Massimo Astore: il bastone di Cartesio, l’acqua di Kant, Papà e Cacciari sulla Badia

“‘N c’aggio capito manc’o cazz ma è stato bellissimo”

Eh si perché tu t’aspetti il Cacciari che fa l’opinionista, come opinionano tutti ora, quello che polemizza con la scienza dei vaccini, che concretizza i dubbi sull’Ucraina, che sale sulla lista nera dei proscritti del corriere della sera. Ma c’è una differenza tra lui e noi, tra lui e l’opinionificio industriale di media e social, dove tutti sappiamo tutto e mettiamo bocca su tutto. Che lui opiniona e parla seduto sul terrazzo della conoscenza, con una dialettica fenomenale, con argomenti che poggiano su un sapere che ha una profondità storica.
Così arriva, prima di lui parlano quattro sciagurati che sponsorizzano l’evento, compreso un’assessore di destra che se potesse, Cacciarone gli sputerebbe in un occhio. Poi si siede e inizia a parlare. Dapprima parla la lingua degli esseri umani, racconta del momento in cui la filosofia si scinde dalla scienza e come da allora la fisica sia divenuta solo appannaggio della matematica. Io invece da quel momento in poi mi sono totalmente perso. Non sono più riuscito a stargli dietro, come quando vado in montagna con mio padre. Uguali…il mio quasi novantenne baffetto e Cacciarone.

E Cacciarone inizia a camminare nel suo bosco, e noi disorientati, e mio padre trova la strada pure se lo bendi e lo butti in vallone qualsiasi, lui alza gli occhietti sopra il baffo, con la sua aria di normalità e imbocca un sentiero. E Cacciarone bello smuove le foglie della scolastica, rivela essenti ed enti, calpesta Liebnitz e Kant come hummus di castagno. E io affanno dietro a papà e dietro a Cacciarone ma sento tutta la bellezza e mi sento ignorante e pigro, e mi viene il fiatone e mi accuccio ad ascoltare. Ta fisicà, e l’amore per la conoscenza deve trasformarsi in conoscenza già acquisita. Amare vuol dire non possedere. Inizio a sudare nel bosco e mi acquieto nel palchetto. Accetto la mia ignoranza ed inizio a divertirmi. Cacciari è solo, solo in tutti i sensi in tanti lo ascoltano ma lui è partito da solo, parla da solo, non si accorge di noi, qualcuno si offende, altri mostrano interesse, ma è meraviglioso. Parla a braccio per uno ora e mezza, forse più. Da l’idea di parlare con se stesso, e a volte si risponde. Non fa un movimento che non sia bocca. La stessa posa, gamba accavallata come nella foto, la stessa foto avrei potuto ripeterla a ritmi regolari di un quarto d’ora, sempre uguale. Cacciarone è in trance.

Mio padre arriva a un bivio tra le acacie tagliate e il brullo appena bruciato. Una via scende e una sale. Spero nella discesa, sono madido, le gambe mi tremano. Lui non si gira, sposta il bastone, passo regolare, ritmico, indica la salita. Cazzo. Vado. Vorrei buttarmi a terra. Vorrei uscire dal teatro. Massimino dice che tutto oggi è legato al numero, tutto si riduce a numeri, quantità, e alcuni grandi filosofi del passato erano matematici. Lo erano Cartesio e Liebnitz. Ma per un attimo sussulta e cambia posa. Uno degli organizzatori continua a immortalarlo col suo smartphone e lo distrae, lo desta dalla meta e lo porta nella fisica. Essente.
“- scusa, ti togli per favore con quest’aggeggio?- e si ricompone nella foto. E riparte. Il bosco dirada e mio padre arriva alla vecchia cartiera, un ruscello appare rigoglioso. Non indossa attrezzature da trekking, ha le sue scarpette scassate da ginnastica, il cappellino al contrario sulla testa quadrata, e cammina, cammina. Mi rivela che questa è la sua passeggiata che fa ogni giorno. Ha il bastone di nocciolo, semplice e leggero, non va per funghi, non cerca paesaggi da postare, cammina, cammina soltanto, cammina solo. Provo un invidia sana, una sana ammirazione, mi sento più vecchio di lui seminovantenne. Mi sento grato e purificato dalle parole di Massimone. Nel dettaglio c’ho calpito poco, sembrava un gramelot di Dario Fó, una poesia ermetica, ma tanto mi è entrato, tanto mi ha dato. Io adoro la parola, e avere il privilegio di sentirla maneggiare da un fuoriclasse, è come farsi una doccia, un bagno che ti ripulisce da tante parole inutili, spropositate, volgari, violente. La vegetazione si dirada.

