Sogno americano

di Giancarlo Durante

Ma non scherziamo. Negli Stati Uniti bisogna andarci. E, per chi ne ha la possibilità, consiglio di andarci spesso. Escludere gli USA dagli itinerari turistici solo per partito preso, per una visione grossolanamente ideologica, perché gli States sono marchiati come regno del male, fa parte di un anti americanismo ormai fuori moda e fuori luogo, tribale, un falso apoftegma per gli amanti del greco antico, perché confonde le enormi responsabilità che gli USA hanno avute nelle politiche d’imperialismo a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale con le infinite sfaccettature di un mondo che contiene tutto e il suo contrario e la cui complessa storia sarebbe un delitto ignorare. Deponete, perciò, cari amici, l’abito del turista europeo(peggio italiano, peggio ancora di sinistra)spocchioso e con la puzza al naso. Allenate la vista l’olfatto l’udito e anche il gusto agli eccessi, lasciandovi trasportare dalla voracità del conoscere, dalla bulimia di nuove esperienze sensoriali e soprattutto abituatevi a standard abnormemente amplificati:createvi un nuovo concetto di dimensione. Perché in USA la quantità, per incanto, si trasforma in qualità. Dalle piazze ai giardini, dai grattacieli all’intensità delle luci, dai suoni alle pinte di birra, dalle prime colazioni dei cuochi obesi dei college alle adunate delle più pittoresche sette religiose, tutto in America è esagerato, dilatato. Bello perché profondamente diverso dalla nostra tranquilla ipocrita realtà strapaesana. Se non c’è questa precisa disposizione di animo, se non si materializza questa speciale“apertura”mentale, lasciate stare: gli States non sono fatti per voi! New York, poi, è una città stupenda. E per chi ama il cinema, come si fa a non associarla all’immagine che viene fuori dai films di Woody Allen, contaminati dalle atmosfere patinate e dai riti e vizi della medio-alta borghesia newyorkese, che ignora l’infimo dei sobborghi violenti e delle sterminate e dimenticate periferie della città? New York rimane, comunque, impareggiabile:un luogo dove ti può capitare di essere proiettato in un futuro astratto, apparentemente anonimo, ipertrofico e ipertecnologico, come il World Trade Center, con l’ascensore che in 1 minuto ti proietta al 100° piano o a sperimentare l’inno apotropaico della scultura del Bowling Green Bull a Wall Street. Una città dove puoi aspettarti di essere “sequestrato” dalla simpatica proprietaria di un bar (strano i chioschi a New York non possono servire alcolici! ), alla quale non sembra vero di poter raccontare di essersi recata due volte in Italia a degli italiani:giusto per farti illudere un attimo di essere una persona importante.

