Ho deciso che nei mesi e spero negli anni che mi restano da vivere, non leggerò libri né vedrò film con meno di 30 anni d’età (per fortuna non ho difficoltà di scelta fra la mia biblioteca e per vecchio grazioso
regalo di Paolo ho un hard disk contenente centinaia di pellicole d’epoca).
In fondo anche con FILI facemmo viaggi di questo tipo. Fu solo l”egocentrismo e la cecità devastante di alcuni a interrompere quella esperienza che fra l’altro era stata la fucina di una mia più profonda amicizia con Mariano).
Effetti speciali, auto editing, interviste a tappeto, esaltazione iperbolica di prodotti mediocri sono il cavallo di troia dell’avanzamento cieco della tecnologia che trova la sua vera ragion d’essere negli armamenti. Comunque ieri sera ho visto Ragione e Sentimento (la versione con Emma Thompson)
C’è la scena in cui il colonnello Brandon legge un sonetto di Shakespeare. Semplice, un piccolo libricino fra le mani delll’attore, senza musica. Rifatta oggi si sarebbe vista come minimo la mano del poeta che scrive una lettera svolazzante nell’etere con un’accattivante musica piena di fondo. Approfitto comunque per pubblicare due dei sonetti del Bardo di Avon che hanno sempre indotto serenità e luminosità nella mia anima spesso annebbiata dai perniciosi fiumi di una diabolica modernità
Anche in primavera fui da te lontano quando il leggiadro Aprile, tutto vestito a festa,suscitava in ogni cosa un tale brio di gioventùche rideva anche Saturno e con lui danzava. Ma, né i canti degli uccelli, né il profumo dolce dei differenti fiori sia in fragranza che colore, potevano indurmi a pensare una gioiosa storia o a coglierli dal grembo ove floridi crescevano: e neppur mi affascinava il candor dei gigli né potei apprezzare il rosso acceso delle rose; non eran che profumi e deliziose forme raffiguranti te, tu lor unico modello. Ma per me era sempre inverno e lontan da te, mi dilettai con loro come con l’ombra tua.
Quanto spesso, quando tu, mia musica, musica esegui su quei beati legnetti il cui moto risuona sotto le tue dolci dita, mentre gentile governi l’armonia delle corde che il mio orecchio incanta, quanto spesso invidio quei salterelli che agili balzano a baciarti il tenero incavo della mano, mentre le mie povere labbra, che dovrebbero mietere tale messe, all’ardire di quei legni accanto a te arrossiscono. Per venire così vellicate, scambierebbero stato e posto con quelle schegge danzanti su cui vanno le tue dita con gentile passo, facendo i morti legni più beati delle vive labbra. Poiché quegli sfacciati salterelli hanno simile fortuna, da’ loro le tue dita, e a me le tue labbra da baciare.
Sogni!
Di “Le mille e una notte” avrò letto forse un centinaio di racconti (fra i quali quello in cui si parla di un perfido sovrano che muore sfogliando con il dito umido di saliva le pagine avvelenate di un libro: idea ripresa pari pari da Umberto Eco nel suo romanzo più famoso Il nome della Rosa). Fra le tanti notti passate con Sherazade per me la più bella e la 351 , forse perché parla di sogni. Eccola.
Il narratore El Ixaqui riferisce questo fatto. Raccontano gli uomini degni di fede che ci fu al Cairo un uomo padrone di molte ricchezze, ma così generoso e liberale da perdere tutto ciò che possedeva tranne la casa del padre, e per vivive si vide costretto a lavorare duramente. Una sera, dopo una giornata molto faticosa, si addormentò sotto il fico del suo giardino e sognò un messaggero di Allah che gli diceva: “La tua fortuna è in Persia, a Isfahan,va a cercarla”. Appena sveglio all’alba il nostro uomo intraprese il lungo viaggio perché così gli era stato detto e affrontò i pericoli dei deserti, delle navi, dei pirati, dei fiumi, delle fiere e degli uomini. Dopo molte traversie giunse infine stanchissimo sul far della sera ad Isfahan, entrò nelle mura della città e si stese a dormire nel patio di una moschea.
