La terra è un’immane produzione di amore e di merci.

(dal mio Gocce Sognanti)

Non so se qualcuno conosce i romanzi e i film di Nicholas Sparks: storie intense d’amori più o meno difficili, buone ambientazioni e sereni finali.
Giudicare il valore letterario di questo autore americano che ha venduto 100 milioni di libri non è nelle mie possibilità, ma girovagando fra le proposte televisive mi è capitato di vedere “Le parole che non ti ho detto”, “Come un
uragano”, “Le pagine della nostra vita”,” La scelta”.
Mi sono incuriosito e, tentato dai richiami romanticizzanti, ho letto un paio di libri.
Chissà se fra venti anni i suoi racconti saranno ancora letti da un pubblico numeroso e non voglio neanche lontanamente paragonare le sue opere alle immortali e meravigliose narrazioni di “Orgoglio e pregiudizio”, “Ragione e sentimento” o “Emma”.
Ma mi è venuto il ghiribizzo di scrivere quel che segue.
Nei romanzi della Austen, ma lo schema vale anche per altri autori e non solo per narrazioni sentimentali, il lieto fine è sempre preceduto da una resa al destino e ai ghirigori della vita e l’amore cresce e si fortifica prima nei pensieri e spesso, direbbe Modugno, nella lontananza. Non ci si dichiara apertamente e
non ci si bacia se non nelle ultime pagine, dopo un lungo cammino dell’anima ed una ponderata e consapevole maturazione personale.

Si agisce perché costretti dalla vita ed il fare affrettato, come quello di Lydia (la sorella di Elizabeth), è sempre foriero di dolori, delusioni, difficoltà.
Anche Emma conosce la felicità solo quando smette di agitarsi. Prima un percorso di formazione, di crescita e maturazione e poi la tranquillità luminosa del futuro.
Così fu la storia della borghesia nella sua fase ascendente; furono i Voltaire, i Diderot, gli utopisti a preparare la presa del potere della nuova classe produttrice.
Nei racconti di Sparks invece spesso ci si innamora in poco più di un giorno e si ci si abbandona subito a profondi abbracci superando di getto qualche ostacolo.
Ma nel momento in cui la passione non è più totalizzante, si riflette e ci si ritrae per un po’ di tempo; subentrano smarrimento e inquietudine, sembra impossibile dare continuità e prospettive al rapporto fino a quando dopo un po’ di tempo non si comprende che bisogna cambiare abitudini, casa, città e lavoro
per ritornar a riveder le stelle.
Come il ciclo del capitale che oggi noi conosciamo: produzione, superproduzione, stagnazione, crisi, produzione di nuove merci!
Il fare diventa più importante del pensare. E se non si agisce tutto è compromesso!
Il buon Sparks è americano fino in fondo, ma qualche volta anche la buona letteratura moderna si muove lungo questo sentiero narrativo.
È il caso, per esempio, del maestoso racconto “Quel che resta del giorno”, nel quale il non agire del compassato Stevens e le disperate ma purtroppo poche lacrime della riservata signorina Kelly sono il vero motivo del mancato lieto fine che invece tutti i lettori – spettatori si aspetterebbero. Peccato!!!




Stare in ogni luogo…stare in nessun luogo

da libro di Gunther Anders…. con qualche variazione!

Essere a casa stando in pubblico rappresenta una componente della nostra esistenza odierna, che finora è stata generalmente trascurata dalla teoria. Ciò che finora la critica culturale aveva messo in primo piano era stata sempre la deprivatizzazione della sfera privata. Ma con questa veniva descritta solo la metà della nostra esistenza attuale. Non meno importante è il suo pendant: insomma il fatto che anche la sfera pubblica ha perso la sua univocità, che questa sfera (nonostante il monopolio che sembra aver conquistato con la deprivatizzazione) spesso viene intesa soltanto come una continuazione della sfera privata (dunque per niente come pubblica) . Chi trascura d’inserire nel quadro dell’epoca odierna entrambe queste mutilazioni, disegna un ritratto d’epoca incompleto. Fa parte del quadro sociopsicologico dell’uomo moderno, per esempio, non solo che a causa dell’incessante scorrere del mondo esterno egli stia sempre altrove e mai a casa, dunque la perdita della sua sfera privata; ma che nello stesso tempo egli è dovunque e sempre a casa.

