Alfonso Maria D’Arco: la solitudine del medico

Quella del medico è una delle professioni maggiormente  circondata da un’ aura di prestigio sociale e che, più della maggior parte delle altre occupazioni lavorative, genera rispetto e, perché no, un certo timore riverenziale nella popolazione dei pazienti e/o in quella potenzialmente tale. Quindi, praticamente nella grande maggioranza della popolazione.

A questo si aggiunga una gratificazione economica che, bene o male e a chi più a chi meno, è appagante per la grande maggioranza degli operatori sanitari.

Un altro aspetto altamente gratificante è la convinzione (a volte “illusione”), da parte del medico, di potersi inserire nel percorso esistenziale di un’ altra persona modificandolo al meglio, eliminando o almeno smussando gli aspetti spigolosi generati dalle inevitabili problematiche di malattia con cui, prima o poi, ciascun essere vivente dovrà confrontarsi.

Cosa si chiede ad un medico? A parte l’indispensabile competenza tecnico professionale, l’ elemento chiave del rapporto medico paziente è la capacità di ascolto da parte del primo. Che non è solo la banale “interrogazione” o raccolta anamnestica, ma è la capacità di stabilire un rapporto bidirezionale di informazioni e, perché no, soprattutto di emozioni, nel senso più ampio del termine.
 In ultima analisi, la capacità di stabilire un rapporto profondamente empatico dove ognuno degli attori finirà col sentirsi a proprio agio, condividendo con l’ altro la piacevole sensazione di NON ESSERE SOLI! Anche e soprattutto nella sofferenza.

Questo dovrebbe essere il compito fondamentale del medico. Quello di saper guidare il paziente (e i familiari), “a braccetto”,  attraverso il percorso di malattia verso l’ esito finale, qualunque esso sia, dalla guarigione all’ exitus.

Con queste premesse, la professione del medico e la SOLITUDINE sembrerebbero termini antitetici. Invece non lo sono affatto. Anzi.
Spesso il medico, soprattutto all’ interno della sanità territoriale, tende a rinchiudersi in una dimensione di solitudine individualistica e culturale con un vero e proprio isolamento fisico e relazionale  rispetto al resto della comunità  tecnico-scientifica. SOLO, sotto il peso delle richieste di aiuto della popolazione dei pazienti e di un carico burocratico che diviene sempre più oppressivo e frustrante.
Condizione che solo in parte viene attenuata dalla “dimensione social” che, per sua natura, è, oltre che virtuale, necessariamente supeficiale. Incapace, pertanto, di collegare la banale informazione al fondamentale valore delle emozioni, del coinvolgimento, dell’ empatia, unici antidoti alla SOLITUDINE.

E che dire del medico inserito in una struttura sanitaria, pubblica o privata. In tal caso il concetto di solitudine dovrebbe essere quanto di più lontano da una condizione lavorativa che dovrebbe prevedere un “gruppo di lavoro”, meglio se interdisciplinare, con il paziente al centro.
Purtroppo questa modalità lavorativa è resa sempre più una chimera dal peso delle sempre più ossessive incombenze burocratico-amministrative che gravano sulle spalle degli operatori sanitari, distogliendoli
dall’ ascolto, dall’ approccio clinico e, soprattutto, dal confronto interdisciplinare che è la vera chiave di volta di un intervento sanitario. In alcune discipline in particolare.
A questo si aggiunga la sempre crescente preoccupazione per le eventuali conseguenze medico legali di scelte sanitarie strategiche, anche se effettuate in perfetta buona fede e con sufficiente competenza.

Tutto questo ed altro ancora pone la condizione del medico in una condizione di vera e propria SOLITUDINE, psichica e spesso anche fisica (ogni operatore nel suo “studiolo”) aggravata da una dolorosa frustrazione per non essere all’ altezza delle aspettative del paziente e della comunità di appartenenza.
Ciò è sempre più vero in una situazione, quale è quella italiana, dove mancano almeno 20000 medici e 70000 infermieri ! E ancora continuiamo con i numeri chiusi !