E insieme restare basito di fronte alla scena del gruppetto di ragazzine sorvegliate da un anziano “signore” mentre escono da un Mac Donald’s per fuggire di corsa chissà dove nell’indifferenza della moltitudine della Quinta Strada. Come restare impassibili , poi, ai canti e balli lungo la spiaggia di Long Beach o al frastuono del Luna Park di Coney Island o quando vai a cercare ciò che resta dei fasti di quella che, una volta, era la Little Italy, ingoiata dagli impenetrabili quartieri di China-Town?E se per avventura ti dovesse capitare di visitare qualcuno degli stupendi Colleges Universitari del New England, non sarebbe difficile calpestare immensi spazi verdi, boschi abitati dagli animaletti più strani che pensavi comparissero solo nelle storie di Walt Disney. In quale altro luogo al mondo puoi, poi, scoprire lo stesso orgoglio e lo stesso patriottismo che mostrano gli americani nella cerimonia dell’alzabandiera, se non recandoti a Philadelphia, al Memorial Day? Come pure qualcosa in più potrai capire della recente storia americana se ti avventuri sul lungomare di Baltimora, luogo citato, persino, nei fumetti del Grande Blek. E quando ti rechi a Boston, sai che ti trovi in uno dei maggiori templi della cultura, della storia e del progresso non solo americano, sede dell’ Harvard University e del Massachusetts Institute of Technology. E nessuna emozione ti assale nell’aggirarti a pochi passi dalla Casa Bianca o, autorizzato, quando ti permettono di visitare un’ala del Campidoglio? E non dirmi che non ti solletica un po’ entrare in una capsula spaziale al National Air and Space Museum di Washington? Con qualche giorno in più di permanenza potresti, poi, solcare in canoa gli incontaminati corsi d’acqua e i laghi dell’Oregon, lo Stato americano che offre uno dei sistemi sanitari più avanzati al mondo. E andare a vedere le famose Cascate, e gli Stati del Middle-West e quelli del Sud, i deserti dell’Arizona e il New Mexico, la Florida, la California, la musica di New Orleans, la Silicon Valley e Disneyland, e così via. La Repubblica Federale degli Stati Uniti d’America conta 50 Stati, pochi localizzati fuori dal territorio americano, gli altri distribuiti su di una superficie che è più di trenta volte quella dell’Italia. All’interno di ciascuno di questi stati trovi una ricca, caleidoscopica società pulsante, lontana, però, dagli stilemi e dai ritmi di vita di noi, abitanti del Vecchio Continente. Non è una novità, quindi, se scopri che in America c’è troppo da conoscere e troppo da vedere e appare naturale mostrare un iniziale moto di rigetto. Iniziale, però. Perché se ti riprendi, in America poi ci torni. Così alla fine ti accorgi che le cose sono tante, troppe, da poter essere contenute e banalizzate in una paginetta del blog di Carlo. Sterminati i territori e le metropoli e sterminata la letteratura americana. Così, col rischio di avvicinarmi pericolosamente al senso del ridicolo oso proporvi due testi che mi vengono in mente (il tempo sta diventando sempre più risicato e da leggere c’è ancora tanto e pure i luoghi da visitare al mondo sono ancora troppi e diversi sono gli spezzoni di vita vera ancora da vivere). Il primo un po’ fuori dagli schemi abituali é formato da storie di ordinaria normalità, un autentico gioiello di lettura “leggera”che esce fuori da un libro edito nel lontano 1964 e acquistato per 350 lire come Oscar Mondadori, che si chiama ”Che ve ne sembra dell’America?” e l’autore non è di quelli stra-conosciuti:William Saroyan. Il secondo è dell’arci-noto David Foster Wallace. E mi sembra illuminante riportarvi qualche passo significativo, tratto da uno dei suoi pamphlets più noti“Considera l’Aragosta”.

Il Festival dell’Aragosta del Maine, immenso , pungente ed estremamente ben pubblicizzato, si tiene ogni anno a fine luglio. . . L’affluenza totale quest’anno ha superato le centomila persone, . . Food & Wine proclamava il F. A. M. forse la migliore festa a tema gastronomico del mondo. Ricordo che l’industria alimentare statunitense produce circa quaranta milioni di chili di aragosta e il Maine è responsabile per più della metà del totale. Punti salienti di questa edizione sono: concerti di Lee Ann Womack e degli Orleans, concorso di bellezza, annuale Dea Marina del Maine, grande Parata del Sabato, corsa sulle casse in memoria di William Atwood, di domenica:gara di cucina amatoriale , giostre e attrazioni da luna park, e stand di roba da mangiare , oltre al al tendone del Ristorante del F. A. M. , dove vengono consumati qualcosa come più di undicimila chili di aragosta del Maine appena pescata, cotti nella Pentola per aragosta più grande del mondo vicino all’ingresso nord della Fiera. . . Il Festival , alla fine, non é poi così diverso dalle sagre del granchio nella regione del di Tidewater, dalle sagre del granturco del Midwest, o del chili con carne in Texas, eccetera, e con queste ha in comune il paradosso di fondo di tutti gli eventi commerciali demotici e brulicanti: non è per tutti. In realtà c’è molto da dire sulle differenze fra la Rockland operaia e il sapore populista del festival vs l’agiata ed elitaria Camden con il suo panorama costoso e i negozi ceduti a maglioni costosissimi e schiere di villette trasformate in B&B. . . . Essere turisti americani di massa per me significa diventare puri americani dell’ultimo tipo ; alieni, ignoranti, smaniosi di qualsiasi cosa che non si potrà mai avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare, per mera ontologia, quell’ incontaminatezza che si è andati a sperimentare. Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi non-economici, migliori e più veri senza la nostra debordante presenza. Scrivendo queste righe mi è venuto alla mente quel che un po’ di anni fa mi confessò una cara amica venuta a trovarmi per la prima volta a Cava. Ti devo dire la verità, mi disse, seria e con un tono solenne, asseverativo, ho preso un maglione in un negozio di Cava; ma l’educazione e la bonomia che ho trovato comprando un vaso di ceramica a Vietri non le ho riscontrate nella vostra città. Sarebbe lungo raccontarti, le risposi, cara mia, ma la gente di Vietri, sai, ha origini etniche un po’ diverse da quelle dei cavesi. Poi l’aria di mare. . . ! Tanto per dire:fantasioso e originale archiviare con una battuta”turistica” Cava e i suoi cittadini, un po’ più arduo farlo quando si maneggiano America e Americani!