Di qui la perdita dei suoi sentimenti per il mondo esterno, ovvero l’elefantiasi della sua sfera privata. Così come (anche stando effettivamente seduto in casa) mediante le trasmissioni egli si trova sempre anche in qualche altro luogo e tuttavia nello stesso tempo resta sempre a casa (anche quando, seduto nella sua automobile, attraversa paesi stranieri) . Se la radio, la TV ed il web sono l’incarnazione della sua deprivatizzazione, l’automobile è l’incarnazione del suo essere sempre a casa. Chi vede nella radio (o in uno smartphone) e nell’ automobile semplicemente due apparecchi, solo per caso divenuti decisamente importanti contemporaneamente, non capisce quanto stretto sia il loro rapporto di complementarità. Di fatto il sogno della nostra esistenza odierna si adempie solo quando i due apparecchi ci servono contemporaneamente; quando noi, pur attraversando paesi stranieri, rimaniamo tuttavia a casa, dato che non abbiamo lasciato la nostra auto, cioè la nostra seconda casa; e perché in essa riceviamo come a casa, per mezzo della nostra radio o del nostro cellulare, un secondo mondo.

Noi uomini d’oggi per metà siamo nomadi, perché persino quando siamo a casa ci troviamo a ogni istante in un posto diverso; e per metà siamo sedentari perché, quando viaggiamo effettivamente in paesi stranieri, possiamo consumare i comforts dell’essere a casa, e paradossalmente ciò significa che abbiamo anche la possibilità di sostare in un altro luogo (vale a dire un luogo trasmesso) .Abbiamo l’illusione di poter stare contemporaneamente dappertutto ed invece spesso dimoriamo nel rumoroso territorio del nulla.




Un viaggio (quasi gratuito) a New York

Non sono mai andato negli Stati Uniti, né ho intenzione di farlo mai, ma a New York ci sono stato per tre giorni al prezzo di pochi euro. Mi hanno portato alla prima, seconda ed  ennesima avenue le pagine di Trilogia di New York di Paul Auster autore di cui  fino a sette giorni fa non avevo mai letto niente. La notizia della sua morte, non so perché, mi ha spinto verso questo suo trittico intrecciato dei tre racconti racchiusi nel volume. Ed eccomi per tre giorni nelle vesti di Quinn, di Blue e di uno scrittore a cercare, controllare e seguire Peter Stillman, il signor Black  o l’amico di infanzia Fanshawe fra i meandri, le piazze, i palazzi della metropoli americana.

Un libro da leggere tutto d’un fiato e che vale da solo cento volte tutte le guide turistiche di New York, anzi vale cento volte il viaggio reale in questa città.
La scrittura di Auster è ipnotica, pindarica e spiazzante con continue variazioni di direzione narrativa procedendo a zigzag, come fanno spesso caoticamente i suoi personaggi lungo le strade della città dall’apparente ordine rettangolare euclideo ma di fatto invece immersa in una struttura di geometria iperbolica, ma al contrario di loro senza perdere mai il senso del peregrinare, perché le parole sono di per sé avulse dalla realtà e perciò ti portano nei luoghi  in cui vogliono andare anche quando sospetti di loro.

Una città allucinante, surreale come i quadri di Escher, popolata da persone inafferrabili che non puoi conoscere se non a rischio di sprofondare nei tunnel scavati dentro te stesso dai vermi silenziosi che popolano la grande mela. Un labirinto alla stregua della Biblioteca di Babele di Borges nel quale però trovi sempre un unico libro, un taccuino rosso pieno di parole indecifrabili alla lunga oscure anche per chi le ha scritte. Percorrere le strade della metropoli americana alla ricerca del significato dell’esistenza è cosa più folle e più grigia della lotta di Don Chisciotte contro i mulini a vento.

E quando poi entri in contatto con la persona al centro del tuo peregrinare fisico e mentale scopri che è soltanto il tuo William Wilson del racconto di Poe che ti trascina nel vortice bianco accecante in cui scompare Gordon Pym.

NON ANDATE A NEW YORK se  non insieme a Paul Auster!