Vicino alla moschea c’era una casa e quella notte una banda di ladri attraverso la moschea entrò nell’abitazione ma le persone che vi dormivano si svegliarono e chiesero aiuto. Anche i vicini si misero a gridare finchè accorsero i guardiani del quartiere che misero in fuga i ladri e poi, perquisendo la moschea, trovarono l’uomo del Cairo e gli affibbiarono tanti colpi con canne di bambù che quasi lo ammazzarono. Due giorni dopo l’uomo riprese i sensi in carcere ed il comandante della polizia volle interrogarlo. “Chi sei e da dove vieni?” gli chiese “Sono della città del Cairo e mi chiamo Mohamed El Magrebi” “Cosa ti ha condotto in Persia?” L’uomo gli racconto del sogno ed aggiunse: ”Ora sono ad Isfahan e vedo che la fortuna che mi era stata promessa deve essere il mucchio di bastonate che tanto generosamente mi avete affibbiato. Evidentemente dovevo essere punito per i miei peccati!”. Il capitano scoppiò a ridere e disse: “Anche io sognato tre volte una casa del Cairo nel quale c’era un giardino e nel giardino una meridiana ed un fico ed una fontana sotto la quale c’era un tesoro. Non per questo ho intrapreso un viaggio fidandomi solo di un sogno. Sei un vero ingenuo ed uno stupido credulone! Eccoti qualche moneta per ritornare al tuo paese e non farti mai più vedere da queste parti!” L’umo le prese e torno in patria. Sotto la fontana del suo giardino ( che era quella sognata dal capitano) trovò il tesoro. Cosi Dio lo ricompensò e lo esaltò.
Le strade di Allah sono misteriose ed imprescrutabili!
Con affetto
Questo post, così come i successivi, è dedicato a coloro che mi sono stati vicino in questo momento difficile della mia vita e agli amici che, con tanto affetto, mi hanno chiesto notizie sulla mia improvvisa assenza mediatica. In situazioni come questa, sorge il bisogno di esprimere ciò che sentiamo; tuttavia, ho deciso di farlo condividendo racconti di autori che hanno accompagnato il mio cammino. Spero che queste storie possano toccarti come lo hanno fatto con me. Se tu vorrai, mi farebbe piacere ricevere un tuo breve commento. Grazie di cuore per il tuo supporto e il tuo affetto.
Dino Buzzati SETTE MESSAGGERI
Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare. Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei. Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera. Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine. Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire. Sebbene spensierato – ben più di quanto sia ora! – mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri. Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione. Con l’andar del tempo mi accolsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e si che nessuno di essi è mai caduto malato, ne è incappato nei briganti, ne ha sfiancato le cavalcature.
Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a ricompensare. Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio. Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe. La sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi, il terzo, poi il quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì Gregorio. Il primo non era ancora tornato. Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata. Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non più. Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi. Allontanandoci sempre più dalla capitale, l’itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. Dopo cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia. Trascorsi che furono sei mesi – già avevamo varcato i monti Fasani – l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi.
Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava. Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, l’aria, i venti, gli uccelli apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero. Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggiati che si facevano sulle loro labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire. Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in cammino, il messo partiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate. Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba. Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere. Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto. Eppure va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria. Tu sei l’ultimo legame con loro, Domenico. Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di tè il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera. Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamoa bituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, ne valli divisorie, ne montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro. Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende. Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.
Vado notando – e non l’ho confidato finora a nessuno – vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire. Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio.
La terra è un’immane produzione di amore e di merci.
(dal mio Gocce Sognanti)
Non so se qualcuno conosce i romanzi e i film di Nicholas Sparks: storie intense d’amori più o meno difficili, buone ambientazioni e sereni finali. Giudicare il valore letterario di questo autore americano che ha venduto 100 milioni di libri non è nelle mie possibilità, ma girovagando fra le proposte televisive mi è capitato di vedere “Le parole che non ti ho detto”, “Come un uragano”, “Le pagine della nostra vita”,” La scelta”. Mi sono incuriosito e, tentato dai richiami romanticizzanti, ho letto un paio di libri. Chissà se fra venti anni i suoi racconti saranno ancora letti da un pubblico numeroso e non voglio neanche lontanamente paragonare le sue opere alle immortali e meravigliose narrazioni di “Orgoglio e pregiudizio”, “Ragione e sentimento” o “Emma”. Ma mi è venuto il ghiribizzo di scrivere quel che segue. Nei romanzi della Austen, ma lo schema vale anche per altri autori e non solo per narrazioni sentimentali, il lieto fine è sempre preceduto da una resa al destino e ai ghirigori della vita e l’amore cresce e si fortifica prima nei pensieri e spesso, direbbe Modugno, nella lontananza. Non ci si dichiara apertamente e non ci si bacia se non nelle ultime pagine, dopo un lungo cammino dell’anima ed una ponderata e consapevole maturazione personale.
