persa tra le lacrime che si sono affollate nei miei occhi o, forse, la realtà li ha riportati tutti in quel mio passato ormai lontano.
Sto piangendo. Le lacrime non sono sempre stille di dolore, queste che mi scivolano sul viso sono il nettare dolce della mia anima felice. 




Elvira Coppola Amabile: proposta di viaggio




Fabrizio Obso Di Baldo

Mi è sempre piaciuto viaggiare, quando ero bambino mi piaceva quell’emozione che provavo nei giorni antecedenti la partenza. Si cominciava con lo scegliere i vestiti che sarebbero stati i più adatti al luogo di destinazione. Se si andava al mare allora era facile, ma la montagna creava un clima di estrema tensione, poteva servire tutto, dal costume da bagno al maglione invernale anche se si era in pieno agosto. Mio padre non voleva o sapeva rinunciare al vestito elegante e mia madre, donna ansiosa e sempre preoccupata per il mio stato di salute, valutava i vestiti che mi avrebbero salvato da non so da quale malattia, per non sbagliare la maglia di lana a maniche lunghe era indispensabile. Con il passare degli anni, soffrendo io terribilmente il caldo, ho capito che era proprio maglia di lana la causa di tutti i miei raffreddori, una volta tolta non li ho avuti più. I tempi della mia infanzia ed adolescenza erano tempi strani perché si ubbidiva ciecamente ai genitori e il guardaroba lo sceglievano gli adulti, quando lo racconto ai miei figli loro sembrano increduli. Poi arrivava l’eccitazione per l’imminente partenza per il lungo viaggio che ci aspettava, le macchine venivano riempite di oggetti e per l’occasione si montava il portabagagli perché le valige sarebbero state caricate lì sopra, il concetto di aerodinamicità era, in quella lontana epoca, del tutto sconosciuto.

Quando tutto era pronto, preferivamo partire di notte per via del caldo, si cenava in religioso silenzio, la tensione era a mille. Ricordo in particolare una partenza, la destinazione erano le “Dolomiti”, la distanza che separa Albano Laziale da Pozza di Fassa era di circa 750 km, con l’850 special il viaggio sarebbe durato ,ora più ora meno, dodici ore. Vivevo quel viaggio come se fossi uno di quegli astronauti che pochi mesi prima era sbarcato sulla luna, era il 1969, io avevo 7 anni e di lì a poco avrei visto le Dolomiti. La vacanza fu bella, i luoghi fantastici, ma le emozioni che provai prima di quella epica avventura non le dimenticherò mai. Se devo associare la parola viaggio ad un ricordo questo è quello che sceglierei. Ora vivo in Finlandia, sono a 3500 km da dove sono nato, con l’aeroplano sono a casa in 6 ore, ma la poesia si è persa.




Un viaggio con il sottomarino del “Comandante”

“Perché siamo italiani!” la frase finale di Favino nel film Comandante ha suscitato le stroncature di tanti giornalisti, critici ed  intellettuali soprattutto, purtroppo, sul giornale Il Manifesto e anche in parte sul Fatto Quotidiano.
Come se fosse il pensiero del regista De Angelis e non il modo per il protagonista di rifiutare il ruolo di eroe, di non sentirsi l’unico Sisifo costretto a portare  faticosamente su e giù il suo amor patrio senza riuscire a liberarlo dal pesante fardello  della retorica fascista e della guerra  che gli impedisce oltretutto di abbandonarsi alla sensualità e alla serenità della vita familiare.
Guardando il film sono ancor diventate più vivide nella mia mente le immagini dei fatiscenti barconi degli emigranti in balia delle onde del mediterraneo e (ce n’è sempre bisogno) la consapevolezza della spietatezza di ogni guerra in cui l’umanità per sopravvivere deve vestirsi da palombaro.

Ma forse anche il Carlo Panzella degli anni 70 avrebbe parlato male di questo film.

Marx Mandel Maitan

Marx, Mandel e Maitan mi avevano dato gli strumenti per capire e cercare di combattere le nefandezze del capitale e la lucidità delle loro analisi ancora oggi sono una piccola torcia per orientarmi nel buio sempre più cupo di questo mondo. Ma  il rischio era sempre di guardare un film a colori sul televisore in bianco e nero e giudicare un nuovo film, un nuovo libro, i comportamenti e le idee delle persone con uno schema estremamente bipolare: o di qua o di là. Per nostra fortuna la responsabilità verso gli operai e gli studenti cavesi e la nostra vita associativa giovenile ci impedivano di diventare estremisti censori, ciò nonostante, per esempio, coprimmo di foglie gialle l’affetto verso persone per esempio come Bruno, buono e generoso, sol perché era di destra. Con il tempo mi sono convinto che la palla al piede della sinistra europea è stata la sua impronta leninista: la miope ed ideologica scelta di Lenin di mettere alla guida della rivoluzione russa il partito bolscevico e non i soviet.

Salvatore Todaro

Ecco, stroncare un film come “Comandante” ed esaltare in maniera spropositata innocui film pur godibilissimi ma dei quali non vale la pena di parlare con nessuno, mi sembra l’avvelenato frutto della malattia del togliattismo-stalinismo  di cui da sempre è purtroppo è vittima buona parte della sinistra italiana (non parlo ovviamente del PD che considero un confuso  partito di centro più o meno simile alla fu sinistra democristiana), la maggior parte di quella che scrive sui giornali, quella dei partitini pulviscolo, quella che gironzola per le stanze delle televisioni; il fascismo si combatte sì con l’intransigenza e con la lotta politica ma non con la sottovalutazione delle emozioni, dei sentimenti popolari e delle contraddizioni del vivere quotidiano.
Naturalmente becera mi sembra la lettura dei giornalisti di destra ai quali la parola Italiani provoca orgasmo chiunque la pronunci. Ma su loro non voglio infierire più di tanto, voglio solo aggiungere che mi fanno ricordare il mio amico S. che raccontava che quando era ragazzino bastava che leggesse una frase tipo “Ella entrò nella stanza” per eccitarsi , e penso perciò che Meloni dovrebbe sentirsi responsabile delle loro masturbazioni mentali.

P.S. Spero che a tanti critici un po’ spocchiosi sia perlomeno piaciuta la lunga  e strabiliante citazione dei piatti della cucina italiana sui titoli di coda.