Alfonsina De Filippis: Profumo di magnolia…profumo d’infanzia

L’emozione mi toglie il fiato. Ho viaggiato per ore per arrivare sin qui ed ora mi sento stordita ed emozionata come un’adolescente al suo primo incontro d’amore. …. 
Il mio è davvero un appuntamento…. con i ricordi.
Sono davanti al cancello di un piccolo villino in cui ho trascorso le mie estati più serene. Ogni anno mia madre ci accompagnava qui e lasciava che fossero i suoi genitori a prendersi cura di me e di mio fratello. Era in questo posto dove regnava la serenità che potevamo godere della compagnia di nostra sorella che, per il resto dell’anno, viveva in città con i nonni. In pratica la nostra famiglia non era mai al completo, o mancava mia sorella o mancavano i nostri genitori. Io, inizialmente soffrivo per il distacco da mia madre e mio padre ma, col passare dei giorni, questa casa, le regole ferree di mia nonna, la compagnia dei miei fratelli e di mia cugina, il mare, la complicità di mio nonno, tutto diventava indispensabile e aveva il profumo dell’amore e dell’affetto.
Vivevo quei tre mesi di vacanza in perenne ammirazione di mia sorella (più grande di me di nove anni) ed ero affascinata da qualsiasi cosa dicesse o facesse; ero felice di passare più tempo con mio fratello (di cinque anni più grande) e, pur di stare con lui, avevo imparato a giocare a calcio, rugby, e tiravo con vero talento le biglie di vetro colorato. Mio nonno ci insegnava a colpire grossi barattoli di latta col suo fucile e, spesso correvamo allo stagno a caccia di rane e rospi. In quei giorni, e solo in quelli, io mi scoprivo veramente capace di provare vera gioia.
Io ero la più gracile e ogni inizio estate i miei nonni mi portavano da un anziano pediatra affinché mi prescrivesse le solite dolorosissime iniezioni di vitamina E.
Credo si chiamasse Bellelli ma ricordo con precisione la sua abitazione. Viveva in una piccola casa con un giardino pieno di bouganville di un rosso infuocato e davanti al cancello, a pochissimi metri, vi passavano le rotaie del treno tant’è che, spesso, eravamo costretti ad aspettare che il passaggio a livello si alzasse per varcare il cancello.
La visita era sempre scrupolosa e i miei nonni uscivano sempre dallo studio medico con aria affranta ma ben decisi a “rinforzarmi” nel corpo e nello spirito. In questo erano veri maestri, non credo che fossero le iniezioni a farmi davvero bene, più probabilmente era il concentrato di cure, di attenzioni e di amore di cui sapevano farmi dono.

