Splendida Lina

di Elvira Coppola

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Ieri sera a san Francesco serata magica. Organizzata dal Comune. Stavolta non si può criticare nulla!
Lina Sastri ha incantato tutti. La sua napoletanità violenta intensa con la voce roca piena di terra e mare arriva dall’antico. Antico millenario che ci dipinge assolati tragici e multietnici. Meticci di popoli e storie. Le contaminazioni dipingono il nostro divenire senza sbavature. Essenza d’aromi passioni accettazioni. Noi siamo l’arcobaleno del mondo.
Tutto questo percepisci quando questa minuscola donna si esibisce e sulla scena e lievita spaziando fino a carezzare l’anima di tutti gli spettatori. L’arte regala questo dono agli artisti. E gli artisti quelli veri quelli bravi la spandono generosamente.
Lina Sastri ha recitato Filumena Marturano quando chiede alla Madonna se tenere un figlio del “peccato”. “I figli so figli” e una voce lontana svela il mistero della natività. Lina ha cantato Dalla. “e ora che gioco a carte e bevo vino per la gente del porto sono Gesù Bambino”
Lina ha cantato Merola l’emigrante e la struggente nostalgia del Natale.
E poi canzoni del popolo canti di Natale, nenie tramandate dalla notte dei tempi, cullate da violini tamburi e ritmi incalzanti che accompagnavamo con mani sussurri corpi dondolanti e sentimenti che ci tenevano uniti tutti, vecchi bambini, in una basilica amata, ricostruita dalle macerie dalla generosità del buon popolo cavese.
Alla fine il trionfo della Tammurriata nera narra di un popolo accogliente dove da sempre tutti hanno spazio per vivere ed essere amati senza necessità di programmi d’integrazione.
Il canto di Lina Sastri arriva oltre il cuore. Arriva alle viscere come se attraverso quel canto ciascuno stia generando un senso intenso di appartenenza.
Alla fine il coro della chiesa lambiva la volta. Tu scendi dalle stelle la cantavamo tutti.




Dal bianco Natale al Natale in bianco

di Giancarlo Durante

Eccoci qua! Anche quest’anno è arrivato. Si, è arrivato il Natale 2023!  In verità è da oltre un mese che ce ne siamo accorti. In pratica quando il clima dalle parti nostre non mostrava segni di ravvedimento, cullandosi, imperterrito, nell’anticiclone nordafricano, con uno zero termico quasi sulle vette dell’Himalaya, le tivù si erano già portate avanti e iniziava imperturbabile il martellamento delle pubblicità di nocciolati e mandorlati, l’atroce dilemma tra pandoro e panettone, l’iconica slitta trascinata dalle renne di Rovaniemi, il barbone-guardone che scosta la neve dalla vetrata appannata a mostrare la famigliola americana emozionata attorno all’albero di Natale imbandita del bendidio compresa la marca del prodotto da pubblicizzare. La gente non aveva nemmeno avuto il tempo di asciugarsi dall’ultimo tuffo a mare, che già le radio private iniziavano con i vari pezzi natalizi:Jingle bells, Last Christmas, Bianco Natale, etc. . . Oramai è così: le ricorrenze, i tempi in cui queste vengono scandite, sono dettate da esigenze prevalentemente commerciali. Ma ogni anno ritorna anche, come piacevole persecuzione, quella strana coincidenza scolpita sul marmo, indelebile, la ricorrenza della mia di natalità, 25 dicembre dell’anno 1950. Spesso mio malgrado, in questo periodo mi trovo a riflettere sul fatto che se , per avventura, fossi stato capace di diventare un personaggio famoso, non so nel campo sanitario o in quello letterario, artistico, politico o fosse solo in una delle tante discipline sportive, alla fine chi fosse stato costretto a citare la mia data di nascita (lasciamo in sospeso, per il momento, l’altra data)non avrebbe dovuto sforzarsi più di tanto. Ma la vita, si sa, raramente prende le pieghe volute. Anche se quel giorno così importante per la religione cristiana e che, per puro caso, coincide con la sera in cui decisi di venire al mondo alla fine saranno in pochi a ricordarlo.  Ma diciamo che questo aspetto non mi assilla né è il mio cruccio prevalente, perché, alla fine, penso che le cose non mi siano andate così male! Mi ricorda ogni anno un mio caro amico, tetraplegico per un tuffo all’età di 15 anni, medico psichiatra, romano, con una splendida moglie tunisina e uno splendido figlio di 12 anni:

