Anna Maria Morgera: l’urlo silenzioso della solitudine

Difficile definire la solitudine perché ha mille sfaccettature, si è spesso soli pur stando in mezzo alla gente e avendo intorno amici e famiglia. La solitudine è una condizione interiore esclusiva che non si vede, la sente solo chi la vive. La più brutta solitudine è perdere le motivazioni che mantengono viva la vita. Provai la più profonda solitudine dinanzi a mio padre agonizzante. L’impotenza rende soli. Solitudine non è essere soli. A me piace stare da sola sulle terrazze affacciate sulla baia della Calanca a Marina di Camerota, oppure seduta presso la torre delle Viole a contemplare il mare. Amo il silenzio delle spiagge e dei sentieri vuoti d’inverno, amo la quiete della città di notte. La solitudine è buio dell’anima e il buio spaventa perché nasconde mille incognite.   È quella del bambino che piange quella che erroneamente identifichiamo come sindrome dell’abbandono. Questa sindrome, benché non si voglia ammettere, ci accompagna tuta la vita. La solitudine è la paura di essere soli, sembra un gioco di parole, la realtà è che qualcosa si rompe dentro e siamo sopraffatti dallo smarrimento. Solitudine non è per esempio paura della morte, è la paura della sofferenza, è ritrovarsi in una dimensione ribaltata rispetto alla perdita di una persona cara e ad ogni altra dimensione. La solitudine rassomiglia a qualcosa che cade rompendosi. Quando qualcosa cade per terra si sente il rumore, a volte è fragoroso.  Ma quando si spezza dentro accade in assoluto silenzio. Io, però, nella mia solitudine ho sempre voluto che questa fosse evidente, che altri ascoltassero, che fosse almeno come un lieve suono di campana, invece era silenziosa, quel rumore c’era, esisteva era interno, ed era un urlo che nessuno all’infuori di me poteva sentire. Un boato così forte che le orecchie rintronavano e la testa faceva male. Si dimenava nel petto; ruggiva come la mamma orsa a cui è stato rapito il cucciolo. Era un’enorme bestia intrappolata che si agitava, presa dal panico e gridava come un prigioniero davanti ai propri sentimenti. La solitudine è così nessuno ne è indenne. È selvaggia, infiammata come una ferita aperta, esposta all’acqua salata del mare, spezza il cuore…. E non fa rumore.

La solitudine! Ore trascorse a pensare e a rivivere i nostri gesti, le parole, la gioia, fa male questo dolore che non se ne va mai. Mi sono sentita spesso sola, come un’intrusa nella mia stessa anima. Penso spesso che la Terra possa sentirsi molto sola in questa parte dell’universo, perché non c’è nessuno come lei, almeno nelle vicinanze. Nella solitudine io mi sento così, come la Terra.  Quanti fulmini, quanta indifferenza!

Da ragazza sognavo ad occhi aperti che, come da un mondo parallelo, qualcuno mi combaciasse e venisse a salvarmi. Sognavo ancora seduta sulla mia panchina in riva al mare Ma non si sedeva mai nessuno accanto a me, su quella panchina. Ecco perché la ricordo.   Una estate, una sera qualunque. Non so dire se ci fosse già prima che mi sedessi, ma c’era là, accanto a me, su quella solita panchina, non parlava, dondolava i piedi ed era a testa bassa: una bambina. Ogni tanto le davo un’occhiata, era tutta sola. Volevo sorridere come faceva lei o rendermi innocente come la sua immagine. Perché non aveva paura della strada deserta? Provavo a parlarle, ma non ci riuscivo, sentivo di sforzarmi e mi veniva da piangere. La osservavo con gli occhi lucidi e abbassavo lo sguardo sui miei piedi fermi. Chiunque ci avesse guardato, avrebbe capito la differenza tra l’essere bambino e il diventare adulto, tra la spensieratezza e il peso del mondo sui pensieri. Non è passato molto tempo da quella sera, da quella volta che mi sentivo un nodo soffocante in gola. Pochi anni. Nel frattempo sono corsa via dalla mia realtà, ho lasciato tutto ciò che credevo mi rallentasse o mi creasse costrizione. Pensavo fosse un sollievo cambiar vita, pensavo fosse possibile non sentirmi più sola. Ma sono sempre sola, lo sono davvero, sola con il corpo e con il cuore, è come non avere più nulla nemmeno il passato. La mia casa è laggiù sul mare. Da qui, dal mio “dentro” non si vedono nemmeno le stelle. È come avere sempre un cappello in testa e un collare lungo il collo, non puoi alzare il capo e non vedi altro che il solito colore e anche se qui piove sempre, non ci sono i miei fulmini sul mare, nessun ruggito del cielo, se non la mia voce che pare così debole sul manto della gente … Il tempo vola, incontrollabile, indifferente, mi sfugge e mi svuota, allontanandomi da quella che ero e dai sogni di ciò che avrei voluto essere. Perdo il senso delle mie passioni, pensando di raggiungerle, le ho abbandonate. Vorrei dipingere il sorriso di mia madre sulle pareti. Vorrei, se proprio devo piangere, tornar sulla mia bianca panchina. Vorrei tornar bambina … 