Ora sono qui, ad un passo dal cancello di quella che una volta è stata anche casa mia….
Cerco con lo sguardo la piccola campana di bronzo che gli amici e gli ospiti agitavano per segnalare il loro arrivo….non c’è più. Non vedo neanche la targa di metallo su cui mio nonno aveva fatto incidere, con un carattere un po’ lezioso ma gradevole “Villino Nice”, il nome di mia nonna. Lascio che il mio sguardo penetri la barriera di edera che si è inerpicata lungo il recinto di ferro, la magnolia con le sue grandi foglie, è sempre lì, al centro del giardino e ormai ricopre quasi del tutto quella che una volta era l’enorme finestra del salone. Passavo ore, nei lunghi pomeriggi d’agosto, al fresco della sua ombra. A volte, mi sdraiavo sul prato così da avere per tetto i suoi lunghi rami ricchi di grandi foglie lucide, di un verde intenso e mi incantavo a guardarne i fiori bianchi e profumatissimi.
Le palme hanno raggiunto il tetto e grandi ciuffi di datteri dorati pendono da più parti dando un vago senso di esotico a questo mio amato giardino che nessuno sembra ormai più curare. Le aiuole non ci sono più e le piante più svariate convivono in promiscuità dandomi subito l’amara sensazione di abbandono ed incuria.
Ricordo e rivedo noi bambini sudati ed eccitati, chini sul prato a strappar erbacce. Sento, vicina e chiara, la voce di mia nonna che ci incita a far presto e bene.
Il viale d’ingresso, su cui ogni estate veniva montato un elegante gazebo di ferro lavorato, alcune sedie di eguale fattura rallegrate da grandi cuscini fiorati ed il tavolo col piano di cristallo ora è occupato da una vecchia automobile.
Alzo lentamente lo sguardo e ho un tuffo al cuore, il terrazzino davanti alla porta d’ingresso è rimasto quello d’un tempo e mi par quasi di rivedere i miei nonni, seduti sulle loro sedie di vimini, che sorridono così come erano soliti fare quando ci guardavano giocare.
Non resisto più, ho bisogno di entrare. Spingo il cancello pur essendo certa che sia chiuso. E’ bastata una leggera spinta ….è aperto. Il cigolio mi fa sobbalzare. Per un breve istante ho pensato di andar via, è stato solo un attimo di esitazione. Entro e richiudo il cancello dietro di me. Per incanto avverto la sensazione che la ringhiera sia diventata il limite del mondo, al di là di questo recinto un po’ malridotto c’è il vuoto.
Probabilmente al di là del cancello c’è il normale via vai di automobili, di donne che tornano dal mercato, di bambini che si rincorrono allegri ma io non sento più nulla, qui c’è solo silenzio e pace. Il mondo intero è racchiuso in questo giardino. Le persiane, tutte giù, rendono questa casa un po’ triste. E’ come se volesse tenere gli occhi chiusi per non vedere lo sfacelo di questo giardino. Una volta dalle finestre veniva fuori il vociare di noi bambini, il parlottare animato degli adulti e, all’imbrunire, questi grandi occhi dagl’infissi di legno bruciato dal sole e dalla salsedine, si illuminavano e splendevano attraversati dalla luce calda e allegra delle lampade. Questa casa che ha fatto da spettatrice a tante vicende e che ci ha visto prima bambini, poi adolescenti e infine adulti ora è cieca e sola. Mi avvio lentamente per il piccolo vialetto che costeggia il lato est della casa e mi ritrovo a sorridere al ricordo di quando, bambina, lo attraversavo di corsa per paura dei gechi e degli insetti che si rintanavano tra i mattoncini rossi. Istintivamente avverto lo stesso disagio ed affretto il passo fino a raggiungere il punto in cui il lungo viale diventa più ampio. Davanti a me si apre una scena di una bellezza indescrivibile. Il mio cuore ed i miei occhi si riempiono di una gioia completa, immensa, profonda. Il pergolato è un’esplosione di colori e di profumi, i grappoli di glicine si intrecciano a lunghi rami di rose selvatiche bianche e rosa tra cui fanno capolino piccoli mazzolini di gelsomino. Sono letteralmente assalita da un’ondata di profumo tanto penetrante e piacevole da sentirmene stordita e inebriata. Guardo a terra e mi accorgo che c’è uno stupendo tappeto di petali e di foglie dalle mille tonalità e sfumature di verde.
Una leggera brezza suona la sua musica fra i rami e smuove le foglie facendo piovere altre leggere gocce di seta.
Alzo lo sguardo e vedo un cielo fiorito. Il sole riesce, di tanto in tanto, ad aprirsi un varco tra il fogliame e proietta sul suolo macchie di luce che sembrano danzare al ritmo di una malinconica e sapiente melodia che mai animo umano potrebbe comporre. Mi sento estasiata e leggera, mi pare che anche la mia anima stia danzando e cantando il suo inno alla vita ed al creato.
Tra alti cespugli, dove prima fiorivano le “belle di notte” è ancora visibile il campo di bocce e l’enorme rullo di cemento che spingevamo con fatica affinché con il suo peso livellasse la terra rossa su cui lanciavamo, in modo non proprio regolare, le bocce di legno colorato. Mi pare di sentire la voce di Giovanna, la più piccola di noi quattro, che piagnucola perché vuole il pallino. Ho davanti agli occhi mio padre, in pantaloncini, che prende la mira fingendo concentrazione e impegno. 