Giancà, mi dice da anni, tra Hermes, Mitra, Zoroaster e lo stesso Gesù, l’unico che io conosca nato nel giorno della festa del Sole invitto sei tu! Non sembra proprio così, perché la storia di Gesù una sua originalità e grandezza ce l’ha, solo se si pensa che a distanza di più di due mila anni raccoglie più di 2, 4 miliardi di fedeli sparsi in tutti i continenti o se si riflette che un’improbabile storia, come quella dei Re Magi sia riuscita ad arrivare, intatta, sino a noi. E, poi, vuoi mettere! Quella coincidenza una sua importanza per me l’ha avuta, se ancora uno dei ricordi più emozionanti della mia vita, nonostante gli anni trascorsi, è quello di quando, nella grande casa paterna ricca di grandi stanzoni privi di corridoi, mia nonna disponeva ai nipoti più grandi di approntare un presepe, che dovesse occupare tutta una parete del salotto, animato da pastori napoletani d’inizio ottocento. Per via di quella coincidenza con le manine ancora poco capaci a contenere bene il pargolo, l’incarico di portare, subito dopo averlo fatto nascere, il bambino Gesù a zonzo per le stanze della casa avita spettava proprio a me.  Avevo 6-7 anni, ma il ricordo dell’emozione di quelle serate, che, anche solo per pochi minuti, mi facevano stare al centro dell’attenzione degli adulti, non l’ ho mai perso. Ed era il bianco Natale, un Natale, se non povero, parco, privo di regali sotto l’abete non ancora entrato nelle nostra tradizione, in un ambiente freddo, riscaldato solo dall’affetto e dal calore dei genitori, dei fratellini, dei cugini, della nonna e degli altri parenti. A distanza di tanti anni quel bianco Natale, giusto per non cadere nel patetico, si è trasformato in un Natale in bianco per via dei dismetabolismi che nemmeno la potenza del rito riescono a far andare in letargo!




Amici: Maurizio Paolillo

Non frequento tutti i giorni il mio amico Maurizio, ci vediamo raramente ma ogni qualvolta metto in piedi una panzellata ( così Annamaria Morgera con termine affettuoso e azzeccato chiama le mie iniziative) è sempre disponibile.  Perciò, certo di una sua risposta positiva, è uno dei primi a cui mi rivolgo  quando si tratta di scrivere un racconto per i libri di Porticando, o di  partecipare ad una disordinata chat canora o ad una tombola online durante il lock-down,  o di essermi a fianco quando ne ho bisogno,  o di  iscriversi a questo blog; ovviamente con lo stile  ed il ritmo del ramo Coppola della sua famiglia. Maurizio non sa ancora che fra poche settimane lo convocherò, ma nel frattempo voglio dedicargli questa poesia che mi fece conoscere tempo fa il mio amico Elio Venditti.

I versi sono di Henry Wadsworth Longfellow il traduttore americano della Divina Commedia.




Giovanna Ferrara è volata via.

Se ne è andata un’altra meravigliosa giovane persona che con i suoi racconti ed il suo sguardo sul mondo ci faceva innamorare della vita. Che infinita tristezza! Voglio ricordarla riportando qui le sue scintillanti parole sui suoi anni liceali:

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Eravamo “cuori in Atlantide”. Il nostro tempo era assoluto, erano gli anni in cui moltiplicavamo le visioni di parmenide, doppiavamo plutarco, sapevamo il flusso delle stelle e le scie della fisica, ci dividevamo tra la letteratura da programma e quella sperimentale, la politica ci riuniva in assemblea, eravamo arroganti e invincibili come lo sono tutti i corpi desideranti.