Post-turismo: il reale diventa la riproduzione delle proprie immagini. La realtà viene prodotta dalla riproduzione

Nel suo libro
L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale.
Günther Anders offre l’esempio dei turisti che, sistematicamente armati di macchina fotografica, si accaniscono a «riprendere» (cioè a «prendere presso di sé») in maniera ossessiva tutto quel che vedono durante i loro viaggi: «Come non fotografano ciò che vedono – perché ciò che vedono, lo vedono soltanto per fotografarlo; e quel che fotografano, lo fotografano soltanto per averlo –, cosí ciò che fotografano non è per loro il “reale”. “Reale” è per loro invece la riproduzione fotografica» Quel che davvero importa per questi turisti non è l’esserci, il fare esperienza spazio-temporale del luogo visitato nel presente del viaggio, ma l’esserci stati. E l’aver ripreso e riportato a casa quel luogo sotto forma di immagine. Anders stendeva queste osservazioni a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso: possiamo solo constatare quanto nel frattempo tale condizione si sia radicalizzata con la diffusione pervasiva dei dispositivi digitali di produzione e riproduzione di immagini.

e se non ti sei già stancato/a di leggere e l’argomento ti interessa ecco il passo per intero:

«Riprendere» significa però anche «prendere presso di sé». Perché, riproducendo, questi maghi ottengono al tempo stesso l’effetto di «avere» gli oggetti. Non si completi: «solo in effigie». Il modo in cui «hanno» questi oggetti è anzi proprio quel «modo di avere» a cui sono abituati. «Hanno» gli oggetti soltanto perché li hanno in effigie. Dato che non conoscono ormai altro soggiorno che non sia quello tra effigi – le merci in serie del loro mondo, tra cui, con le quali e delle quali vivono, sono infatti tutte riproduzioni di modelli – le riproduzioni sono per loro appunto la realtà. Come non fotografano ciò che vedono – perché ciò che vedono, lo vedono soltanto per fotografarlo; e quel che fotografano, lo fotografano soltanto per averlo -, così ciò che fotografano non è per loro il «reale».
«Reale» è per loro invece la riproduzione fotografica, cioè: gli esemplari della serie fotografica, assunti a far parte dell’universo dei prodotti in serie, diventati loro proprietà. Espresso in termini ontologici: Hanno sostituito l’«esse = percipi» con un «esse = haberi».11 «Reale» per loro non è la piazza San Marco che si trova a Venezia, ma quella che si trova nel loro album di fotografie a

Wuppertal, a Sheffield o a Detroit. Il che significa anche: Per loro non conta esserci, ma soltanto esserci stati. E ciò non soltanto perché esserci stati aumenta il loro prestigio in patria, ma perché solo quel che è stato rappresenta un possesso sicuro. Mentre, infatti, il presente, fuggevole com’è, non può essere «avuto», e rimane un bene inafferrabile, irreale, improduttivo, anzi non rimane, ciò che è stato, diventato oggetto sotto forma di immagine, e quindi una proprietà, è il solo reale. Formulato in termini ontologici: «Soltanto essere stato è essere». Se tra questi maghi se ne trovasse uno che, oltre a fare come gli altri, si rendesse conto di quel che fa – cosa naturalmente assai improbabile, perché foto- grafare e filosofare sembrano escludersi a vicenda -, egli darebbe la seguente giustificazione della sua vita passata scattando fotografie: Niente è stato invano nella mia vita, niente è stato sprecato, niente improduttivo, perché ho trasformato tutto quel che è stato in ripro- duzioni, quindi in oggetti fisici; e ne ho riportato a casa le riprodu- zioni, la maggior parte in bianco e nero, in parte a colori e in piccola parte persino in movimento, di modo che le posso avere per sempre. Tutto è ora, perché rimane; tutto è ora, perché è immagine.

«Essere» significa dunque: essere stato ed essere riprodotto ed essere immagine ed essere proprietà.

Investigare più a fondo lo stretto rapporto tra la tecnica della riproduzione e la memoria (non a torto chiamata «facoltà riproduttiva») ci porterebbe troppo lontano. Diremo qui soltanto che è un rapporto ambiguo: da un lato le fotografie ci fanno ricordare; ma dall’altro lato – e questo è più importante – i souvenirs, diventati cose, hanno atrofizzato il ricordo quale stato d’animo e quale prestazione e lo hanno sostituito. L’uomo odierno, ammesso che attribuisca ancora qualche valore a concepire se stesso come «vita», ad avere un’immagine autobiografica di se stesso, la ricompone con le fotografie che ha scattato. Le immagini di quel che è stato non hanno più bisogno di essere evocate; si apre la pagina su cui si trovano, e non hanno più bisogno di risalire dal profondo – tutt’al più dalle profondità dell’album. Là e solo là giace il suo passato, come pure la basilica di San Marco. Solo con l’aiuto delle istantanee, che ha incollate e che quindi non possono andare

perdute, ricostruisce il suo passato; egli tiene un diario solo sotto forma di album. Sia detto di passaggio che una vita ricostruita a questo modo si compone solamente di gite e di viaggi e che tutto il resto non sembra contare, come «vita».

