Enza Barbaria: La solitudine

Seduta sul pendio di me stessa
Ti guardo e mi spaventi
Non ti conosco
Sei al margine del mio essere
Ti distinguo
Ci provo
Non ti vedo
Mi affanno nella corsa libera per raggiungerti e toccarti…
Odo il tuo ghigno.
Mi spavento, madre dei miei silenzi.
Compari e mi perdo in ciò che sono.
Tu che valorizzi e denigri il mio essere.
Tu… serenità e delirio
Tu… carezza e schiaffo
Tu… pretesa e disperazione
Mi vesti di abiti diversi
Ed io delicatamente sorrido a ciò che sono… sola.




Enzo De Leo: Solitudine e narcisismo

“E’ quando ci sei che mi manchi”
Franca Grosso

Il termine “narcisismo” ha finito per assumere sempre più una connotazione negativa e, anzi, dispregiativa. In realtà aspetti narcisistici fanno parte normalmente e necessariamente della personalità di ciascuno di noi. Secondo Freud il narcisismo rappresenta una funzione essenziale al fine di costruire una propria capacità di vita autonoma, di avvertire un’adeguata autostima, di percepire confini definiti della propria identità e, ancora, che questi confini delimitino parti di sé diverse ma bene integrate.

In questo senso è possibile parlare di un narcisismo sano e funzionale alla maturazione dell’individuo e al mantenimento di buone relazioni con gli altri. Per dirla in breve e in maniera forse eccessivamente sintetica, concentrarsi su se stessi, cedere al bisogno di idealizzarsi, rivedere con autocompiacimento i propri successi, sottolineare a se stessi le proprie qualità e cosi via ci aiuta a ricompattarci e ad affrontare con più forza le sfide del mondo esterno e soprattutto le relazioni con gli altri.
Tuttavia, condizioni di vita per così dire particolarmente difficili, possono rendere impossibile mantenere una buona e stabile immagine di se stessi e gli aspetti narcisistici della personalità finiscono per debordare divenendo man mano pervasivi, in diverso grado, della personalità. Si parla in questo caso di narcisismo patologico la cui importanza, nella definizione complessiva della personalità varia seconda dei casi (fino a giungere al cosiddetto narcisismo maligno).
Cosa c’entra tutto questo con la solitudine di cui Carlo ci invita a parlare?

Ho scelto di parlare brevemente di questa tematica per due motivi. Intanto perché ritengo che il diffondersi del narcisismo (come tratto importante della personalità o come vera e propria patologia sociale) abbia molto a che vedere con la solitudine. Non intesa in questo caso come condizione in cui siamo da soli senza nessuno che ci tenga compagnia. Ma, al contrario, parlo qui di quei momenti in cui questo sentimento è tanto più struggente perché abbiamo vicino a noi persone – amici, familiari, compagn@ – la cui presenza, avvertita a distanze siderali, ci fa sentire ancora più soli. E’ questa la condizione di chi vive relazioni, di qualunque natura, con uomini o donne con importanti tratti narcisistici della personalità.

Nella storia della psicoanalisi il narcisismo è di solito considerato l’antitesi perfetta della capacità empatica. Quest’ultima è stata definita in diversi modi. Ma nella sostanza quando parliamo di empatia ci riferiamo a un’esperienza emotiva che ci permette di condividere – di vivere insieme – i sentimenti di un altro. Insomma, stare veramente con qualcuno è possibile se abbiamo la capacita di entrare in sintonia con gli altri, di fare esperienza dei sentimenti altrui. Questa possibilità è preclusa, in tutto o in parte, a coloro la cui personalità presenta rilevanti aspetti narcisistici. E preclusa al narcisista ma anche a chi si accompagna con lui.

Ha ragione Alfonso D’Arco, quando su questo blog parlando del rapporto medico paziente, pone l’accento sull’empatia come unica possibilità che si stabilisca fra i due una relazione reale. Senza questa relazione il malato rimane solo con la sua malattia e il medico finisce per perdere potenzialità terapeutiche enormi e una ricchezza che questo mestiere eccezionale è in grado di dare. Vale la pena di ricordare quel che diceva G.A. Maccacaro “L’unica salvezza del medico è con il malato che a lui la chiede” Sappiamo che per molti motivi, per i medici come per chiunque altro, la possibilità di una relazione empatica è una problematica – soprattutto in epoca di social – più che mai all’ordine del giorno.