Sappiamo tutti, tra il 92 e il 96, di aver fatto parte di una anomalia collettiva, che prendeva il patrimonio di una conoscenza passionale e lo rendeva pratica di fecondazione del futuro. Noi di mestiere germogliavamo. In maniera prepotente, sfidando la docilità degli adulti, provocandoli sul terreno delle loro stesse competenze, ingaggiando con i professori più intelligenti infinite partite di senso, imponevamo il nostro ‘vogliamo tutto, a partire dall’impossibile’.

E non abbiamo mai trovato la miseria della prudenza. Ci è stato chiesto di sapere di più, di studiare di più senza che questa diventasse attività meritocratica. Il premio era il piacere, come nelle virtuose cittadelle del sole. Perché ad educarci non era solo un corpo docente allenato all’indisciplina del tumulto, era anche la natura. La cornucopia della costiera, gli scogli ed il mare. I limoni che si tuffavano sempre un minuto prima di noi. Le porte sempre aperte delle case, il vivere nella bellezza delle strade, l’essere la generazione figlia del 68, che sentiva le stesse canzoni dei genitori senza rinunciare al sacrosanto conflitto agito per dire ‘sono io, sono una moltitudine’.

Ed è per questo forse che ci hanno chiamato l’onda. Perché insieme travolgevamo e, al contempo, ci travolgevamo, ritrovandoci storditi per la vertiginosa pienezza della vita. Noi che la musica la facevamo nei garage, noi che scrivevamo i testi delle nostre canzoni, noi che eravamo i gruppi musicali, noi che riempivamo la piazza dopo la scuola per rimandare l’ora del pranzo. Noi che quando passavamo eravamo la gioia dell’eternità.

Nel mondo di fuori andiamo con il segreto di quegli anni. Li teniamo nella tasca, se siamo in difficoltà li tocchiamo con le dita del ricordo comune. E senza dirlo riconosciamo i nostri simili. Sono quelli che hanno negli occhi un sogno, quello di un mondo in cui ‘insieme’ è piu importante di ‘me’ e la conoscenza non serve a prevalere, ma ‘a prendere posizione’. Siamo quelli che avevano ragione. 

Giovanna Ferrara




Elfi

A Mariano, il mio amico che è andato via rendendo il mio mondo più povero e più silenzioso, confidavo tutte le mie idee; non diceva mai no, ma dalla luce dei suoi occhi capivo se la cosa lo convincesse o meno. Con Elfi fu subito d’accordo; in effetti anche lui era un elfo e arricchì la proposta con i suoi fulminei guizzi. Elfi fu un gruppo di scrittura creativa a tema. Eravamo in quindici ad incontrarci ogni 30 giorni per leggere le pagine (rigorosamente A4) scritte da noi su un tema scelto il mese prima ed il gioco consisteva nel dover accoppiare i racconti con gli autori ed anche in questo Mariano era bravo. Credo che per tutti fu una piacevole e stimolante iniziativa.

Il primo tema, prendendo spunto da un racconto di Čechov, lo volle scegliere proprio lui e fu Lo specchio” ed io scrissi quel che segue:

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A casa di mia nonna, in una delle tante stanze del primo piano, c’era un armadio a doppia anta, ognuna con un grande specchio.
Lontano dalla vecchia cucina, dove le numerose donne della mia famiglia usavano trascorrere il tempo chiacchierando e cucinando, il mio passatempo preferito consisteva nel posizionarmi fra i due pannelli e osservare il gioco del mio viso, del mio corpo, dei miei occhi, che rimbalzavano incessantemente più o meno numerosi all’avvicinarsi e all’allontanarsi delle superfici riflettenti.