 L’ ultima e forse più drammatica condizione di SOLITUDINE è quella del medico che, nel corso della vita, può  essere costretto a confrontarsi con l’ esperienza di una grave malattia. In questa fase Dio è nudo. Non ci sono alibi. Non ci sono sotterfugi Non ci sono strade “consolatorie”. Il medico conosce il percorso della sua patologia, le eventuali e spiacevoli complicanze delle terapie, il possibile, spesso inevitabile esito del decorso.
E’ come se qualcuno rimuovesse la barriera, la saracinesca che l’ essere umano, unico animale cosciente del fatto che esiste una fine chiamata morte, pone fra sé e tale certezza, allontanando l’ angoscia della consapevoleza della finitezza del cammino di vita. In tale circostanza, il medico paga a caro prezzo tutti i privilegi  i benefici ed i vantaggi che la sua professione, come abbiamo detto prima, gli ha riservato.
E sperimenta la reale SOLITUDINE ESISTENZIALE, solo attenuata dal supporto familiare e amicale oppure, nei casi più fortunati, da un cammino di FEDE che, alla fine dei conti, rimane l’ unica arma, l’ unico farmaco capace di contrastare questa drammatica esperienza di “reale” solitudine. Per la fortuna di chi questa arma la possiede.




Elvira Coppola Amabile:Un vuoto invisibile

Carlo chiede di scrivere qualcosa sulla solitudine.  Premetto che non mi sento mai sola e non sto mai male se sto isolata, anche se amo moltissimo la gente e sono molto vivace affettuosa e comunicativa.
Tuttavia questa richiesta mi induce a riflettere. Cerco uno spiazzo nella mia immaginazione dove costruire le mie riflessioni. 

La solitudine è un prisma.
Non uno stato fisico né uno stato mentale né un sentimento.
La solitudine è un vuoto che non riesci a vedere. Se non lo vedi non lo puoi riempire.
Non lo puoi riempire!
Questa incapacità é la percezione della solitudine.
Legata a un dolore.
Legata a una scelta.
Legata a un ricordo.
Legata a un privilegio di cui solo tu hai l’esclusiva.
Legata a una gioia che non vuoi condividere.

La solitudine.
Un prisma con tante facce. Una sola riflette la luce se colpita.
In quel momento ti fermi e osservi. La lontananza ti isola da qualcosa che possiedi o che hai posseduto. La privazione ti relega in una piccola desolazione.
Un luogo una persona un affetto un suono un odore…
Vado con la memoria a raccogliere questi frammenti.

Petali lievi che lasciano una traccia sonora. Un’ eco ti coglie e sei lì. Solo.
Quando? Il suono è forte e dolente. Fa male? Cerchi di ignorarlo addolcirlo.
Il pudore mi blocca ma posso raccontare di quando ho capito che i miei genitori non mi potevano assecondare a realizzare i miei sogni. Un tuffo nel buio!! Ero sola. I miei desideri congelati. Inaccessibili per sempre forse…. Inerme… Sola…

La città eterna mi ha accolta fascinosa e generosa. Ero sposa mentre i miei monti si azzurravano di oblio. Come quella marina bagnata di gioventù e salsedine.Tornavo e ritrovavo tutto e mi accorgevo di avere le guance rigate di lacrime. La lontananza non ne aveva mai sbiadito l’appartenenza violenta come una passione mai estinta. Ritrovavo il canto lento dell’idioma parlato dalla mia gente. Risentivo gli odori e un senso di abbandono mi colpiva implacabile. Era tutto mio ma io non ero più loro. Non appartenevo piú a quel divenire. Divenivo altrove. Ho tentato di restituirmi alla mia città. Con l’impegno politico. Con il lavoro. Con l’amore per i miei che restavano ancora lì.  Con i legami d’amicizie. Con la partecipazione sporadica ai fatti della città. Compatibilmente con gli impegni di famiglia. Tutto cambia. Tanti spariscono.
I respiri restano. Fermi come statue nel vento.

Ricordo i libri di Wilburg Smith che leggevamo regolarmente durante l’estate. C’era spesso un giovane africano costretto ad abbandonare la sua terra. Ricordo che ne metteva un mucchietto in un sacchetto e se lo legava al collo senza mai staccarsene. Era ingenuo ma ogni tanto ho pensato di fare lo stesso. Un’usanza tribale che la parte selvaggia della mia natura non avrebbe disdegnato.