In fondo è il principio del museo che ha trionfato ora quale principio autobiografico: ognuno si trova di fronte la propria vita in forma di una serie di immagini, come una specie di «galleria autobiografica»; e quindi non più come qualche cosa che è stato, perché tutto quel che è stato viene proiettato su un unico piano, quello dell’immagine presente e disponibile. Tempo dov’è il tuo veleno?

Se si offrisse al signor Schmid o a Mr Smith un viaggio in Italia, alla condizione però di non fotografare assolutamente nulla durante il viaggio, di non preparare quindi nessun ricordo per dopodomani, rifiuterebbe certamente l’invito, perché lo considererebbe uno spreco, e quasi quasi che lo si ritenga capace di un’azione immorale. Costretto a fare un viaggio del genere, sarebbe colto dal panico, perché non saprebbe cosa farsene del presente e di tutte le vedute «fatte apposta per essere fotografate» – insomma: non saprebbe cosa fare di se stesso. E’ perfettamente logico che l’invito allettante delle agenzie di viaggio non sia: «Visit lovely Venice», ma: «Visit unforgettable Venice». Ancor prima che si sia vista passa per indimenticabile. Non la si deve visitare perché è bella, ma perché è indimenticabile; così come si deve comperare un paio di pantaloni perché sono «inconsumabili». Non è indimenticabile perché è bella; bensì, dato che è «garantita indimenticabile», il turista può essere sicuro che è anche bella. Ma per chi viaggia a questo modo, il presente è degradato a mezzo per procurarsi «ciò che sarà stato»; a giustificazione, in sé nemmeno degna che se ne parli, della sola merce valevole, della riproduzione, del futuro anteriore; dunque è degradato a qualche cosa di irreale e fantomatico. È superfluo rilevare che non solo i viaggi sono compiuti oggi a questo modo.




Fidia o Alcamene

Sto leggendo il volume di Andrea Pinotti sulla teoria delle immagini; spesso da un po’ di tempo a questa parte mi succede di trasformare in metafore molte delle cose che leggo. Cosi è successo per l’episodio che qui riporto. Al di là delle nostre capacità artistiche (relazionali) bisogna presentarsi con le fattezze di una statua di Fidia o con l’aspetto di un’opera di Alcamene nel nostro rapporto con gli altri o forse la scelta deve dipendere dalla vicinanza affettiva?

Una volta ci fu bisogno di realizzare statue di Atena da sistemare su delle colonne e gli ateniesi si affiaffidarono a due scultori, Fidia ed Alcamene. Quando venne il momento di decidere fra le due opere, le figure di Alcamene sembravano brillare per il loro aspetto esile e femminile, mentre quelle dell’altro presentavano la bocca aperta, il naso sproporzionato, la testa e le spalle più adatte ad un robusto uomo che a una dea. Fidia rischiò di essere lapidato per sacrilegio, ma quando finalmente riuscì a convincere i giudici a porre le statue sulle colonne, le fattezze delle sue creazioni apparvero proporzionate ed eleganti, mentre quelle di Alcamene brutte e ridicole.




Dal libro “Gocce sognanti”: Stravos e Despina, Alexis e Vassilikì

Nella zona nord occidentale di Creta una lingua di terra, il promontorio di Corico, sfida il mare per protendersi verso l’arcipelago Gramvousa. Non ci sono strade se non un’ampia pista in pietrisco che va dai dintorni di uno dei ristoranti più caratteristici e più belli di Creta fino ad altura in prossimità della Baia di Balos. Li vicino è anche previsto un parcheggio per gli asini.