Che fai?”, le ho chiesto in sogno questa notte. La bambina che avevo incontrato quell’estate continuava a dondolare con le gambine e a sorridere. Non avevo il nodo in gola.
Perché sei tutta sola? –  Lei mi guarda ancora.
Non sono sola. – risponde. –
Rimango stupita, e lei ride: – Ci sei tu …
Davvero ti faccio compagnia? –  le chiedo rincuorata. Lei fa cenno di sì con la testa. –
Perché muovi sempre le tue gambe, non ti stanchi mai? –
La bimba si avvicina, sembra volermi sussurrare un segreto:
Tolgo la sabbia dai piedi … – mi dice. –

 Io l’abbraccio forte forte. Questo ho capito, questo faccio: abbraccio la mia infanzia, poiché crescere ci rende soli … la spensieratezza e l’innocenza dei sogni bianchi, questo perdura nei nostri occhi e solo così potrò avventurarmi senza spegnermi.  







La solitudine per F.D.L.

Solitudine
Non è l’esser solo
ma il sentirsi solo
in mezzo alla gente
E’ cercare occhi
che ti sappiano vedere
E’ cercare mani
che ti sappiano afferrare
E’ cercare orecchie
che sappiano ascoltare
il tuo gridare muto
a tutto l’universo
per invocare aiuto
E’ cercare un cuore
che ti voglia amare
così come sei
e non ti lasci andare

Città vuota
It’s a Lonely Town



Solitudine: sabato 17 febbraio chiudiamo con un caffè.

Incontro nei locali di Mademoiselle Charlotte in piazza con chi ha scritto o sta scrivendo, ma anche con chi segue questo blog. Vi aspetto!
Nel frattempo vi propongo questo raccontino che forse avrete già letto da qualche parte sui social o altrove:
Ieri ho incontrato un amico che mi ha detto:
“Mi sentivo solo e tutti mi parlavano dei loro numerosissimi amici su facebook; ma io non posseggo uno pc, né uno smartphone e così mi sono informato e ho deciso di farmi degli amici seguendo i principi di FB, ma senza usarlo.
Allora tutti i giorni scendo in piazza e spiego ai passanti… che cosa ho mangiato, come mi sento, cosa ho fatto la sera prima, quello che penso di fare, quello che farò domani, mostro le foto di mia moglie, dei miei figli e anche quelle del cane. Mi fermo in piazza e ascolto le conversazioni delle  gente e dico “mi piace”….
Ero scettico, ma sta funzionando! Ho già cinque persone che mi seguono:
-2 poliziotti
-1 psichiatra
-1 psicologo
-1 infermiere




Foto-solitudine

Da qualche tempo Renato ha ripreso a fotografare con una maggiore simbiosi fra gli occhi della sua mente e l’obiettivo della sua reflex. La timidezza che traspariva dalle sue pur pulitissime e folgoranti vecchie foto si è trasformata ora in potente forza espressiva; i suoi scatti sono diventati più profondi e prenetranti e allo stesso tempo, o forse proprio per questo, più silenziosi ed essenziali; mentre guardo le sue immagini il mio tempo interiore sembra rallentare la sua corsa, forse perché non ci sono rumori da cui fuggire.