La questione è resa più complessa (e più grave) dal fatto che le caratteristiche della società odierna sono tali da favorire il diffondersi in maniera esponenziale dei tratti narcisistici della personalità.
C. Lasch, alcuni decenni fa, ha scritto un saggio diventato poi molto famoso che si intitola appunto “La cultura del narcisismo”.

Si tratta non solo della descrizione di alcune caratteristiche psicologiche sempre più diffuse e tipiche di questa epoca, ma anche di un tentativo di individuarne cause e genesi.
Per cui, individualismo, difficolta ad esprimere sentimenti empatici nelle relazioni, culto del corpo e del successo vengono messi in relazione con la perdita progressiva di sicurezza e di autostima, caduta del principio di autorità, esasperato consumismo e valori diffusi da una pubblicità che al consumo smodato ènaturalmente finalizzata.
Ecco quindi che la questione si complica. Il desiderio di uscire da una condizione di solitudine trova seri ostacoli in tendenze socio – culturali che vanno in una direzione antitetica. Naturalmente esistono gruppi, persone, istituzioni che, anche se minoritari, si muovono, con proposte e azioni concrete, in direzione opposta. Vanno sicuramente da ascriversi a quest’ultime le numerose e sempre molto partecipate iniziative di Carlo che, stimolando il nostro narcisismo (sano, si spera) tendono a creare spazi di confronto, memoria condivisa, partecipazione collettiva e paritaria.




Giacomo Santarsieri: Solo come un… prete!

La Chiesa d’Occidente, nel corso della sua storia, ha legato progressivamente il celibato al sacerdozio. Essere prete, in Occidente, implica il celibato come stato di vita. Conosciamo le ragioni economiche, morali, pastorali e spirituali di questa situazione. D’altronde, può sembrare importante oggi riflettere sulla solitudine del prete che il celibato manifesta e accentua in maniera particolare. Riconosciamolo, il ministero sacerdotale rimane attraversato dalla solitudine.  
La solitudine del prete è uno dei temi più dibattuti dalla stampa e talkshow. Un tema senza dubbio di grande interesse che non sembra essere analizzato sempre compiutamente. La prima argomentazione prodotta con l’intento velato di denigrare, riguarda la scelta celibataria della Chiesa Cattolica. Ma la solitudine del prete non dipende dalla mancanza di cose o di persone ma piuttosto dall’ assenza della pienezza di Dio.  