Entrare in questi mondi paralleli fatti di luce e di fantasia era un viaggio sempre meraviglioso. Mi intrigavano questi ubbidienti me stessi disposti a ripetere velocemente le mie smorfie e i miei movimenti per poi sparire e ritornare nel loro universo misterioso appena io decidevo in tal senso, chiudendo le ante.
Avrò avuto forse undici anni ed era l’ultimo giorno d’estate. Valigie già pronte, tutti in procinto di lasciare Pertosa per ritornare un po’ malinconicamente a Cava. Di lì a pochi minuti sarebbero comparsi i due muli di mio zio sui quali i miei avrebbero caricato i bagagli e ci saremmo avviati a piedi lungo la discesa e la successiva faticosa e mesta salita verso la stazione situata in alto lungo i pendii degli Alburni.
Come facevo sempre prima lasciare il paese volli correre a salutare i miei compagni di gioco.
Entrato nella camera presi a manovrare gli specchi ma dopo aver guidato per qualche minuto con le mani appoggiate sulle maniglie, chiamato dalla voce perentoria di mia madre, mi apprestavo a bloccare i battenti con un ultimo movimento a fisarmonica, ma questa volta i miei numerosi gemelli non mi assecondarono e prima di essere risucchiati dalla chiusura dell’armadio, invece di ripetere i miei gesti, fecero malinconicamente ciao con le mani.
Una, due, tre volte! L’apparizione sulla porta di mia sorella Rosa, inviata dai miei genitori a scoprire dove mi ero cacciato, mi costrinse ad allontanarmi.
A natale, ritornato a Pertosa, dopo aver fatto di corsa tutto il percorso dalla ferrovia al paese, mi precipitai nel mio magico rifugio, ma grande fu la mia delusione nello scoprire che uno degli specchi si era rotto ed era stato sostituito da un pannello di legno.
La giostra dei mondi era scomparsa per sempre, portandosi via la mia fanciullezza.
Ancora oggi mi chiedo come le mie immagini riflesse avessero potuto in quel momento sapere che si trattava di un addio definitivo.




Giancarlo Durante: che ruolo per noi?

Cari Carlo e Enzo,  per me è sempre un piacere leggervi,  anche perché le occasioni di vedersi sono diventate rare e, forse,  i social qualche opportunità aggiuntiva ce l’hanno pure data:quella di mantenere i contatti tra di noi, anche se in forma virtuale. Certo mi lusinga che ci sia qualcuno che ti cerchi per sentire come la pensi (?)  e che faccia da muro contro un’abulìa mentale in agguato.  Detto questo, però no!Per quanto mi riguarda non ho più la forza (qualcuno, sosterrebbe la vis polemica)  di una volta, né, semplicemente, conservo stimoli per abbozzare una qualche proposta politica o sociale che si possa rivelare degna di questo nome. Io poi, (non so voi), sono fuori dalla vita lavorativa attiva, non ho alcun incarico di responsabilità, non posseggo alcun ruolo in pubbliche o private amministrazioni, non sono massone, non sono iscritto al Rotary né ai Lyons. Amministrare, lo sapete,  è terribilmente complesso e, anche, alla fine, talvolta scarsamente remunerativo in rapporto al carico di responsabilità che comporta. Certo ci sono buoni e cattivi amministratori o amministratori semplicemente mediocri.

Ma è gente che ha saputo comunque raccogliere il consenso della maggioranza dei cittadini. Ricordo quando, tanto tempo fa(era il 1999!)  ebbi l’ardire di presentarmi alle tornata elettorale per le Provinciali. Non ce la feci, anche perché metà del partito non mi sostenne. Ma ottenni,  non è solo un giudizio personale, un lusinghiero risultato. Mi dissero che avevo fatto confusione tra proposte tecniche e proposte politiche. Conservo da qualche parte ancora dei folders dove mi illudevo(figuriamoci!) di rafforzare alla Provincia le funzioni perse di sanità pubblica, a partire dall’abolizione della figura del Medico Provinciale. Mi avventurai anche in diverse idee di orientamento ambientalista:proponevo, tra l’altro, una sorta di road pricing per alleggerire il traffico veicolare alla Badia. Più di venti anni dopo, visto quello che sta accadendo nel mondo, una piccola, personale rivincita,  forse, l’ho ottenuta. Ma chi vuoi che si ricordi!