Giacché stiamo parlando, ancora per qualche giorno, di solitudine ho pensato di fare qui questo gioco: aggiungere a qualche foto del mio amico titoli che ad essa ammiccano più o meno palesemente.

Il tunnel della tecnosolitudine moderna
La tranquillità della solitudine
Solitudine: una porta chiusa
Il pericolo della solitudine
La tentazione della solitudine

La solitudine nelle dita

Il desiderio ed il timore della solitudine

P.S. Sarebbe bello un tuo commento a queste foto




Antonio Polichetti: solitudine…un’isola da esplorare

Alle volte, mi capita di sognare di avere vent’anni. Vent’anni, ma con la testa che mi ritrovo ora che ho superato i quaranta. E così, immagino di sapere illusoriamente tutto ciò che dovrei fare ritrovandomi con molto più tempo davanti. Poi, mi sembra di capire perché questo pensiero sia irrealizzabile. Perché una persona che riuscisse in questo proposito potrebbe soltanto essere un semidio o un mostro. Perché una vita senza difficoltà, senza la sfida dell’errore, del sentirsi incompleti in qualità di esseri finiti, senza la gara contro il tempo che scorre, non sarebbe vera vita. Per la via incerta di questo pensiero, che è quasi un sentimento, mi ritrovo spesso raccolto in solitudine con il mio tempo, come se fossi di fronte ad uno specchio cosmico. Ed è lì che posso assumere le sembianze più svariate. Sembra dipendere tutto da me, ma, al contrario, è una lotta contro qualcosa e, alle volte, contro ogni cosa, corpo a corpo, ogni giorno. 

Che sia un sentire, alle volte soltanto bello o brutto a seconda del caso, o che sia, forse in senso più ampio, una condizione dell’animo umano, vivo la solitudine come qualcosa che, fino a un certo punto, dipende da me.

Mi sento come un marinaio di fronte al mare calmo, ma di una calma che può rapidamente svanire: mare agitato e tempesta sono in agguato. E so pure che tanti sono finiti naufraghi a schiantarsi sulle alte coste della solitudine, dal bianco d’ossa. 
Cerco di navigare, dunque, con prudenza cercando di diventare amico degli dei del vento e del mare. 

Perché lo sento che la solitudine può essere un gran male, se diventa isolamento e vita inautentica. Se diventa una bolla di indifferenza in cui nascondersi e guardare il mondo dalle finestre social mentre ogni notizia, anche la più terribile, scorre nel flusso. E odio l’indifferenza e odio anche la solitudine, se diventa chiusura, barriera tra se stessi e gli altri, per paura di soffrire, per vergogna dei propri sentimenti – anche per una strana difficoltà che si può incontrare nell’elaborarli – o per innata timidezza. 
Guardare una persona negli occhi è tra le cose più interessanti che possano capitare perché gli occhi dicono sempre qualcosa che le parole non possono dire. So anche che può suonare come l’ennesima tirata moralistica, ma in tempi in cui gli schermi delle scatolette digitali occupano molto spazio e tempo, una seppur timida ricerca degli occhi fa parte del calore delle mie giornate. Staccare dal telefono è diventato difficile per tutti e, anche per questo motivo, può capitare che le giornate passino senza lasciare abbastanza segni in profondità. E già, di per sé, non è mai facile stabilire connessioni veramente intime con l’altro. Ma si tratta di momenti preziosi nella vita. Ed è fortunato chi non si fa scoraggiare dagli ostacoli di ogni giorno, chi ci prova sempre riuscendo a creare scintille di spirito, chi non smette di sfregare pietre tenendo viva l’attesa del grande fuoco contro tutto il freddo intorno. 