Fermata l’auto si imbocca il sentiero che porta alla laguna che appare improvvisamente appena inizia la ripida discesa verso il mare.
Si rimane a bocca aperta per i colori e la limpidezza delle acque e per il bianco ed il rosa della spiaggia.
Nei pressi dell’area di parcheggio c’èra una baracca nella quale una coppia di vecchietti teneva un piccolo commercio di bibite, e proprio là decidemmo di riposarci nel tardo pomeriggio al termine dell’affaticante ritorno.
Mi piaceva già allora scambiare qualche parola in greco quando potevo e perciò subito presi a chiacchierare con i simpatici Stavros e Despina.
Scoprii che l’uomo conosceva un po’ della nostra lingua essendo stato a contatto da ragazzo per due anni con il piccolo presidio di soldati italiani presente nell’isola dal 1941 al 1943 e negli anni 50 era stato diverse volte ospite a Bari del capitano Riccardo Bonadies che lo aveva preso a benvolere.
Saltellando fra le due lingue ci fu fatto questo racconto:

Ai vecchi tempi, ai tempi del mio trisavolo, Gramvousa era un covo di pirati che avevano costituito una vera e propria città marinara con tanto di chiesa dedicata alla Παναγια η Κλεφτρινα, “patrona dei ladri”.
Oltre ad essere il terrore di tutte le navi che solcavano quel mare, i grabusini non disdegnavano scorrerie nei villaggi della zona alla ricerca di animali e cibarie, ma soprattutto di donne.
Perciò una mattina gli abitanti di Kissamos, vedendo avvicinarsi le barche dei pirati, si affrettarono a nascondere le loro ragazze e le loro giovani mogli.
Il vecchio settantenne Alexis, pieno di angoscia, disse alla moglie Vassilikì:

-Presto io non posso muovermi ma tu corri a nasconderti ..se no questi arrivano e se ti vedono ti prendono …
-Ma io non ho paura, rispose lei, sono vecchia e malridotta…. che mi possono mai fare? “
Allora il marito la guardò con tenerezza e facendole una carezza le disse:
– Sì …. ma, se ti vedono con i miei occhi?

Mentre mi raccontava questa dolce storia, Stavros non distolse lo sguardo dal viso di sua moglie Despina e quando giunse alla fine la abbracciò mentre i suoi occhi diventavano lucidi.
Anche noi ci commuovemmo molto e rimanemmo ancora un po’ di tempo in loro compagnia a bere raki fino a quando al calar del sole ci allontanammo mano nella mano verso la nostra auto.
Ci proponemmo di ritornare a Balos e lo facemmo dopo due anni e grande fu la malinconia quando trovammo la capanna di Stravos e Despina in evidente abbandono.
Probabilmente avevano lasciato il paradiso terrestre della laguna per raggiungere, non so dove, Alexis e Vassilikì!

Siamo stati altre volte a Creta, ma non siamo più tornati a Balos.




Geoteo

“Sei è un numero perfetto di per sé, e non perché Dio ha creato il mondo in sei giorni; piuttosto è vero il contrario. Dio ha creato il mondo in sei giorni perché questo numero è perfetto, e rimarrebbe perfetto anche se l’opera dei sei giorni non fosse”  (Sant’Agostino”)

Nella mente di tante persone, compresi moltissimi miei amici, la matematica è la più feroce nemica della poesia, della letteratura, della filosofia, della teologia; i  numeri e le figure geometriche sono l’acqua che spegne il fuoco dell’ immaginazione e delle emozioni.
Cosa c’è di più arido in una concatenazione logica che da scarne ipotesi approda a risultati numeri primi, rette parallele etc.etc.?” mi disse una volta un mio quasi-amico poeta i cui versi sciolti erano per la verità abbastanza brulli.
Purtroppo nelle scuole secondarie italiane e nell’università vige ancora la sprezzante dittatura di Croce per cui Cartesio è solo il cogito ergo sum ma non l’inventore della geometria analitica e Leibniz è il filosofo delle monadi, senza lenessun legame di queste entità al concetto di  differenziale, la base della matematica moderna.
Come si fa a studiare questi due personaggi solo come filosofi, senza entrare nei dettagli della loro produzione matematica? Farlo, vuol dire imbrogliare i malcapitati studenti, vuol dire privarli di una cultura filosofica e scientifica che deve andare di pari passo, e che non può essere offerta monca.