Dall’altro lato del viale c’è un’ampia distesa di terra, ora incolta, che allora era il nostro orto. Con grande fatica di tutti gli adulti della famiglia e in parte anche di noi ragazzini, riuscivamo a coltivare di tutto e grossi cespugli di erbe aromatiche riempivano l’aria di profumi penetranti.
In fondo al viale s’intravede il garage che utilizzavamo come cucina. E’ una piccola casetta in miniatura con una finestra di minime dimensioni che fungeva da passavivande. Sotto il pergolato di vite canadese, che ora mi pare un angolo di paradiso, consumavamo le leccornie che mia nonna, eccellente cuoca, preparava per tutti noi.
C’è ancora la panca di marmo causa di liti furibonde e di vere e proprie battaglie. C’era sempre uno stesso vincitore: mio fratello Pierfederico. Unico maschio del gruppo dei piccoli, sapeva essere convincente. Utilizzava varie strategie: partiva col promettere regali e favori, passava poi ai ricatti ed alle minacce, cui io non cedevo mai…. Mia cugina Giovanna era fuori dalla competizione perché troppo piccola, mia sorella Antonella, la più grande, si rassegnava facilmente.Io ero l’unica che resisteva ad oltranza e mi lanciavo in veri e propri corpo a corpo e ne uscivamo, entrambi, pieni di lividi e di rancore.
Ora la panca è tutta mia. Mi ci siedo, gonfia di soddisfazione. Chiudo gli occhi e non mi sembra possibile che nessuno venga a recriminare o ad intimarmi di alzarmi.
“Dindi! Dindi! Alzati, vieni ad abbracciarmi”. Apro gli occhi, nel viale, tra i fiori, c’è il nonno. Farfuglio e balbetto: ”Non chiamarmi così, non vedi, ho più di quarant’anni! Ne è passato di tempo da quando usavi chiamarmi con questo nomignolo strano e tenero.” Si avvicina con passo lento e leggero, si toglie il cappello e sorride divertito. Indossa pantaloni di lino beige con le pences e una camicia candida.
Apre la porta del garage, io lo seguo in silenzio. Apre la saracinesca che dà sulla strada secondaria e l’ambiente è inondato di luce. Si avvicina al tavolo, apre il cassetto in cui ha sempre custodito i suoi attrezzi e ne tira fuori un martello ed un oliatore. “Devo sistemare il cancello. Hai sentito come cigola?”.
Le sue parole vengono fuori come se ondeggiassero, l’accento toscano le rende morbide e lievi. Vorrei abbracciarlo ma lo fisso incantata come facevo da bambina. Durante le splendide serate estive, accompagnati dai grilli e dallo svolazzare di mille lucciole, passavamo ore a guardare il cielo stellato, lui mi sussurrava il nome di tutte le stelle, Venere, il Gran Carro, l’Orsa maggiore…….Io lo ascoltavo estasiata e credevo fosse il padrone dell’infinito. Non mi stancavo mai di ascoltarlo e vivevo intere sere stando col naso in su. Mio nonno Gastone mi ha insegnato ad amare il cielo stellato e a sentirne il profumo. Ora mi pare che lui stesso sia stato per me grande e magnifico come un cielo trapunto di stelle.
Si avvia per il viale armato di tutto punto per iniziare la sua battaglia contro la ruggine. Mi fermo a guardarlo mentre si allontana lungo il viale, non lo seguo.Mi piace guardarlo mentre lo attraversa col suo passo lento e morbido.
Si volta a guardarmi, mi sorride e mi fa cenno con la mano come per salutarmi……
Sento che qualcuno mi scuote con forza: ”Signora, sta male?”. Apro gli occhi e vedo chino su di me un omone grande e grosso. Metto a fuoco con fatica il suo viso troppo vicino al mio. Mi alzo di scatto. Deve essere il guardiano o il proprietario. Lo guardo confusa e con un po’ di timore. Cerco di assumere un tono dignitoso e convincente.
Balbetto qualcosa di incomprensibile anche a me stessa. Mi guardo intorno, siamo soli ed entrambi in evidente imbarazzo. Lo guardo e cerco di inventarmi qualcosa da dire, vorrei giustificare la mia presenza. La voce mi viene fuori di getto:
“Mi perdoni l’intrusione ma, sa, in questo villino ho trascorso almeno una ventina di estati. Volevo tuffarmi nel passato. Tra questi fiori aleggiano i momenti più belli della mia vita, qui avevo lasciato ricordi, sogni e speranze di cui ora ho veramente bisogno. Io sto cercando me stessa e il coraggio di continuare a vivere. Non dica nulla, la prego. Questa, ora è casa sua ma per molto più tempo è stata mia, ha rallegrato i miei giochi di bambina, mi ha fatto sognare, è stata la mia isola-che-non-c’è. Mi perdoni ma dovevo recuperare un pezzo del mio cuore e della mia vita.
Mi prende un’incontenibile voglia di scappare via, corro, attraverso il viale, al mio passaggio mille petali volteggiano contenti.
Raggiungo il cancello, lo apro, non cigola più.
Corro alla macchina, non vedo quasi più nulla…i miei occhi sono pieni di lacrime, il cuore trabocca gioia e malinconia insieme. Ho un altro profumo che mi è entrato nell’anima. E’ un aroma che non avevo mai sentito prima: il profumo dell’infanzia.