Si intravede la grotta del Bonea, torna l’asfalto. Il passo è costante, passiamo il santuario dell’Avvocatella, la curvona con la croce, davanti al tabacchi solo le rughe hanno modificato gli astanti. Passiamo l’asilo, il noce, il cancello rosso. Arriviamo al garage, come sempre spalancato. Mio padre posa il suo bastone nel suo angolo, il cappello lo inzeppa sul bastone, prende il bottiglione da 5 litri di acqua della Badia e appanna la porta. Fa finta di chiuderla infilando un mazzariello biforcuto là dove andrebbe il lucchetto e sale. Io prendo l’ascensore, lui rigorosamente a piedi. In mano, l’unica cosa che raccoglie nei suoi passeggi:Un fiore per mia mamma.




Angela Pellegrino

Viaggiare per me è un bisogno, un nutrimento, un modo di vivere meglio, quindi amo fare la valigia.
Fare la valigia è già una piccola partenza, devi ‘seguire’ l’itinerario e pensare a cosa ti potrebbe occorrere, giorno per giorno.
Da molti anni mi attengo fedelmente al famoso ‘consiglio per il buon viaggiatore’: metti sul letto tutto ciò che pensi ti possa servire per il tuo viaggio, e poi togline la metà. Poi togli ancora una parte di ciò che resta, e il rimanente mettilo in valigia.
Mi insegnò mio padre ad amare i viaggi, fino da piccoli ci portava – nella sua Fiat del momento – in tutta l’Europa raggiungibile in auto, Parigi, Vienna, la Jugoslavia ecc, dopo che avevamo conosciuto ben bene l’Italia.

E sono cresciuta con questa passione, grazie alla quale ho girato buona parte del mondo raggiungibile.
Fare la valigia mi dà subito il buonumore, è segno che la partenza si avvicina. Oramai sono una ‘preparatrice di valigia’ esperta, me la sbrigo abbastanza facilmente.
Per esempio, faccio sempre in modo da lasciare in valigia uno spazio vuoto, per poterci stivare gli oggettini (non molti) che non manco mai di comprare nelle varie tappe, e poi ho un’altra abitudine. Mi porto sempre un paio di shirts, maglioni, pantaloni ecc, che non metto più ma che sono in buone condizioni, e li lascio alle cameriere, oppure a chi mi capita. Mi è capitato di regalare, per esempio a chi mi rifaceva la camera, una sciarpa o altro, vedendo sorrisi felici. A volte lascio le scarpe o anche capi di abbigliamento in camera, stando bene attenta ad appoggiarli sull’orlo del cestino, affinché si capisca che me ne voglio disfare, ma si veda che sono utilizzabili.
Quando vado in un paese socialmente ‘arretrato’ rispetto all’Italia, metto sempre in valigia delle cose da regalare – senza che sia umiliante – alle cameriere, oppure ai bambini e ragazzi che ci vengono incontro sorridenti quando scendiamo da un pullman, per esempio.
Viaggiare allarga il cuore e la mente, arricchisce e completa, e la valigia è la compagna di viaggio che non deve contenere solo abiti e accessori vari, ma anche un po’ di umanità.




Alfonsina De Filippis Cheli: la mia valigia sono io

La mia valigia sono io. Contengo in me tutto il necessario per il mio viaggio. Nel tempo è diventata un po’ pesante, ingombrante, ma non potrei alleggerirla di nulla. Dentro c’è l’occorrente per affrontare qualunque cammino, che sia sotto il sole cocente delle passioni o dentro la nebbia fitta delle mie paure e incertezze, in lei c’è sempre quel che serve per non perdermi , per ritrovare la strada, per rialzarmi e procedere o per fermarmi a riposare. In gioventù l’avevo organizzata per scomparti, una custodia per i ricordi, una tasca per i sogni, uno scomparto per le paure, uno per i desideri. Ora, quando ne guardo il contenuto, ritrovo pezzetti di vissuto un po’ sparpagliati che si agitano e sgomitano, si librano senza un ordine, mi invadono e mi conquistano, prendono il volo e mi stupiscono , mi toccano e mi pungono.