Per il momento non voglio tirarla per le lunghe e mi piace sottolineare solo che sant’Agostino sapeva che 6 è il primo numero perfetto (perché somma dei sui  fattori cioè: 6=1x2x3 e 1+2+3 fa proprio 6) e poi citare qui passi della Divina Commedia in cui Dante si serve della geometria per farci partecipare alla sua visione di Dio.
Ho trovato tutto ciò nel libro Dante e la geometria di Bruno D’amore.
Non a caso, anche se non mancano riferimenti matematici nelle prime due cantiche, non a caso proprio nel Paradiso il rapporto  fra il divino e la geometria euclidea si fa strettissimo.

“Un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.” (Par. XXVIII, 16-21)

“O cara piota mia, che sì t’insusi,
Che come veggion le terrene menti
Non capere in triangol due ottusi,
Così vedi le cose contingenti
Anzi che sieno in sé, mirando il punto
A cui tutti li tempi son presenti” (Par. XVII,

13-18)

« …Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto… » (Par. XIX, 40-42)

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affigge
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a q uella vista nova;
veder volea come si convenne
l’imago al cerchio e come vi si indova” (Par. XXXIII, 133-138)

Chi è interessato troverà facilmente l’ermeneutica di questi versi in rete.

P.S. Piccola nota personale:
Una volta Alfonso mi chiese: “Come mai ti piace scrivere racconti ed altro, visto che sei un matematico?” e la mia risposta fu “Perché ho studiato Matematica




Viaggi librari:”La musica è leggera” di Luigi Manconi

A molti amici più o meno miei coetanei ho già consigliato questo libro per me da gustare per intero;  ma anche chi non è interessato ad alcuni capitoli e però ha vissuto da ventenne o trentenne gli anni 60, gli anni 70 e perché no gli anni 80, potrà ritrovare nella pagine di Manconi le emozioni giovanili, riascoltare anche senza sentirle le canzoni di quelli anni e leggere del ruolo che anno avuto Paoli, Modugno, Iannacci, Gaber, Dalla, De Gregori, Venditti, Califano, Battisti, Celentano, De André, Battiato, Bennato, Guccini, Conte e tanti altri nella storia della musica pop e non solo.
Ma oltre ad acute e leggère considerazioni e piacevoli intuizioni sulla musica italiana nell’ultimo cinquantennio  e  ricordi di incontri con cantanti e musicisti , in “La musica è leggera” è facile trovare altro.

Non voglio farla lunga e perciò mi limito a riportare il  passo che conclude la pagina dedicata a Titanic di De Gregori che anche io, come l’autore del libro considero la sua  opera migliore, più emozionante e più persistente nei meandri della mia memoria.

Generalmente sono di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Parlano lingue incomprensibili, forse antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti». E ancora: «Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra loro.

Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali Rapporto dell’Ispettorato americano per l’immigrazione del 1912 riferito agli Italiani.

Titanic



Mai ritornare sulle proprie scelte televisive!

Sono un assiduo lettore di libri gialli e ho acquistato nel tempo i libri di Cristina Cassar Scalia ambientati a Catania con protagonista la vicequestore Vanina Guarrasi. Ieri mattina sfogliando il giornale apprendo che Mediaset ne ha realizzato la trasposizione televisiva.
Per un’antica idiosincrasia per tutto quello che emanava da Berlusconi, molto, ma molto raramente, e solo con qualche piccola eccezione, negli anni ho pigiato sul mio telecomando i tasti dal 4 al 6.
Ma avendo letto con piacere i romanzi di questa autrice, soprattutto i primi due, mi sono infilato con qualche perplessità nell’app Infinity ed ho visto il primo filmato. Quel che temevo è successo.
Delusione totale!
La vivacità e i ghirigori della vita catanese completamente scomparsi e ridotti alla differenza fra arancino e arancina. Cancellate figure fondamentali come l’ex commisario Patanè, Bettina padrona di casa di Vanina, il vicecommissario Fragapane.
La riduzione a macchietta di alcuni personaggi.

E poi, non si sa bene perché, si comincia dal settimo romanzo della Scalia, sacrificando perciò l’approfondimento e l’evolversi dei rapporti umani lungo il susseguirsi dei racconti pubblicati e buttando all’aria il filo della storia familiare, amorosa e amicale della Guerrasi.
O forse la scelta di cominciare dal delitto del gelataio è legata al fatto che nel volume di riferimento non compaiano problematiche sociali né aspetti dei meccanismi di potere della provincia siciliana.
Ed infine i vezzi, le contraddizioni, le pulsioni, il rammarico, il peregrinare mentale della protagonista ridotti a piccole note di colore.
Personaggi e ambientazione piatti!