Si agisce perché costretti dalla vita ed il fare affrettato, come quello di Lydia (la sorella di Elizabeth), è sempre foriero di dolori, delusioni, difficoltà. Anche Emma conosce la felicità solo quando smette di agitarsi. Prima un percorso di formazione, di crescita e maturazione e poi la tranquillità luminosa del futuro. Così fu la storia della borghesia nella sua fase ascendente; furono i Voltaire, i Diderot, gli utopisti a preparare la presa del potere della nuova classe produttrice. Nei racconti di Sparks invece spesso ci si innamora in poco più di un giorno e si ci si abbandona subito a profondi abbracci superando di getto qualche ostacolo. Ma nel momento in cui la passione non è più totalizzante, si riflette e ci si ritrae per un po’ di tempo; subentrano smarrimento e inquietudine, sembra impossibile dare continuità e prospettive al rapporto fino a quando dopo un po’ di tempo non si comprende che bisogna cambiare abitudini, casa, città e lavoro per ritornar a riveder le stelle. Come il ciclo del capitale che oggi noi conosciamo: produzione, superproduzione, stagnazione, crisi, produzione di nuove merci! Il fare diventa più importante del pensare. E se non si agisce tutto è compromesso! Il buon Sparks è americano fino in fondo, ma qualche volta anche la buona letteratura moderna si muove lungo questo sentiero narrativo. È il caso, per esempio, del maestoso racconto “Quel che resta del giorno”, nel quale il non agire del compassato Stevens e le disperate ma purtroppo poche lacrime della riservata signorina Kelly sono il vero motivo del mancato lieto fine che invece tutti i lettori – spettatori si aspetterebbero. Peccato!!!
Stare in ogni luogo…stare in nessun luogo
da libro di Gunther Anders…. con qualche variazione!
Essere a casa stando in pubblico rappresenta una componente della nostra esistenza odierna, che finora è stata generalmente trascurata dalla teoria. Ciò che finora la critica culturale aveva messo in primo piano era stata sempre la deprivatizzazione della sfera privata. Ma con questa veniva descritta solo la metà della nostra esistenza attuale. Non meno importante è il suo pendant: insomma il fatto che anche la sfera pubblica ha perso la sua univocità, che questa sfera (nonostante il monopolio che sembra aver conquistato con la deprivatizzazione) spesso viene intesa soltanto come una continuazione della sfera privata (dunque per niente come pubblica) . Chi trascura d’inserire nel quadro dell’epoca odierna entrambe queste mutilazioni, disegna un ritratto d’epoca incompleto. Fa parte del quadro sociopsicologico dell’uomo moderno, per esempio, non solo che a causa dell’incessante scorrere del mondo esterno egli stia sempre altrove e mai a casa, dunque la perdita della sua sfera privata; ma che nello stesso tempo egli è dovunque e sempre a casa.
Di qui la perdita dei suoi sentimenti per il mondo esterno, ovvero l’elefantiasi della sua sfera privata. Così come (anche stando effettivamente seduto in casa) mediante le trasmissioni egli si trova sempre anche in qualche altro luogo e tuttavia nello stesso tempo resta sempre a casa (anche quando, seduto nella sua automobile, attraversa paesi stranieri) . Se la radio, la TV ed il web sono l’incarnazione della sua deprivatizzazione, l’automobile è l’incarnazione del suo essere sempre a casa. Chi vede nella radio (o in uno smartphone) e nell’ automobile semplicemente due apparecchi, solo per caso divenuti decisamente importanti contemporaneamente, non capisce quanto stretto sia il loro rapporto di complementarità. Di fatto il sogno della nostra esistenza odierna si adempie solo quando i due apparecchi ci servono contemporaneamente; quando noi, pur attraversando paesi stranieri, rimaniamo tuttavia a casa, dato che non abbiamo lasciato la nostra auto, cioè la nostra seconda casa; e perché in essa riceviamo come a casa, per mezzo della nostra radio o del nostro cellulare, un secondo mondo.