Quasi a voler dimostrare che: l’unico modo per allontanare la solitudine basta una relazione matrimoniale. La solitudine che il prete vive non ha nulla a che vedere, almeno non in modo determinante, con il fatto che, tornato a casa, non ci sia qualcuno che gli corre incontro o che gli chiede di vedere i compiti, qualcuno con cui parlare o sfogarsi, con cui ridere o piangere. Esistono variegate diversificazioni a determinare il problema della solitudine del clero.  
Esiste ad esempio una incisiva differenza tra i sacerdoti diocesani (i parroci) e quelli che vivono nelle Fraternità (ordini religiosi) soggetti alla osservanza condivisa della “Regola”. Vivendo in fraternità i religiosi sono meno esposti ai pericoli della solitudine; anche se ciò non è sempre sufficiente quantomeno ad arginare il problema. Per fortuna diventano sempre più frequenti, e preziose, piccole esperienze di vita fraterna tra sacerdoti diocesani che decidono di vivere insieme almeno qualche momento della giornata.   È vitale per un prete, una volta uscito dalla prima formazione, di saper guardare oltre il proprio confine “geografico” di competenza, di saper dedicare del tempo a curare le relazioni all’interno del presbiterio, di sapersi interessare alla vita degli altri preti, per intercettarne eventuali bisogni o chiedere aiuto per sé.
Non poter contare su nessuno, sia per un momento di svago, che quando si sta male, è terribile. La formazione deve prevedere l’aspetto interpersonale in modo anche esperienziale, attraverso momenti concreti di condivisione, attraverso la possibilità di portare avanti, insieme con altri confratelli, un’attività, un servizio, un progetto.
I giovani vanno verificati sul fronte della collaborazione, della generosità reciproca, anche quando non sono dentro una realtà di vita comune, perché il saper stare con altri fratelli e sorelle non è un “compito” solo dei religiosi. Come mai può accadere una situazione simile? Come può succedere che un prete arrivi ad una solitudine “insopportabile”? Non c’è da scandalizzarsi, ma non tutto si può risolvere dicendo che è solo questione di fede (anche, ma non solo). Innanzitutto siamo in un tempo di grandi individualismi, e questa “malattia” colpisce tutti. Se si parla tanto del bisogno di ri-umanizzarsi, soprattutto nei rapporti interpersonali, è perché lì risiede il punto debole della nostra epoca.
La vera, grande, solitudine del prete è ritrovarsi solo ed inascoltato nel predicare Cristo. Solitudine è non poter dire basta alla folla di lacrime che stanno alla porta e bussano perché dire basta, come scriveva don Primo Mazzolari, sarebbe dire basta a Cristo che viene e questo è impossibile. La solitudine del prete è trovarsi talvolta come in un deserto a parlare ad un mondo che non ti vuole ascoltare, o che ti ascolterà un’altra volta (come risposero a Paolo di Tarso i greci dell’Areopago di Atene). L’uomo moderno spesso va in ceca e spende le sue energie pe ciò che non lo porta a salvarsi.

La solitudine del prete è avere un tesoro in vasi di creta, condividerlo ed accorgersi che alle persone interessa più il vaso del tesoro. Questa è la solitudine del prete, non poter fare a meno di predicare Cristo, ma doverlo predicare come è, crocifisso. In un mondo che, da sempre, fugge le croci e spera di pagarsi in qualche modo una improbabile risurrezione. Intanto non c’è da temere. Ci sono giorni così, ma non sono tanti, perché, alla fine, il prete non è mai solo, c’è sempre un tabernacolo che lo aspetta per l’ora di ascolto e i cuori aperti di fratelli e sorelle disposti a sostenerlo anche nelle sue fragilità… 




Giancarlo Durante: l’ambiguo privilegio della solitudine

Prima del post devo fare una premessa, che ritengo doverosa. Per evitare una qualche contiguità (che non mi appartiene) con certo intellettualismo radical-chic, devo dire subito che il mio rapporto con i libri e le modalità di lettura, spesso, non appare lineare. Mi spiego! Non appartengo alla categoria dei macinatori di libri né sono di quelli che pubblicizzano sui social l’ultimo best-seller acquistato. È  vero mi ritrovo talvolta a leggere libri un po’ strani(?), bizzarri, tipo:treni strettamente sorvegliati, il quarto angolo, la passeggiata, saggio sul cercatore di funghi (che non è un trattato di micologia). Posseggo un discreto numero di scritti letterari, molti mai iniziati, altri letti a metà o mai terminati. Posso distrarmi e talvolta mi capita di ritornare a rileggere la stessa frase o, quando un racconto ha tanti protagonisti, non è raro che li confonda tra di loro. Per dirne una: quel capolavoro letterario che è ”L’ombra del vento” di Zafòn ho impiegato circa un anno per terminarlo (anche se letto insieme ad altri, più scorrevoli).
Fatta la precisazione, con animo più sgombro posso partire!