Sono un’esperta subacquea. Una volta in Indonesia per una serie di disattenzioni che non sto a riferire mi staccai dal gruppo e fui trascinata da una corrente violentissima.  Restai isolata in mezzo al mare per oltre due ore. Solitudine totale implacabile pericolosa. Tutto era lontanissimo!
Non ho avuto paura. Allora! Mi ritrovarono. Mi salvarono.
La paura l’ho avuta dopo. Ora se ci penso.
In quel momento mi organizzai per raggiungere un’isoletta  a circa un miglio. Divenni fredda e insensibile. Surreale!  Entrai nel mito. Ero una sirena. Le sirene di tutti i mari mi sorreggevano e spingevano contro corrente verso la riva.
La solitudine di una distesa di mare infinita mi consacrava alla lontananza. Non ne ero prigioniera ma padrona. 

Troppo intime queste confidenze?
Parlare delle proprie emozioni è come sospendere l’anima in uno spazio aperto.
Un viaggio senza ritorno.




Francesco Puccio: L’isola della solitudine

Mia madre mi insegnò come attraversare il mare senza timore. Ricordo,da ragazzino, un’ estate e un bagno di fine stagione. Gli amici erano già corsi via, tornati nelle loro case in paese, ed io non trovai nessuno ad aspettarmi sulla spiaggia. Ci rimasi male all’inizio, ma poi quella sensazione di solitudine mi piacque.

Mi svestii e mi tuffai. Il corpo si lasciò andare e cominciai a nuotare verso l’orizzonte, senza una meta né un tempo di arrivo. Non mi importava dove sarei finito né quando sarei tornato. Poi mi girai e, stando a galla sulla schiena, mi si stagliò la vegetazione colorata che ricopriva la roccia dell’isola, i ciuffi di macchia, che dalle fessure si proiettvano a picco sul mare.

Nuotai senza chiudere gli occhi, come i pesci. Volevo essere uno di loro.

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Avvolti nelle nostre reciproche solitudini, temevamo di scoprire un mondo diverso da quello che avevamo lasciato, in un’altra stagione, in un tempo che ci sembrava ormai lontano, benché bastasse voltarsi indietro e riconoscerlo senza fatica. Non fummo in grado, per un certo tempo, di parlare a quella parte di noi che avevamo in comune, come se si fosse inabissata in un fondo al quale sarebbero arrivate le voce di andata, ma da dove non ne sarebbe riemersa nessuna di ritorno.

dal libro “Il posto degli assenti




Sulla solitudine

Invito a scriverne

Ho una forte idiosincrasia nei confronti della lingua anglo-americana e se qualcuno vuol saperne il perché può leggerne i motivi qui sul blog nel seguente post.
www.porticando.eu/blog/inglese

Ma, come diceva qualcuno, a volte è necessario volare basso al livello di “Ok, tank you” per cui ora che mi è venuto il desiderio e l’idea di scrivere sulla solitudine  e di invitare te che ora stai leggendo a farlo, può essere comodo ricorrere alla semplificazione loneliness · solitude che spacca il concetto in due separandone in maniera forzata l’aspetto doloroso dall’aspetto piacevole.

La solitudine, a volte vestita da Arlecchino a volta da Pulcinella, chiara come una giornata di sole o grigia come le nuvole, creativa o accidiosa sempre fa capolino nella nostra vita come amica fedele o come dispettosa e importuna compagna di strada e spesso contemporaneamente l’una e l’altra.

Si annida mesta nei like e nel caotico e chiassosso peregrinare della folla virtuale di FB, la trovi frizzante o malinconica nel lavoro, ti fa da calda confidente mentre scorri le pagine di un buon libro, ti parla di te stesso nelle notti stellate, ti è vicina timorosa o adrenalinica nell’attesa, ti permette di isolarti dagli insopportabili rumori di questo mondo, ti circonda nei momenti di delusione o di incomprensione, può essere un torrente impetuoso  o un placido fiume o un lago melmoso, può essere fredda e triste anche se elegante come nell’uomo del Vecchio frac di Modugno o un fiore come nella canzone di Sergio Endrigo, può indurre all’invidia  e all’avarizia oppure all’empatia e alla generosità, può accarezzarti o procurarti dei lividi.Può essere un blues o un canto gregoriano.

Una cosa è certa: scrivere ti farà sempre stare in compagnia con la parte più dolce di te stesso.

Fallo anche tu. Ne sarò lieto.

Nel frattempo se ti va ecco un po’ di musica per tenerti compagnia

Giorgio Gaber La solitudine

Leo Ferré Avec le temps

Gilbert O’ Sullivan Alone Again

Nei prossimi giorni troverai qui i contributi sulla solitudine di amici ed amiche .