Noi uomini d’oggi per metà siamo nomadi, perché persino quando siamo a casa ci troviamo a ogni istante in un posto diverso; e per metà siamo sedentari perché, quando viaggiamo effettivamente in paesi stranieri, possiamo consumare i comforts dell’essere a casa, e paradossalmente ciò significa che abbiamo anche la possibilità di sostare in un altro luogo (vale a dire un luogo trasmesso) .Abbiamo l’illusione di poter stare contemporaneamente dappertutto ed invece spesso dimoriamo nel rumoroso territorio del nulla.
Un viaggio (quasi gratuito) a New York
Non sono mai andato negli Stati Uniti, né ho intenzione di farlo mai, ma a New York ci sono stato per tre giorni al prezzo di pochi euro. Mi hanno portato alla prima, seconda ed ennesima avenue le pagine di Trilogia di New York di Paul Auster autore di cui fino a sette giorni fa non avevo mai letto niente. La notizia della sua morte, non so perché, mi ha spinto verso questo suo trittico intrecciato dei tre racconti racchiusi nel volume. Ed eccomi per tre giorni nelle vesti di Quinn, di Blue e di uno scrittore a cercare, controllare e seguire Peter Stillman, il signor Black o l’amico di infanzia Fanshawe fra i meandri, le piazze, i palazzi della metropoli americana.
Un libro da leggere tutto d’un fiato e che vale da solo cento volte tutte le guide turistiche di New York, anzi vale cento volte il viaggio reale in questa città. La scrittura di Auster è ipnotica, pindarica e spiazzante con continue variazioni di direzione narrativa procedendo a zigzag, come fanno spesso caoticamente i suoi personaggi lungo le strade della città dall’apparente ordine rettangolare euclideo ma di fatto invece immersa in una struttura di geometria iperbolica, ma al contrario di loro senza perdere mai il senso del peregrinare, perché le parole sono di per sé avulse dalla realtà e perciò ti portano nei luoghi in cui vogliono andare anche quando sospetti di loro.
Una città allucinante, surreale come i quadri di Escher, popolata da persone inafferrabili che non puoi conoscere se non a rischio di sprofondare nei tunnel scavati dentro te stesso dai vermi silenziosi che popolano la grande mela. Un labirinto alla stregua della Biblioteca di Babele di Borges nel quale però trovi sempre un unico libro, un taccuino rosso pieno di parole indecifrabili alla lunga oscure anche per chi le ha scritte. Percorrere le strade della metropoli americana alla ricerca del significato dell’esistenza è cosa più folle e più grigia della lotta di Don Chisciotte contro i mulini a vento.
E quando poi entri in contatto con la persona al centro del tuo peregrinare fisico e mentale scopri che è soltanto il tuo William Wilson del racconto di Poe che ti trascina nel vortice bianco accecante in cui scompare Gordon Pym.
NON ANDATE A NEW YORK se non insieme a Paul Auster!
Post-turismo: il reale diventa la riproduzione delle proprie immagini. La realtà viene prodotta dalla riproduzione
Nel suo libro “L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale.“ Günther Anders offre l’esempio dei turisti che, sistematicamente armati di macchina fotografica, si accaniscono a «riprendere» (cioè a «prendere presso di sé») in maniera ossessiva tutto quel che vedono durante i loro viaggi: «Come non fotografano ciò che vedono – perché ciò che vedono, lo vedono soltanto per fotografarlo; e quel che fotografano, lo fotografano soltanto per averlo –, cosí ciò che fotografano non è per loro il “reale”. “Reale” è per loro invece la riproduzione fotografica» Quel che davvero importa per questi turisti non è l’esserci, il fare esperienza spazio-temporale del luogo visitato nel presente del viaggio, ma l’esserci stati. E l’aver ripreso e riportato a casa quel luogo sotto forma di immagine. Anders stendeva queste osservazioni a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso: possiamo solo constatare quanto nel frattempo tale condizione si sia radicalizzata con la diffusione pervasiva dei dispositivi digitali di produzione e riproduzione di immagini.