Solitudine e isolamento tendono a somigliarsi spesso anche per via del politicamente corretto che imperversa sui social. È diventato più difficile incontrare l’altro perché la libertà di espressione viene significativamente limitata: diffidenza e paura di offendere o essere offesi fanno molta ombra. I musi lunghi e un perbenismo, sempre più affettato e ai limiti della paranoia, rendono tutto più freddo e triste.
La solitudine, però, può anche essere un momento bello di vita, se riesce a far parte di un processo di liberazione – anche attraverso scelte scomode o comunque difficili – dalla heideggeriana vita inautentica, dalla vita dei “si dice” e dei “si conviene”, dalla vita delle opportunità e degli opportunismi. In tal caso, meglio soli che male accompagnati, come dice l’antico adagio.

La solitudine può aiutare a cercare se stessi, a sentire la propria voce. Per la via di questa ricerca, si può trovare il modo di esprimersi meglio e si può raggiungere una maggiore armonia con gli altri. E amo la solitudine, se mi mette nelle condizioni di ricercare il mio io interiore e di interrogarmi sul senso di questo stare al mondo, sul senso di questa vita – questa “isola in un Oceano di solitudine”, come scrisse il poeta Khalil Gibran. La amo quando mi aiuta a cercarne dei segni e a trovare il modo di lasciarne almeno uno. 




Ermeneziano Lambiase: Melosolitudine

Ogni melomane è convinto di essere Il Melomane: ha le sue opere preferite, colleziona le incisioni di riferimento (meglio se in vinile), conosce gli allestimenti che hanno fatto la storia della lirica, tifa per questo o quel cantante, conosce “i tempi” dei grandi direttori e le “tradizioni”, odiadora il divismo delle dive, si incanta ad ascoltare i racconti dei vecchi cantanti perché è un po’ come fare
un viaggio nel tempo. Ma più di ogni altra cosa, ogni buon melomane compie un processo di appropriazione di brani (a volte anche solo semplici e brevi passi) delle opere, li fa propri, quasi si convince che l’autore li abbia scritti proprio per lui, e ci costruisce sopra immagini, storie, sentimenti.
Personalmente associo il «Mimì» urlato alla fine di Bohème al Dolore straziante. “Quando ero paggio del duca di Norfolk” è per me la Leggerezza (e l’effetto umoristico-paradossale è dirompente, visto che una musica tutta giocata su pizzicati degli archi e orchestrata con sonorità diafane dei legni, il genio di Verdi la mette in bocca al pingue Falstaff). La quinta essenza dell’Amore è il duetto del finale I atto di Otello (ancora Verdi). Spensieratezza e Gioia di vivere li ritrovo nella cavatina di Figaro del Barbiere di Rossini. La Bellezza in qualsiasi melodia scritta da Bellini.

E così via, procedendo alla costruzione di un privato vocabolario sentimentale.
E la Solitudine? Credo di aver ascoltato per la prima volta Manon Lescaut da bambino quando mio padre, melomane pure lui, passava le domeniche a sentire opere (io avevo il delicato compito di cambiare la facciata del disco), e l’aria cantata dalla protagonista nel IV atto, “Sola, perduta, abbandonata”, mi ha sin da subito comunicato il senso della Solitudine.
Non mi sono mai interrogato circa il motivo di queste associazioni, è qualcosa di istintivo, di pancia, è così e basta. Quando però Carlo mi ha invitato a scrivere qualcosa sull’argomento, ho iniziato a chiedermi “perché?”, o meglio “cosa?”. Cosa mi induce ad associare questa o quella musica a quel particolare sentimento?
Riflettendo sulla Solitudine e l’aria di Manon, al di là della facile suggestione del libretto che recita “Sola, perduta, abbandonata” (ricordiamo che nell’opera sovente il testo è solo un pre-testo per scriverci sopra la musica), posso dire che ciò che ha colpito maggiormente la mia fantasia è il particolare uso che Puccini fa di uno strumento: il flauto. Da grande uomo di teatro quale fu, il musicista colloca un flauto nelle quinte del palcoscenico.