Quando ci si confronta con il tema della solitudine a me, che ho un po’ la fissa dell’etimologia delle parole, la prima cosa che viene in mente è quel che scrisse tempo fa uno dei maggiori interpreti dell’opera di Joyce :Enrico Terrinoni. La lingua inglese, lo sappiamo, a differenza della nostra, tende a semplificare i concetti: è misurata, non pleonastica, talvolta, addirittura essenziale. Però sul concetto di solitudine appare, forse, più ricca di sfumature dell’italiano.
In inglese isolamento può essere insulation oppure isolation. . . Il primo lemma identifica la condizione di rimanere da soli, di essere tagliati fuori-ovvero un isolamento nello spazio; il secondo ci parla di solitudine, dell’esser separati dalle altre persone-ovvero un isolamento sociale, dal risvolto umano. . . . L’esilio, però, è una insulation in space e una isolation in spirit, come ricordò alla Vigilia di Natale del 1849 in un famoso sermone sulla solitudine di Cristo il reverendo Frederick W. Robertson. Ma è anche una condizione filosofica, a volte adottata consapevolmente per riuscire a tornare in sé e a parlare di quanto ci circonda. Ed è per questo che, dice sempre Terrinoni, è possibile addirittura invertire il messaggio (la Meditazione XVII, declamata dal Decano della Cattedrale di St Paul, John Donne nel novembre del 1621), quando tuonò “no men is island (un vero inno alla comunità e allo stare insieme) mutabile e mutato in “every man is an island”, ciascuno di noi è un’isola. Un concetto che descrive bene la condizione dell’uomo moderno. L’idea stessa di isola, poi, implica quello di viaggio e, perciò, di movimento.

Ma, in antitesi, dico io, rimanda anche all’uso, alla funzione che per secoli è stata affidata alle isole come confino, come esilio, isole come carceri (basti pensare a Procida o ad alcune trasposizioni cinematografiche, in “Fuga da Alcatraz “ o in “Shutter Island”). Il termine “isola”, precisa Terrinoni, viene dal latino “insula”. In antico inglese ealand significava qualcosa come “ terra bagnata da un fiume”. La stessa radice latina del termine proverrebbe dal greco sà-los , ovvero mare, acque tumultuose. In qualche stadio della storia della lingua la radice sàl/sol iniziò a significare il suo opposto, soil, suolo. Abbiamo, dunque, una stessa radice alla base di due concetti distanti di terra e acqua, senza cui l’idea stessa, anche etimologicamente, di isola sarebbe impossibile. Un’ ambiguità, un’apparente antinomia, che riscontriamo anche in autori del calibro di Montale, che nel 1952, in un saggio, quasi introvabile, dal titolo “La solitudine dell’artista” rimarcava il rapporto tra comunicazione e isolamento comunicativo, in un’antitesi, mai risolta, tra un io “ empirico” , soggettivo, profondo, isolato e un io trascendentale, capace di comunicare, che si rilevava alla fine un alter ego idealizzato(da “Montale e la parola Riflessa” di C. Ott).
Certo, come qualcuno mi ha suggerito, si potrebbe parlare di come siamo necessariamente soli nello spazio, nel cosmo, nonostante gli infiniti mondi e gli infiniti universi. Altrimenti quante cacciate dall’eden dovremmo avere, quante arche di noè, quanti golgota e quanti milioni di san Gennaro? No, temo che nonostante la scienza ci suggerisca il contrario, se vogliamo tenerci la splendida storia di Gesù, dovremmo pensare che Iddio nella sua infinita saggezza all’Uomo abbia voluto regalare una dolorosa, e, in fin dei conti, fantastica unica esperienza.

Nel ringraziare chi mi ha dato l’occasione, l’opportunità di trascorrere un po’ di tempo libero con me stesso, esaurito l’armamentario delle citazioni dotte, rimessomi dalla trance “ letteraria“, (posso dirlo senza sembrare decadente?) mi sembra di provare un po’ di vergogna, se solo di striscio penso alla nostra condizione di uomini privilegiati (a vario titolo e a diversa intensità), di cittadini dell’occidente grasso e crasso, che ha il tempo di discettare sulla propria (inesistente?) solitudine. Perché, lo sappiamo in tanti! Al mondo ci sono uomini e donne e bambine e ragazzi reclusi in territori desertificati dalle guerre o dal clima o terrorizzati in carrette in mezzo a una minacciosa distesa di mare: un’umanità sopraffatta dalla propria miseria, che ha solo l’urgenza di sopravvivere, spesso nemmeno sorretta dagli strumenti per pensare, elaborare . Anche ignara di essere sola!