e se non ti sei già stancato/a di leggere e l’argomento ti interessa ecco il passo per intero:
«Riprendere» significa però anche «prendere presso di sé». Perché, riproducendo, questi maghi ottengono al tempo stesso l’effetto di «avere» gli oggetti. Non si completi: «solo in effigie». Il modo in cui «hanno» questi oggetti è anzi proprio quel «modo di avere» a cui sono abituati. «Hanno» gli oggetti soltanto perché li hanno in effigie. Dato che non conoscono ormai altro soggiorno che non sia quello tra effigi – le merci in serie del loro mondo, tra cui, con le quali e delle quali vivono, sono infatti tutte riproduzioni di modelli – le riproduzioni sono per loro appunto la realtà. Come non fotografano ciò che vedono – perché ciò che vedono, lo vedono soltanto per fotografarlo; e quel che fotografano, lo fotografano soltanto per averlo -, così ciò che fotografano non è per loro il «reale». «Reale» è per loro invece la riproduzione fotografica, cioè: gli esemplari della serie fotografica, assunti a far parte dell’universo dei prodotti in serie, diventati loro proprietà. Espresso in termini ontologici: Hanno sostituito l’«esse = percipi» con un «esse = haberi».11«Reale» per loro non è la piazza San Marco che si trova a Venezia, ma quella che si trova nel loro album di fotografie a
Wuppertal, a Sheffield o a Detroit. Il che significa anche: Per loro non conta esserci, ma soltanto esserci stati. E ciò non soltanto perché esserci stati aumenta il loro prestigio in patria, ma perché solo quel che è stato rappresenta un possesso sicuro. Mentre, infatti, il presente, fuggevole com’è, non può essere «avuto», e rimane un bene inafferrabile, irreale, improduttivo, anzi non rimane, ciò che è stato, diventato oggetto sotto forma di immagine, e quindi una proprietà, è il solo reale. Formulato in termini ontologici: «Soltanto essere stato è essere». Se tra questi maghi se ne trovasse uno che, oltre a fare come gli altri, si rendesse conto di quel che fa – cosa naturalmente assai improbabile, perché foto- grafare e filosofare sembrano escludersi a vicenda -, egli darebbe la seguente giustificazione della sua vita passata scattando fotografie: Niente è stato invano nella mia vita, niente è stato sprecato, niente improduttivo, perché ho trasformato tutto quel che è stato in ripro- duzioni, quindi in oggetti fisici; e ne ho riportato a casa le riprodu- zioni, la maggior parte in bianco e nero, in parte a colori e in piccola parte persino in movimento, di modo che le posso avere per sempre. Tutto è ora, perché rimane; tutto è ora, perché è immagine.
«Essere» significa dunque: essere stato ed essere riprodotto ed essere immagine ed essere proprietà.
Investigare più a fondo lo stretto rapporto tra la tecnica della riproduzione e la memoria (non a torto chiamata «facoltà riproduttiva») ci porterebbe troppo lontano. Diremo qui soltanto che è un rapporto ambiguo: da un lato le fotografie ci fanno ricordare; ma dall’altro lato – e questo è più importante – i souvenirs, diventati cose, hanno atrofizzato il ricordo quale stato d’animo e quale prestazione e lo hanno sostituito. L’uomo odierno, ammesso che attribuisca ancora qualche valore a concepire se stesso come «vita», ad avere un’immagine autobiografica di se stesso, la ricompone con le fotografie che ha scattato. Le immagini di quel che è stato non hanno più bisogno di essere evocate; si apre la pagina su cui si trovano, e non hanno più bisogno di risalire dal profondo – tutt’al più dalle profondità dell’album. Là e solo là giace il suo passato, come pure la basilica di San Marco. Solo con l’aiuto delle istantanee, che ha incollate e che quindi non possono andare
perdute, ricostruisce il suo passato; egli tiene un diario solo sotto forma di album. Sia detto di passaggio che una vita ricostruita a questo modo si compone solamente di gite e di viaggi e che tutto il resto non sembra contare, come «vita».
In fondo è il principio del museo che ha trionfato ora quale principio autobiografico: ognuno si trova di fronte la propria vita in forma di una serie di immagini, come una specie di «galleria autobiografica»; e quindi non più come qualche cosa che è stato, perché tutto quel che è stato viene proiettato su un unico piano, quello dell’immagine presente e disponibile. Tempo dov’è il tuo veleno?