Ma, poi,  con tutta sincerità credo che bisogna dare spazio a una classe politica più giovane (abbiamo amministratori vecchi e continuiamo a essere un Paese dove tuttora vige una strisciante gerontocrazia) . C’è bisogno,  a mio avviso,  di una generazione che maneggi bene i social, che sappia interagire con sistemi d’intelligenza artificiale sofisticati e riesca ad inserirsi negli spazi che questi ci vorranno lasciare. Non so voi, ma io ho qualche difficoltà,  anche solo a livello locale, a pensare a uno schema di proposte sociali realizzabili in questo nuova schema di pensiero e in una realtà così riglobalizzata.  Con questo non voglio dire che dobbiamo, alla nostra età, stare alla finestra e attendere la fine. No. Un ruolo di “consigliere”, di esperto, uno se lo può sempre ritagliare. Ma che ci si limiti a questo.

Permettetemi, infine,  di cogliere l’occasione che mi avete dato per farvi una confidenza.  Il sentimento che provo,  giunto a questa fase della mia vita,  come persona non credente: un senso di vuoto, che sta diventando una sorta di ossessione,  che corre sotto pelle come una fastidiosa fascicolazione muscolare. Ma anche una disposizione d’animo che somiglia sempre più a un senso di straniamento,  di distanza, che arriva financo all’invidia,  che mi ritrovo a provare nei confronti di tutti quelli che siano credenti,  fedeli cristiani,  quelli che si consolano nella certezza di un aldilà e si vedono al cospetto di un Dio giudicante, quelli che ardentemente sperano di rivedere i propri cari, i propri amici in un mondo parallelo composto di anime,  di spirito.  Senza arrivare alle forme di anti-clericalismo alla Odifreddi,  ritengo questa una forma di trascendenza abbastanza infantile,  se non rozza,  certamente inquinata da una visione terrenocentrica.  

Siccome il tempo si va irrimediabilmente accorciando è su questo mio “mood”,  quest’assenza di consolazione che,  cari amici,  adesso tenterei di “ragionare“ con voi.   




Angela Pellegrino: nostalgia

Una città ‘sorridente’, questo mi manca della Cava di quando ero giovane. Cava era lieta, era allegra, ci si stava proprio bene.

I portici erano una sequenza di negozi di cavesi che tutti conoscevamo, e con cui le nostre famiglie spesso erano imparentate, o comunque erano amiche storiche, o almeno buone conoscenti.

Camminare per il corso era ‘stare in famiglia’, ci accordavamo per vederci davanti alla pasticceria Vietri o davanti a D’Andria, o davanti a Liberti ecc, e si comprava il buonissimo bacio dalla burbera ma indimenticabile signora Liberti, se avevamo i soldi.

Adesso non conosciamo più i commercianti, li sentiamo estranei, anonimi.

Del resto, nella maggior parte degli esercizi commerciali troviamo solo commesse (malpagate e sfruttate), non ci sono più i titolari, anzi molto spesso le ditte sono sconosciute, forestiere . . . mah, un po’ freddo tutto ciò, forse non per i giovani, ma per noi che ricordiamo certe cordialità, certa confidenza, sì.

E poi, andavamo a piazza Roma (così si chiamava) a comprare alla bancarella i lupini che mangiavamo nella villa raccogliendone accuratamente le bucce, e lanciandone qualcuno (pochi! avevamo fame) ai bellissimi cigni che ricordo con nostalgia.