Francesco Accarino: la solitudine dell’avvocato

Caro Carlo, mi hai lanciato la domanda: l’avvocato è solo?
Ti ho anticipato qualche riflessione e ne aggiungo altre.
Nella vita professionale dell’avvocato, la solitudine non è abituale: costantemente circondati da interlocutori, con contatti e rapporti continui; specialmente in un contesto sociale come il nostro, sempre bellicoso e pretensivo. (Fortunatamente le spese iniziali per il giudizio e le condanne per la parte soccombente scoraggiano e consentono agli avvocati di dissuadere i disinvolti difensori di se stessi).
La solitudine può riguardare solo momenti particolari: le strategie, le scelte, le decisioni.
E questa è l’abitudine nella nostra specializzazione: si parla negli studi, fra avvocati, collaboratori; si consultano, all’esterno, colleghi stimati o che hanno trattato vicende simili.
Ma non è sempre stato così: ormai il dialogo, la comunicazione, il confronto, più raro alla fine degli anni 70, è divenuto abituale.
A quell’epoca gli avvocati amministrativisti erano pochissimi; poi un collega molto preparato ebbe l’idea di compattarci, di fissare appuntamenti costanti: una pizza per parlare di lavoro, di esperienze, novità legislative; partecipavano anche giovani collaboratori. Fu l’inizio di un dialogo, di un confronto costante e di sinergie professionali.
Il vero momento di solitudine rimane quello della discussione orale, di una conferenza, di un intervento in un congresso importante.
Lí rimani solo, perché tutto è legato alla tua prestazione, che vivi come può viverla un atleta di disciplina individuale: nell’arco della tua discussione, del tuo intervento, devi essere chiaro, sintetico, lucido, convincente e interattivo dal punto di vista logico e lessicale. Insomma è come gareggiare nei 100 m, tuffarti dal trampolino, fare una partita di tennis. Da solo, consapevole che devi sapere utilizzare le risorse che hai: argomentazioni giuridiche, ma anche logica espositiva, tecnica oratoria, suscitare e mantenere l’attenzione di chi ascolta e farti seguire. Insomma avvalerti degli elementi che possono essere spesi in favore del cliente, di quel che sostieni, della credibilità delle tue tesi.

E tornando alla condizione della solitudine, sia come stato d’animo, sia come condizione di fatto, vorrei aggiungere che può diventare un rifugio antitensione, una condizione desiderata: la possibilità di “leggere il breviario”, di seguire i pensieri, di guardare le cose da un’altra prospettiva, ascoltare il silenzio, parlare a se stessi.
La solitudine, oggi, viene indicata come un problema della socialità o di disconnessione: barriera di isolamento, incomunicabilità, affetti ignorati e abbandonati, mancanza di tempo e di disponibilità anche familiare. É vero; e tutti conosciamo situazioni estreme.
Gli anni che passano mi hanno insegnato che se vuoi rendere più semplici i rapporti tra persone, devi parlare, esprimerti, rivelarti. Sostanzialmente contravvenire a quelle che mi è stato insegnato in famiglia, secondo cui non bisogna chiedere, ma bisogna essere chiamati.
L’esperienza suggerisce che non è così. Anche un passo del Vangelo (Matteo 7:7-11 NR94) dice: «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi bussa.”
Proviamo a contrastare la solitudine patologica con un pizzico di umanità, di lealtà, di confessione, di umiltà e verità. E diciamo chiaramente: sono solo, vuoi farmi compagnia? Vuoi darmi una mano? L’interlocutore capirà e le mani si uniranno.

L’Avvocato a molla
(poesia di Gianni Rodari)
Conosco un avvocato.
Un avvocato a molla.
Nessuno può notarlo
quando va tra la folla:
In tram, seduto o a piedi
la molla non la vedi.
Eccolo in tribunale:
somiglia tale e quale a cento altri avvocati
col codice penale
dentro la borsa nera.
La Corte è assai severa,
guai se si sapesse,
se la molla apparisse,
se scattasse.
Ma finito il processo
e assolto l’imputato
(oppure condannato)
rincasa l’avvocato
e non è più lo stesso.
La sua bimba lo sa
dove la molla sta: hop la’,
l’avvocato fa un salto,
poi ne fa un altro,
un terzo ne fa.
E la gente che passa
ridere sente
così allegramente
pensa: quella è
la casa della felicita




Matteo Fasano: il filtro della solitudine

Scrivere sulla solitudine. Il mio primo pensiero è andato al libro e al film che hanno avuto negli scorsi anni un discreto successo: La solitudine dei numeri primi, cioè quei numeri che rimandano alla solitudine, perché numeri divisibili solo per se stessi e per uno e quindi non hanno relazioni con altri se non con se stessi e con il niente.