Quello che mi immalinconisce, e forse mi impedirà di leggere eventuali altri libri della Scalia è il pensiero di come una pur brava scrittrice possa permettere tale svilimento delle sue pagine ricche di brio e vitalità, per amore del successo televisivo e di tutto quello che questo comporta in termini di ritorno economico e notorietà. Purtroppo non è la prima!

SE NE SCONSIGLIA LA VISIONE SOPRATTUTTO A CHI HA LETTO I ROMANZI.

Mi consola il pensiero, però, della mia giusta diffidenza verso Mediaset.
Cassar Scalia sicuramente pensa che la televisione le farà vendere più libri, ma una cosa è certa: un lettore lo ha perso di sicuro!




Un viaggio con il sottomarino del “Comandante”

“Perché siamo italiani!” la frase finale di Favino nel film Comandante ha suscitato le stroncature di tanti giornalisti, critici ed  intellettuali soprattutto, purtroppo, sul giornale Il Manifesto e anche in parte sul Fatto Quotidiano.
Come se fosse il pensiero del regista De Angelis e non il modo per il protagonista di rifiutare il ruolo di eroe, di non sentirsi l’unico Sisifo costretto a portare  faticosamente su e giù il suo amor patrio senza riuscire a liberarlo dal pesante fardello  della retorica fascista e della guerra  che gli impedisce oltretutto di abbandonarsi alla sensualità e alla serenità della vita familiare.
Guardando il film sono ancor diventate più vivide nella mia mente le immagini dei fatiscenti barconi degli emigranti in balia delle onde del mediterraneo e (ce n’è sempre bisogno) la consapevolezza della spietatezza di ogni guerra in cui l’umanità per sopravvivere deve vestirsi da palombaro.

Ma forse anche il Carlo Panzella degli anni 70 avrebbe parlato male di questo film.

Marx Mandel Maitan

Marx, Mandel e Maitan mi avevano dato gli strumenti per capire e cercare di combattere le nefandezze del capitale e la lucidità delle loro analisi ancora oggi sono una piccola torcia per orientarmi nel buio sempre più cupo di questo mondo. Ma  il rischio era sempre di guardare un film a colori sul televisore in bianco e nero e giudicare un nuovo film, un nuovo libro, i comportamenti e le idee delle persone con uno schema estremamente bipolare: o di qua o di là. Per nostra fortuna la responsabilità verso gli operai e gli studenti cavesi e la nostra vita associativa giovenile ci impedivano di diventare estremisti censori, ciò nonostante, per esempio, coprimmo di foglie gialle l’affetto verso persone per esempio come Bruno, buono e generoso, sol perché era di destra. Con il tempo mi sono convinto che la palla al piede della sinistra europea è stata la sua impronta leninista: la miope ed ideologica scelta di Lenin di mettere alla guida della rivoluzione russa il partito bolscevico e non i soviet.

Salvatore Todaro

Ecco, stroncare un film come “Comandante” ed esaltare in maniera spropositata innocui film pur godibilissimi ma dei quali non vale la pena di parlare con nessuno, mi sembra l’avvelenato frutto della malattia del togliattismo-stalinismo  di cui da sempre è purtroppo è vittima buona parte della sinistra italiana (non parlo ovviamente del PD che considero un confuso  partito di centro più o meno simile alla fu sinistra democristiana), la maggior parte di quella che scrive sui giornali, quella dei partitini pulviscolo, quella che gironzola per le stanze delle televisioni; il fascismo si combatte sì con l’intransigenza e con la lotta politica ma non con la sottovalutazione delle emozioni, dei sentimenti popolari e delle contraddizioni del vivere quotidiano.
Naturalmente becera mi sembra la lettura dei giornalisti di destra ai quali la parola Italiani provoca orgasmo chiunque la pronunci. Ma su loro non voglio infierire più di tanto, voglio solo aggiungere che mi fanno ricordare il mio amico S. che raccontava che quando era ragazzino bastava che leggesse una frase tipo “Ella entrò nella stanza” per eccitarsi , e penso perciò che Meloni dovrebbe sentirsi responsabile delle loro masturbazioni mentali.

P.S. Spero che a tanti critici un po’ spocchiosi sia perlomeno piaciuta la lunga  e strabiliante citazione dei piatti della cucina italiana sui titoli di coda.