Non era certo un artificio nuovo quello di posizionare musicisti sopra (o dietro) al palco. Ma ci trovavamo di fronte alla cosiddetta musica di scena o musica in scena, categorie ben note a tutti gli operisti. Nel caso di Manon Lescaut avviene qualcosa di diverso. Le frasi del flauto non hanno alcuna relazione diretta con l’azione scenica come accade nelle categorie citate (per intenderci, non si tratta di musica o suoni che verrebbero uditi anche dai protagonisti del dramma). La relazione avviene invece a livello narrativo e drammaturgico. Perciò non musica di scena né musica in scena, bensì musica sulla scena. Con ogni probabilità Puccini è stato fra i primi grandi operisti a capire l’importanza della spazialità del suono (pochi anni dopo avrebbe lasciato meticolose indicazioni sul posizionamento delle campane del mattutino di Tosca).

La voce del flauto che ci parla dalle quinte ci restituisce quel malinconico senso dell’altrove che i francesi chiamano ailleurs, e che non avrebbe avuto se invece il suono fosse arrivato dalla fossa orchestrale. L’effetto è straniante, il timbro si fa spettrale, a evidenziare una distanza che è non solo fisica, ma soprattutto emozionale.
Insomma quel flauto posto lì, isolato dal resto del golfo mistico, segna il passato e il presente di Manon, è ricordo e consapevolezza di un destino che sta per compiersi. Quel flauto rappresenta, almeno nel mio vocabolario sentimentale (e magari anche in quello di Puccini), il manto di solitudine che lento e inesorabile avvolge Manon morente.




Elisabetta Di Marino: Un’affollata solitudine

Non c’ è solo una solitudine “fisica” ma anche la solitudine che si prova circondati dagli altri, nella propria famiglia, nella cerchia dei propri amici, nell’ ambiente di lavoro; è quella della non-comunicazione e della incomprensione. È una condizione pesante e frustrante che alla fine logora quanto la “vera” solitudine anche se non ne ha il silenzio/silenzio, l’assenza di affetti, l’isolamento. Apparentemente.
L’amore, l’affetto anche quello ancestrale e biologico, quello naturale tra madre e figlio, quello inestirpabile, anche esso vive di comunicazione, di condivisione, di complicità, di compatibilità. Senza queste modalità il rapporto diventa sofferto e monco. Come si arriva ad una tale situazione? Cosa può provocare questo senso di solitudine tra una folla di presenze?

Se escludiamo una condizione puramente soggettiva, di disagio comunicativo ai confini con qualche psicopatologia, i motivi possono essere diversi. Ci sono elementi “divisivi” che scavano fossati tra gli esseri umani e questi possono concretizzarsi in passioni, gusti, sensibilità, visione del mondo, conoscenza, maturità, esperienze diverse. Tutto questo erge steccati. La condanna al silenzio è il prezzo che si paga al mondo degli affetti per la propria diversità. E dunque questa solitudine è un fardello che non genera empatia, che non produce il balsamo della comprensione. Al contrario ti circonda di insofferenza e rifiuto.

In una recente visita dal mio endocrinologo, scambiandoci notizie e considerazioni sugli ultimi aggiornamenti scientifici sul ruolo delle disbiosi in una serie di affezioni che coinvolgono l’ asse intestino/cervello, il dottore ha osservato: “Ma lei che conosce tanto su questi argomenti, non è molto isolata?
L’ ho guardato, assentendo con un senso di grande amarezza: “Certo, dottore!
E lui ha continuato: “Eh, immagino, spesso, al di fuori dell’ ambito professionale, l’ isolamento me lo vivo io che sono medico, figuriamoci lei che non lo è“. Appunto. Ma questo è solo un esempio. Come fare, allora? Allenarsi a separare affetto e comunicazione, amore e condivisione. Comunicare solo con le persone (ci sono, sì, per fortuna) con le quali si con-divide. Imparare ad amare nonostante la solitudine.

Per Voltaire la più felice di tutte le vite è quella di una solitudine affollata. Vediamola così. Occasione di crescita interiore, ridimensionamento del proprio io, accettazione della impossibilità di comunicare, esercizio di amore incondizionato per l’ altro.