Devo ammettere che anche io a volte sono stato quasi ripreso di essere abbastanza solitario, nonostante avessi una vita lavorativa estremamente sociale in quanto, per la mia funzione, ero spesso a contatto con tantissima gente.
C’è forse un fondo di verità: non sono mai stato molto aperto, anche se molto disponibile alle esigenze altrui, ma sono partecipe a quanto affermava la grande Alda Merini nella celebre frase “Io non ho mai amato la solitudine. Ma se stare insieme alle persone significa convivere con la falsità, preferisco starmene per conto mio.”

L’ asserzione della poetessa milanese racchiude un profondo significato, che è ancora attuale oggi. La solitudine è vista spesso come una condizione negativa, qualcosa da evitare a tutti i costi. Tuttavia, non è necessariamente qualcosa di negativo. Anzi, può essere una scelta consapevole, che ci permette di stare bene con noi stessi e con i nostri pensieri, con il nostro modus vivendi.
E’ un “isolamento” scelto e non costretto, che non significa necessariamente restare soli, fuori dal mondo e dalla vita sociale . A volte si  sceglie e si ha il bisogno di essere soli per accompagnarsi alle cose e alle persone più vere, più sincere.
La solitudine scelta può essere un momento di riflessione e di connessione con se stessi, permettendo di dedicare del tempo alle proprie passioni, interessi e valori senza distrazioni e le influenze esterne. Restiamo più focalizzati sulle persone che condividono i nostri valori e le nostre aspirazioni.
Non sto parlando di un isolamento totale. Sarebbe poco ragionevole in una società come la nostra che con la globalizzazione  ci mette costantemente con i social media in contatto con tutti e con tutto il mondo.
Siamo solo piu’ selettivi , cerchiamo le persone con cui ci si vuole circondare, scegliendo ciò che è più significativo per noi.
Non voglio addentrarmi nella questione della solitudine dei social, complessa e controversa. Mi colpisce soprattutto il fatto che l’offerta di illusione di connessione, comparazione e interazione sociale, possono contribuire anche ad una lontananza dalla realtà che porta a volte ad eventi anche crudeli.
Voglio invece riprendere quanto scritto dalla Merini riguardo alla falsità .

E per falsità qui si intenda quell’atteggiamento tanto amato dalla politica.

da tuttosucava.it

Qui la solitudine può essere preferibile perché ci permette di evitare l’influenza di informazioni false e di prendere decisioni basate su fatti accurati e valori personali. La solitudine, in questo caso, può permettere una riflessione indipendente e una valutazione critica delle informazioni politiche, senza essere influenzati da tentativi di manipolazione, oggi tanto di moda.
Questo “defilarsi” non deve significare l’isolamento completo dalle questioni politiche. Anzi, è fondamentale rimanere informati, confrontare diverse fonti per sviluppare una visione completa e imparziale della realtà politica. E un coinvolgimento anche attivo nella società e nella politica, a partire dalla propria città, può promuovere un cambiamento positivo e contrastare le ipocrisie.

 E a proposito, se qualcuno pensa che abbia scritto queste ultime battute per una mia candidatura per le  prossime elezioni cittadine, ha commesso un errore… e anche grosso…