Stringo al cuore il mio pezzetto di vita e mi volto a guardare, forse per l’ultima volta, la casa della gioia.
Sono tutti al cancello: nonna Nice più bella che mai; nonno Gastone col naso all’in su in attesa che spunti la prima stella della sera; mio padre già con la pompa in mano pronto ad annaffiare l’orto, mia madre in pantaloncini, mia sorella Antonella, adolescente, col suo sorriso tenero e caldo, mio fratello Pierfederico ragazzino sbarbatello, con gli occhi pieni di sogni e di speranze, mia cugina Giovanna, che stringe il suo orsetto di peluche, i miei zii Antonietta e Gaetano, allora giovani…….
Un desiderio irrefrenabile mi spinge ad avvicinarmi, li guardo e sussurro: “Vi voglio bene…”
E’ solo un attimo…..tutto svanisce.
La loro immagine ormai è sfuocata, si è persa tra le lacrime che si sono affollate nei miei occhi o, forse, la realtà li ha riportati tutti in quel mio passato ormai lontano.
Sto piangendo. Le lacrime non sono sempre stille di dolore, queste che mi scivolano sul viso sono il nettare dolce della mia anima felice. 




Angela Maria Pellegrino: O Sussurro da Terra

Da pochi giorni sono ritornata da un viaggio in Patagonia, è stato stupendo.

Sono arrivata nel punto più a sud del continente americano, che è molto più a sud del capo Agulhas (il vertice meridionale del continente africano – non è il Capo di Buona Speranza l’apice meridionale!), tra i pinguini, i leoni di mare, i cormorani delle rocce, ed i ghiacciai.

Per ognunodi noi l’immagine di un ghiacciaio è una gelida distesa bianca che purtroppo oramai si riduce di anno in anno. Ma i ghiacciai della Patagonia sono diversi, credetemi amici, sono ‘vivi’, hanno il loro incredibile ciclo vitale.