Alberto Barone: solitudine di massa

Caro Carlo altri temi suggeriti da te non hanno riscosso lo stesso interesse. Qui invece si è formata una coda: tutti in fila per scrivere della solitudine, i più della propria come se non ce ne fosse di peggiori, oppure per esorcizzarla, testimoniare una condizione che non ci appartiene, per dire che ne siamo immuni, protetti, o nascosti da una autocondizione di sicurezza che ci rende intoccabili.

Illusi: la solitudine è sempre in agguato; si fortifica con molti alleati fidati, che non la tradiscono, a cominciare dall’interesse, forma predatoria che quando si abbatte non fa prigionieri e distrugge ogni possibile legame, ben celata dietro maschere accattivanti, addobbate con principi etici falsi quanto banali. Di fronte all’interesse che si impone non c’è difesa, c’è sempre qualcuno o qualcosa che ‘vale’ più di te, degli affetti che hai riversato, delle cure, delle tensioni emotive, degli sforzi per realizzare una relazione in grado di metterti al riparo. E poi accade, non te ne accorgi e ti giunge di fronte, senza preavviso, resti solo e solo il fallimento ti fa compagnia.
Ma chi è veramente solo: chi ha dato o chi ha preso? E a Londra, in quel triste appartamento dov’è la solitudine: in quelle mura o nel clamore urbano di una città che non sa proteggere un bambino di due anni?

Lì, in due stanze si consuma la tragedia: il padre è colpito da infarto ed il bambino che è con lui – ha solo due anni – lo segue tra gli stenti di una morte non improvvisa ma lenta; il ritrovamento avverrà,  ma dopo giorni, sempre troppo tardi, tranne che per il cane: sopravvive per gridare che il dramma della solitudine è lì fuori, ed avvolge quanti non sanno salvare i naufraghi di tante Cutro e la bambina morta nel deserto, vicina a sua madre. Ormai la solitudine non è più del singolo, per favore non mi si parli della solitudine del capo, siamo seri, quella è arroganza del potere. La solitudine ha contagiato, si è estesa, è un ‘UNO’ collettivo che raccoglie un sentimento sociale e non riesce a trattenerlo. C’è una condizione esistenziale specchiata negli occhi terrorizzati di un cane a dire tutto questo.




Angela Pellegrino: La vera solitudine non è stare da sola

Siamo egoisti e narcisisti quando parliamo della nostra solitudine, secondo me.
Io, per esempio, spesso la cerco, certo mi piace, anzi mi è necessario stare da sola, ma quella non è vera solitudine.
Io la cerco e me la godo, nel senso che faccio ciò che voglio, se lo voglio e quando lo voglio, mangio se ne ho voglia, vado in giro per musei, parchi, strade, negozi ecc, mi godo la gente, la città, la folla. Quando sei da sola stai in silenzio, quindi inevitabilmente ciò che gli altri dicono, tu lo senti, e così conosci meglio un popolo, una città, anche ascoltando i discorsi in un ristorante, in un bus, in un museo, per strada.
Io amo molto stare con amici, ma – soprattutto con alcuni – poi ho bisogno di ristorarmi la mente stando da sola, rilassandomi.
Ma il mio ‘essere sola’ non è la vera solitudine: io mi parlo e mi rispondo, mi ascolto e rifletto, prendo tempo prima di decidere qualcosa . . . piuttosto é un essere libera.

Il VERO ESSERE SOLI è quello che ti piomba addosso sotto forma di un missile che improvvisamente ti distrugge la casa e le tue cose e tutta la famiglia in cui vivevi, di tuo padre che sgozza tua madre e quindi, giustamente, va in galera, di un gommone da cui cadete urlando tutti e tu perdi la mamma che prima ti teneva abbracciato stretto, di bombardamenti continui che non ti danno mai più la pace, di avere tanta fame e sete e dover imparare a fare da solo, e magari hai pochi anni . . . e nessuno ti aiuta . . . e vedi i grandi correre, e allora ti metti a correre pure tu ma non sai dove stai andando . . . Poi magari c’è anche qualcuno che ti prende in braccio, ti dà da mangiare, ti cura, ma la tua mamma . . . le tue radici . . . tu stesso . . .