Se si offrisse al signor Schmid o a Mr Smith un viaggio in Italia, alla condizione però di non fotografare assolutamente nulla durante il viaggio, di non preparare quindi nessun ricordo per dopodomani, rifiuterebbe certamente l’invito, perché lo considererebbe uno spreco, e quasi quasi che lo si ritenga capace di un’azione immorale. Costretto a fare un viaggio del genere, sarebbe colto dal panico, perché non saprebbe cosa farsene del presente e di tutte le vedute «fatte apposta per essere fotografate» – insomma: non saprebbe cosa fare di se stesso. E’ perfettamente logico che l’invito allettante delle agenzie di viaggio non sia: «Visit lovely Venice», ma: «Visit unforgettable Venice». Ancor prima che si sia vista passa per indimenticabile. Non la si deve visitare perché è bella, ma perché è indimenticabile; così come si deve comperare un paio di pantaloni perché sono «inconsumabili». Non è indimenticabile perché è bella; bensì, dato che è «garantita indimenticabile», il turista può essere sicuro che è anche bella. Ma per chi viaggia a questo modo, il presente è degradato a mezzo per procurarsi «ciò che sarà stato»; a giustificazione, in sé nemmeno degna che se ne parli, della sola merce valevole, della riproduzione, del futuro anteriore; dunque è degradato a qualche cosa di irreale e fantomatico. È superfluo rilevare che non solo i viaggi sono compiuti oggi a questo modo.
Fidia o Alcamene
Sto leggendo il volume di Andrea Pinotti sulla teoria delle immagini; spesso da un po’ di tempo a questa parte mi succede di trasformare in metafore molte delle cose che leggo. Cosi è successo per l’episodio che qui riporto. Al di là delle nostre capacità artistiche (relazionali) bisogna presentarsi con le fattezze di una statua di Fidia o con l’aspetto di un’opera di Alcamene nel nostro rapporto con gli altri o forse la scelta deve dipendere dalla vicinanza affettiva?
Una volta ci fu bisogno di realizzare statue di Atena da sistemare su delle colonne e gli ateniesi si affiaffidarono a due scultori, Fidia ed Alcamene. Quando venne il momento di decidere fra le due opere, le figure di Alcamene sembravano brillare per il loro aspetto esile e femminile, mentre quelle dell’altro presentavano la bocca aperta, il naso sproporzionato, la testa e le spalle più adatte ad un robusto uomo che a una dea. Fidia rischiò di essere lapidato per sacrilegio, ma quando finalmente riuscì a convincere i giudici a porre le statue sulle colonne, le fattezze delle sue creazioni apparvero proporzionate ed eleganti, mentre quelle di Alcamene brutte e ridicole.
Dal libro “Gocce sognanti”: Stravos e Despina, Alexis e Vassilikì
Nella zona nord occidentale di Creta una lingua di terra, il promontorio di Corico, sfida il mare per protendersi verso l’arcipelago Gramvousa. Non ci sono strade se non un’ampia pista in pietrisco che va dai dintorni di uno dei ristoranti più caratteristici e più belli di Creta fino ad altura in prossimità della Baia di Balos. Li vicino è anche previsto un parcheggio per gli asini.
Fermata l’auto si imbocca il sentiero che porta alla laguna che appare improvvisamente appena inizia la ripida discesa verso il mare. Si rimane a bocca aperta per i colori e la limpidezza delle acque e per il bianco ed il rosa della spiaggia. Nei pressi dell’area di parcheggio c’èra una baracca nella quale una coppia di vecchietti teneva un piccolo commercio di bibite, e proprio là decidemmo di riposarci nel tardo pomeriggio al termine dell’affaticante ritorno. Mi piaceva già allora scambiare qualche parola in greco quando potevo e perciò subito presi a chiacchierare con i simpatici Stavros e Despina. Scoprii che l’uomo conosceva un po’ della nostra lingua essendo stato a contatto da ragazzo per due anni con il piccolo presidio di soldati italiani presente nell’isola dal 1941 al 1943 e negli anni 50 era stato diverse volte ospite a Bari del capitano Riccardo Bonadies che lo aveva preso a benvolere. Saltellando fra le due lingue ci fu fatto questo racconto:
Ai vecchi tempi, ai tempi del mio trisavolo, Gramvousa era un covo di pirati che avevano costituito una vera e propria città marinara con tanto di chiesa dedicata alla Παναγια η Κλεφτρινα, “patrona dei ladri”. Oltre ad essere il terrore di tutte le navi che solcavano quel mare, i grabusini non disdegnavano scorrerie nei villaggi della zona alla ricerca di animali e cibarie, ma soprattutto di donne. Perciò una mattina gli abitanti di Kissamos, vedendo avvicinarsi le barche dei pirati, si affrettarono a nascondere le loro ragazze e le loro giovani mogli. Il vecchio settantenne Alexis, pieno di angoscia, disse alla moglie Vassilikì: -Presto io non posso muovermi ma tu corri a nasconderti ..se no questi arrivano e se ti vedono ti prendono … -Ma io non ho paura, rispose lei, sono vecchia e malridotta…. che mi possono mai fare? “ Allora il marito la guardò con tenerezza e facendole una carezza le disse: – Sì …. ma, se ti vedono con i miei occhi?