Antonio Bisogno: solitudine bifronte

Bisogna distinguere tra le tante solitudini vissute dagli uomini due macro aree: la solitudine patita e quella cercata. Con i tanti anni che mi pesano sulle spalle posso vantarmi di averle provate e sperimentate un po’ tutte e fin da quando cominciavo ad affacciarmi alla vita. A 10 anni ero un ragazzo vivace, allegro, curioso ma l’esperienza vissuta in collegio dai 10 ai 14 anni mi rese un’altra persona. Mi ammalai di nostalgia e malinconia, piangevo la casa e la città che mi erano state strappate, pativo gli sberleffi e le punzecchiature di quelli che vivevano a proprio agio la vita in collegio. Furono anni neri che spensero gradatamente le mie curiosità, i miei sogni, mi forzarono a vivere nel passato, nei ricordi, negli affetti perduti. Stavo male ma quello era il mondo in cui mi rifugiavo nonostante mi procurasse tristezza, vuoti allo stomaco che rimandavano al vuoto creatosi nella mia vita. Gli anni vissuti a questa maniera trasformarono il ragazzo scavezzacollo, gioioso ed espansivo che era stato sino ad allora in uno triste, chiuso al limite dell’introversione, timido e con poca o nessuna autostima.

A completare questo quadro dalle fosche tinte ci fu dopo il collegio la migrazione al seguito della famiglia nella Milano nebbiosa e razzista degli anni 60.
Immaginate come dovesse sentirsi quel ragazzo quando l’insegnante sentendolo parlare chiedeva alla classe di tradurre quello che diceva con il suo accento incomprensibile. Una solitudine di tal fatta, in una città fredda e inospitale era penosa e intollerabile, una solitudine a cui si era costretti e che non era stata cercata. Ciò nonostante anche in un terreno sterile e brullo come quello attecchirono sentimenti e modi di essere che forse non sarebbero venuti a galla: modestia e non arroganza, profondità e non superficialità, empatia per i deboli e gli umili e non protervia e sbruffonaggine. Con il passare del tempo finì con il perdonarsi quegli anni trascorsi in solitudine, perdonò sua madre che credeva di fare il suo bene facendolo studiare in collegio o trasferendolo in una città che prometteva tanto ma nella quale la traccia del primo tema in classe recitava, e non l’ho mai dimenticato:  Reminiscenza di un viaggio in Russia.
Erano famiglie quelle che viaggiavano in Europa e non solo mentre il mio primo e unico viaggio era stato quello verso Milano con la classica valigia di cartone.

Naturalmente altro discorso quando da adulto ho vissuto la solitudine come scelta, per distaccarmi dal volgo profano come dice il poeta, per salvaguardare la mia psiche e tenermi lontano dal chiacchiericcio fine a se stesso, dai discorsi inconcludenti, dalle piazze mosse e agitate da pulsioni e istinti non controllati e non sorretti dalla ragione. Per distaccarsi dal superfluo  ed attenersi all’essenziale.
Ed è così che anche nella scrittura mi piace scrivere in forma semplice, badando al sodo e tenendomi lontano dal luccichio delle frasi colorite, anche belle ma che dicono ciò che si può riassumere con una sola parola. Questa solitudine ti aiuta a riflettere, andare in profondità e individuare tra il profluvio di notizie e parole in libertà che caratterizzano i nostri tempi, quelle che sono chiare e a te necessarie. Questa solitudine ti gratifica del dono prezioso dell’ascolto che ti permette di capire ed essere in connessione con l’altro. E nel mondo di oggi caratterizzato dall’horror vacui che ti sollecita a riempire spazi e luoghi di chiacchiere, musica e vociare, questa è una grande salvezza.




Fabrizio Di Baldo: Il sentiero Buddhista della solitudine

Dalla Finlandia scrive Fabrizio

Sono giunto a un’età matura, qualora esista mai un’età in cui un uomo o una donna diventino maturi,  un’età in cui il passato si collega al presente e il futuro si svela come un sentiero da percorrere. Come recente appassionato della filosofia buddhista, la mia percezione della solitudine e  del sentirsi soli è molto cambiata.

La solitudine è diventata un regalo, un’opportunità per ritrovare la propria essenza. È l’occasione di allontanarsi dal frastuono esterno, immergendosi nella quiete della propria mente. la solitudine può portare alla consapevolezza profonda e, a quello che è l’obiettivo di un buddista, all’illuminazione interiore che per me rappresenta il capire il senso della vita

Il sentirsi soli diventa quindi una sfida che si scontra con la comprensione fondamentale dell’interconnessione ovvero che tutte le forme di vita sono interdipendenti, e il sentimento di solitudine è il risultato del non riconoscere questa connessione universale. Il sentirsi soli è una chiamata a rafforzare i legami con gli altri, con il mondo che ci circonda e con le persone che si amano.