Il famoso Perito Moreno, ampio 250 chilometri quadrati, è il più grande ed il più famoso nel versante argentino della Patagonia, un immenso corpo che si adagia sulle Ande e ne percorre e ne possiede gli immensi pendii. A prima vista, da lontano, appare morbido, quasi carnale, luminoso e possente, da togliere il fiato. Una sensazione di sopraffazione, di sbalordimento, di ammirazione: una vera opera d’arte, potente e imponente.

Ci si può avvicinare tramite delle passerelle ben costruite, si ammira da pochi metri la parete ‘finale’ della immane massa, e si deve stare in assoluto silenzio, perché il ghiacciaio ‘suona’. Si sentono scricchiolii, quasi gemiti, a volte sembrano dei lamenti come di una persona che ha un forte mal di schiena, provenire da vari punti della parete solida, poi un improvviso potente boato, e una grossa colonna crolla rovinosamente, alzando ondate di acqua e ghiaccio. Uno spettacolo che ha qualcosa di animalesco, di vivente.

Perché questo ghiacciaio cresce, incredibilmente si allunga giorno dopo giorno nell’acqua del lago Argentino nel quale si trova (un enorme lago che non ha immissari fluviali, che deve la sua esistenza solo ai ghiacciai che lo alimentano da millenni). Ogni due o tre anni avviene un fenomeno veramente unico al mondo: il ghiacciaio, millimetro dopo millimetro, arriva piano piano a toccare la sponda opposta del lago, poggiandovisi sopra e costituendo così una specie di diga nel lago stesso, che impedisce ad una grossa diramazione del bacino di comunicare con il resto del grandissimo specchio d’acqua. Ma l’acqua ‘liquida’ vince sempre e, nella parte bassa del massiccio lembo protruso in avanti del ghiacciaio, flutto dopo flutto scava una piccola galleria trasversale che viene subito sfruttata dagli organismi viventi nel lago e dalla stessa acqua del lago stesso, che così la approfondiscono e la ingrandiscono velocemente, svuotando la parte bassa della lingua ghiacciata del Perito Moreno, fino ad arrivare ad una immane frana del ghiacciaio stesso, che fragorosamente crolla in grossi blocchi nell’acqua stessa.

Emozioni profonde, bellissime. 

Non dobbiamo soltanto cercare e godere di musei, opere d’arte, cattedrali ecc, secondo me, dobbiamo studiare, conoscere bene, ammirare ed amare la nostra magnifica, incredibile madre Terra, nelle sue stupende sfaccettature.




Santina Mercurio: Il mormorio della solitudine

Sola…..
Mormorii incessanti…..

tante parole….
è strano ma tra tanti mi sento sola, il pensiero va incontro a ricordi lontani…

Rivedo il frangere del mare chiudo gli occhi e risento il sapore della salsedine. Un brivido m’assale…
apro gli occhi mi risveglio dai miei ricordi e mi sforzo di partecipare a tutto quello che mi circonda




Libertà per Ilaria




Enzo De Leo: Solitudine e narcisismo

“E’ quando ci sei che mi manchi”
Franca Grosso

Il termine “narcisismo” ha finito per assumere sempre più una connotazione negativa e, anzi, dispregiativa. In realtà aspetti narcisistici fanno parte normalmente e necessariamente della personalità di ciascuno di noi. Secondo Freud il narcisismo rappresenta una funzione essenziale al fine di costruire una propria capacità di vita autonoma, di avvertire un’adeguata autostima, di percepire confini definiti della propria identità e, ancora, che questi confini delimitino parti di sé diverse ma bene integrate.