Mentre mi raccontava questa dolce storia, Stavros non distolse lo sguardo dal viso di sua moglie Despina e quando giunse alla fine la abbracciò mentre i suoi occhi diventavano lucidi. Anche noi ci commuovemmo molto e rimanemmo ancora un po’ di tempo in loro compagnia a bere raki fino a quando al calar del sole ci allontanammo mano nella mano verso la nostra auto. Ci proponemmo di ritornare a Balos e lo facemmo dopo due anni e grande fu la malinconia quando trovammo la capanna di Stravos e Despina in evidente abbandono. Probabilmente avevano lasciato il paradiso terrestre della laguna per raggiungere, non so dove, Alexis e Vassilikì!
Siamo stati altre volte a Creta, ma non siamo più tornati a Balos.
Geoteo
“Sei è un numero perfetto di per sé, e non perché Dio ha creato il mondo in sei giorni; piuttosto è vero il contrario. Dio ha creato il mondo in sei giorni perché questo numero è perfetto, e rimarrebbe perfetto anche se l’opera dei sei giorni non fosse” (Sant’Agostino”)
Nella mente di tante persone, compresi moltissimi miei amici, la matematica è la più feroce nemica della poesia, della letteratura, della filosofia, della teologia; i numeri e le figure geometriche sono l’acqua che spegne il fuoco dell’ immaginazione e delle emozioni. “Cosa c’è di più arido in una concatenazione logica che da scarne ipotesi approda a risultati numeri primi, rette parallele etc.etc.?” mi disse una volta un mio quasi-amico poeta i cui versi sciolti erano per la verità abbastanza brulli. Purtroppo nelle scuole secondarie italiane e nell’università vige ancora la sprezzante dittatura di Croce per cui Cartesio è solo il cogito ergo sum ma non l’inventore della geometria analitica e Leibniz è il filosofo delle monadi, senza lenessun legame di queste entità al concetto di differenziale, la base della matematica moderna. Come si fa a studiare questi due personaggi solo come filosofi, senza entrare nei dettagli della loro produzione matematica? Farlo, vuol dire imbrogliare i malcapitati studenti, vuol dire privarli di una cultura filosofica e scientifica che deve andare di pari passo, e che non può essere offerta monca.
Per il momento non voglio tirarla per le lunghe e mi piace sottolineare solo che sant’Agostino sapeva che 6 è il primo numero perfetto (perché somma dei sui fattori cioè: 6=1x2x3 e 1+2+3 fa proprio 6) e poi citare qui passi della Divina Commedia in cui Dante si serve della geometria per farci partecipare alla sua visione di Dio. Ho trovato tutto ciò nel libro Dante e la geometria di Bruno D’amore. Non a caso, anche se non mancano riferimenti matematici nelle prime due cantiche, non a caso proprio nel Paradiso il rapporto fra il divino e la geometria euclidea si fa strettissimo.
“Un punto vidi che raggiava lume acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca chiuder conviensi per lo forte acume; e quale stella par quinci più poca, parrebbe luna, locata con esso come stella con stella si collòca.” (Par. XXVIII, 16-21)
“O cara piota mia, che sì t’insusi, Che come veggion le terrene menti Non capere in triangol due ottusi, Così vedi le cose contingenti Anzi che sieno in sé, mirando il punto A cui tutti li tempi son presenti” (Par. XVII,
13-18)
« …Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto… » (Par. XIX, 40-42)
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affigge per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige, tal era io a q uella vista nova; veder volea come si convenne l’imago al cerchio e come vi si indova” (Par. XXXIII, 133-138)
Chi è interessato troverà facilmente l’ermeneutica di questi versi in rete.
P.S. Piccola nota personale: Una volta Alfonso mi chiese: “Come mai ti piace scrivere racconti ed altro, visto che sei un matematico?” e la mia risposta fu “Perché ho studiato Matematica”