Dal mio percorso personale ho imparato che la la riflessione è uno strumento potente per affrontare la solitudine. La quiete interiore mi ha permesso di abbracciare la solitudine come un alleato anziché come un avversario. La consapevolezza di sé e la comprensione della natura transitoria delle emozioni hanno reso la solitudine un compagno di viaggio sostanzialmente piacevole.

Tuttavia, il sentirsi soli richiede ovviamente un diverso approccio. Nel Buddhismo, la compassione, che non è provare pietà, ma tentare di immedesimarsi nell’altro, è fondamentale. Quando ci si sente soli, è un invito a estendere la compassione verso se stessi e gli altri. La pratica della gentilezza amorevole diventa una risposta autentica al sentirsi soli, poiché riconosce il legame universale che condividiamo con ogni essere.

Se voglio dare un senso a questa mia nuova visione della vita posso dire che il mio personale approccio al buddhismo  mi ha insegnato che la solitudine può essere un sentiero verso la scoperta interiore, un modo di conoscere me stesso imparando quello che voglio e quello che non voglio essere.




Enzo Senatore: La solitudine, senza isolamento, del magistrato

La solitudine è la naturale condizione del magistrato ( giudice o pubblico ministero che sia)…..Se è indubitabile che ogni decisione sia generalmente preceduta dal confronto con altre opinioni ( espresse nella udienza, in una riunione operativa, in una camera di consiglio), il momento della elaborazione mentale della determinazione da assumere e quello della stesura dell’atto e quello, ancor conseguente, della definitiva assunzione della responsabilita’ con l’apposizione della firma avvengono in assoluta solitudine…..

E, tuttavia, la solitudine costituisce anche una insidia per il magistrato che- qualora arroccato nella sua torre eburnea- difficilmente potrebbe sottrarsi alla romanistica definizione : “summum ius, summa iniuria “….Ed allora, la vita del magistrato si dipana nella perenne ed ardua ricerca del punto di equilibrio fra solitudine- quale necessaria precondizione per schivare condizionamenti e compromissioni al fine di apparire ed essere imparziale- ed incontro con il mondo per evitare l’isolamento, affinché la decisione risulti tecnicamente corretta, ma, anche, equa e ragionevole,  dunque calata nella realtà circostante,  comprensibile ai più ed attenta alla umana condizione. 




Mariano, Ainis, il Portico delle Idee

Si è vero. Mi sono un po’ intrippato sulla solitudine. Ma non è tutto merito(?) mio:  il vagabondare dei miei pensieri giornalieri finisce per condurmi molto spesso  verso i miei amici; a quelli,  che per mia fortuna ancora mi accompagnano nella vita, posso telefonare, inviare un messaggio; oppure posso  invitarli a prendere un caffé, parlare con loro delle nostre idee e dei nostri stati d’animo. Ma quando nella mia mente incontro quelli che ci hanno lasciato, non posso far altro che rifugiarmi sul ricordo dei loro sorrisi, delle loro parole, delle magnifiche ore trascorse con loro, delle emozioni che ci hanno tenuti insieme; così una decina di giorni fa  pensando a Mariano e alle nostre chiacchiere sulla lettura e sulla scrittura sono andato a rileggere il suo post sul portico delle idee

https://files.spazioweb.it/1c/db/1cdb8dd3-a3c6-49e4-aec1-172a1b7ec443.pdf

Ed ho ripreso in mano il libro di cui parla e da lì  l’idea di avventurarmi in questa richiesta di parlare della solitudine. Se fosse ancora con noi avrei chiesto il suo parere a riguardo; mi avrebbe detto come sempre sì, ma dal suo modo di modularlo avrei capito se fosse stato veramente d’accordo. Invece ho dovuto decidere da solo! Ecco scrivo questo per invitarti a leggere sia il post di Mariano sia  il libro di Michele Ainis

Se vuoi dare un’occhiata prima di acquistarlo puoi vedere qui

https://nuvola.porticando.eu/s/9k5ParY8nJFqyQS