In questo senso è possibile parlare di un narcisismo sano e funzionale alla maturazione dell’individuo e al mantenimento di buone relazioni con gli altri. Per dirla in breve e in maniera forse eccessivamente sintetica, concentrarsi su se stessi, cedere al bisogno di idealizzarsi, rivedere con autocompiacimento i propri successi, sottolineare a se stessi le proprie qualità e cosi via ci aiuta a ricompattarci e ad affrontare con più forza le sfide del mondo esterno e soprattutto le relazioni con gli altri.
Tuttavia, condizioni di vita per così dire particolarmente difficili, possono rendere impossibile mantenere una buona e stabile immagine di se stessi e gli aspetti narcisistici della personalità finiscono per debordare divenendo man mano pervasivi, in diverso grado, della personalità. Si parla in questo caso di narcisismo patologico la cui importanza, nella definizione complessiva della personalità varia seconda dei casi (fino a giungere al cosiddetto narcisismo maligno).
Cosa c’entra tutto questo con la solitudine di cui Carlo ci invita a parlare?

Ho scelto di parlare brevemente di questa tematica per due motivi. Intanto perché ritengo che il diffondersi del narcisismo (come tratto importante della personalità o come vera e propria patologia sociale) abbia molto a che vedere con la solitudine. Non intesa in questo caso come condizione in cui siamo da soli senza nessuno che ci tenga compagnia. Ma, al contrario, parlo qui di quei momenti in cui questo sentimento è tanto più struggente perché abbiamo vicino a noi persone – amici, familiari, compagn@ – la cui presenza, avvertita a distanze siderali, ci fa sentire ancora più soli. E’ questa la condizione di chi vive relazioni, di qualunque natura, con uomini o donne con importanti tratti narcisistici della personalità.

Nella storia della psicoanalisi il narcisismo è di solito considerato l’antitesi perfetta della capacità empatica. Quest’ultima è stata definita in diversi modi. Ma nella sostanza quando parliamo di empatia ci riferiamo a un’esperienza emotiva che ci permette di condividere – di vivere insieme – i sentimenti di un altro. Insomma, stare veramente con qualcuno è possibile se abbiamo la capacita di entrare in sintonia con gli altri, di fare esperienza dei sentimenti altrui. Questa possibilità è preclusa, in tutto o in parte, a coloro la cui personalità presenta rilevanti aspetti narcisistici. E preclusa al narcisista ma anche a chi si accompagna con lui.

Ha ragione Alfonso D’Arco, quando su questo blog parlando del rapporto medico paziente, pone l’accento sull’empatia come unica possibilità che si stabilisca fra i due una relazione reale. Senza questa relazione il malato rimane solo con la sua malattia e il medico finisce per perdere potenzialità terapeutiche enormi e una ricchezza che questo mestiere eccezionale è in grado di dare. Vale la pena di ricordare quel che diceva G.A. Maccacaro “L’unica salvezza del medico è con il malato che a lui la chiede” Sappiamo che per molti motivi, per i medici come per chiunque altro, la possibilità di una relazione empatica è una problematica – soprattutto in epoca di social – più che mai all’ordine del giorno.

La questione è resa più complessa (e più grave) dal fatto che le caratteristiche della società odierna sono tali da favorire il diffondersi in maniera esponenziale dei tratti narcisistici della personalità.
C. Lasch, alcuni decenni fa, ha scritto un saggio diventato poi molto famoso che si intitola appunto “La cultura del narcisismo”.

Si tratta non solo della descrizione di alcune caratteristiche psicologiche sempre più diffuse e tipiche di questa epoca, ma anche di un tentativo di individuarne cause e genesi.
Per cui, individualismo, difficolta ad esprimere sentimenti empatici nelle relazioni, culto del corpo e del successo vengono messi in relazione con la perdita progressiva di sicurezza e di autostima, caduta del principio di autorità, esasperato consumismo e valori diffusi da una pubblicità che al consumo smodato ènaturalmente finalizzata.
Ecco quindi che la questione si complica. Il desiderio di uscire da una condizione di solitudine trova seri ostacoli in tendenze socio – culturali che vanno in una direzione antitetica. Naturalmente esistono gruppi, persone, istituzioni che, anche se minoritari, si muovono, con proposte e azioni concrete, in direzione opposta. Vanno sicuramente da ascriversi a quest’ultime le numerose e sempre molto partecipate iniziative di Carlo che, stimolando il nostro narcisismo (sano, si spera) tendono a creare spazi di confronto, memoria condivisa, partecipazione collettiva e paritaria.