Oggi i giovani passano le serate stazionando per strada, in quella che si chiama piazza Abbro, o sui gradini della chiesa di San Francesco, o lungo le vie del centro. A volte ho l’impressione che questi gruppi di ragazzi stiano in silenzio, si limitino a restare lì ciondolando, aspettando che il tempo passi e basta, che differenza con noi che chiacchieravamo, ridevamo, scherzavamo di continuo!  

Siamo troppo vecchi? E’ questa la normalità? Mah




Enzo De Leo: Una città disattenta

Esiste a Cava  –  ma un po’ dappertutto – una sofferenza sommersa, profonda, diffusa. Una sofferenza che non fa notizia – se non occasionalmente e in maniera spesso clamorosa e shoccante – che è vissuta in silenzio e che trova un ascolto limitato, insufficiente. Un ascolto e qualche debole risposta da poche e spesso malmesse istituzioni pubbliche e qualche gruppo di volontariato.

E’  la sofferenza di quelle famiglie che hanno al loro interno un proprio membro portatore di problemi gravi che si collocano tra la sfera sanitaria e quella sociale e psicologica. 

Si tratta di ragazzi tossicodipendenti gravi, anziani con demenza di Alzheimer, persone con severa disabilità, giovani autistici, sofferenti psichici gravi talvolta anche fortemente aggressivi, giovan@ con patologie anoressiche o bulimiche donne che subiscono violenze soprattutto da parte del coniuge.. e si potrebbe continuare.

E’ difficile immaginare, per chi non vive queste condizioni, l’impatto devastante che esse hanno sui nuclei familiare e l’infelicità che inevitabilmente comportano.

Sono convinto, anche se questa sensazione non è, per il momento, sostenuta purtroppo da dati più precisi che non le sensazioni che uno psichiatra prova nel suo studio con frustrazione e senso di impotenza e alcuni indicatori che emergono dalla situazione nazionale – sono convinto, dicevo, che qui a Cava tali situazioni siano causa della sofferenza più profonda e diffusa e a cui siamo meno attenti ( fatte salve lodevoli eccezioni ).

Si può fare qualcosa in più di quello che attualmente, spesso con sacrifici personali, si riesce a fare? Io credo che il Comune possa, per esempio, mettendo in campo risorse anche molto limitate assumersi il compito di coordinare, organizzare e mettere in rete tutto quello che in maniera sparsa e disorganizzata esiste e produce risposte, pure utili, ma largamente inadeguate ai bisogni che spesso non vengono espressi anche perché non si conosce l’interlocutore competente. 

Ecco, mi piacerebbe discutere di questo.




AMICI:Isidoro

Isidoro ha sempre amato i sentieri accidentati: giovane segretario della FGCI (federezione giovanile del partito comunista) negli anni ’70 in un periodo in cui  i rapporti politici fra il PCI e i gruppi della sinistra erano particolarmente tesi, partecipava insieme con noi della IV Internazionale a tutte le manifestazioni locali o nazionali.

Amori difficili ma duraturi non lo hanno mai spaventato.

Ma forse la più importante sua compagna di vita è stata la musica: è mancino e da ragazzo non si poteva permettere di comprare una chitarra, perciò si  esercitava su quelle degli amici e, dovendo muoversi sulle corde con la mano destra, imparò a suonarla al contrario, cosa estremamente difficile.

Poi passò al sassofono, ma credo che sappia e possa suonare qualsiasi strumento. Oggi vive in Toscana, nel Chianti dove da parecchi decenni si occupa di buon vino.

Forse dovrei dire che Tenacia e Pacatezza sono le sue muse.




AMICI:Renato

Se ritornassi a fare il professore per parlare di Geometria mostrerei questa fotografia di Renato

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per parlare di numeri naturali, razionali e reali queste altre tre

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ed aggiungerei questa per parlare di Newton

Altre fotografie di Renato le trovi su porticando.it