Tra immagini e suoni , voci , sorrisi persi, risate godute, battaglie mai vinte, conquiste e gioie, delusioni e sorprese, sospiro e sorrido, mi lascio invadere e cedo. La mia valigia è il mio cuore, un po’ malandato, ma mai veramente sconfitto. Posso andare ovunque, porto con me tutto il mio mondo, i miei amori, i miei ricordi, il mio passato, il mio presente e quel minuscolo cielo che è ormai il mio futuro. E’ un mondo colorato, pieni di profumi antichi e fruttati, di sguardi ormai lontani, di carezze ricevute e donate, di sorrisi regalati, di abbracci ormai irripetibili, un caleidoscopio di mille colori. Apro spesso questa valigia ormai segnata dal tempo, mi piace ciò che contiene, quello che ancora sa dirmi. Amo prendermene cura nei lunghi pomeriggi oziosi o nelle notti in cui pare non trovi pace…sciolgo le trame dei ricordi, accarezzo i miei cari perduti e quelli lontani, intreccio le mie speranze, rispolvero sogni ormai antichi, risveglio speranze che pensavo perdute . Pesa la mia valigia e a volte, sotto il suo peso, arranco, mi piego, affanno, rallento il mio passo….eppure l’amo, è mia perchè sono io, imperfetta , insolente , incerta…ma ricca, tanto ricca. La apro, ne guardo il contenuto e so di non aver vissuto invano. Bella, pesante e piena…la mia valigia!




Pasquale Perfetto: La valigia

«Buongiorno signore, carta d’imbarco e passaporto prego».
«Ecco, a lei».
«Quante valigie ha, signore?»
«Quattro».
«Quante?… Quattro!»
«Sì, quattro».
«Mi dispiace signore ma la franchigia bagagli è di tre colli».
«Senta signorina io ho bisogno di imbarcare tutt’e quattro le valigie, per me è necessario».
«Signore le consiglio di far entrare tutto il vestiario nei tre colli».
«No, non è possibile mi servono tutti, non posso lasciarli qua…»
«Dovrà farlo signore, diversamente non può imbarcarsi».
«La prego signorina non li posso lasciare qua, ne ho bisogno, senza mi sentirei nudo».
«Perché non elimina qualche indumento?»
«Non posso».
«Perché non può?»
«Volerebbero via!»
«Come volerebbero via?»
«Sì, volerebbero via».
«Scusi signore che razza di indumenti contengono le sue valigie?»
«Non sono indumenti».

«E cosa sono, signore?»
«Pensieri».
«Pensieri? Ma non sono troppe quattro valigie di pensieri?»
«No, io ci tengo alle mie comodità».
«E li deve portare tutti con sé? Non può lasciarne qualcuno a casa?»
«No, ho paura che li rubino».
«Be’ potrebbe ridurre il numero dei pensieri e farli entrare tutti in tre soli colli, non crede signore?»
«No, non me la sento, soffrirebbero troppo: incastrati l’uno sull’altro in uno spazio ristretto e senza luce… no, preferisco tenerli comodi».
«Ma perché, quanto tempo resta fuori, signore?»
«Sei mesi, signorina».
«Non può indossarne qualcuno più di una volta,? Tanto se sono freschi e puliti, possono essere riutilizzati e…»
«No, ne voglio indossare uno al giorno, i pensieri usati non mi piacciono».
«Può comprarne altri in viaggio, il costo non è eccessivo».
«I pensieri in vendita sono polverosi e antiquati, preferisco i miei».
«Senta signore io non posso aiutarla, lei deve assolutamente eliminare una valigia. Tolga la rossa».
«No, la rossa no».
«Perché la rossa no?»
«È quella dei pensieri d’amore».
«Allora la verde».
«Neanche, è quella dei pensieri di speranza».
«Quella blu allora».
«Nemmeno, è quella dei pensieri di pace».
«Non resta che la viola. Elimini quella viola allora».
«No! Proprio quella no!»
«Perché proprio quella no, signore? Che tipo di pensieri contiene quella valigia?»
«Ehm…»
«Allora? Me lo dice signore?»
«Ehm… quella viola non contiene pensieri».
«Cosa allora?»
«Ehm… sogni».
«Sogni?! Lo sa che il contrabbando di sogni è punibile con l’arresto immediato? Lei è un folle!»
«Lo so, lo so, ma i sogni sono miei, perché non dovrei portarli con me?»
«I sogni vanno condivisi con gli altri, altrimenti è impossibile che si realizzino. Apra subito la valigia viola e faccia uscire i sogni, in modo che possano beneficiarne anche gli altri. Si muova!».
«D’accordo, d’accordo lo faccio, ma non ne posso tenere qualcuno per me?»
«Non c’è bisogno: i sognatori come lei possono produrne tanti. Felice volo signore».




Isidoro Zerial: piccola valigia

La mia valigia fu un treno che partì da Salerno. All’interno qualche mutanda, un paio di calzini, un jeans….Però non ci entravano i miei affetti. Fare la valigia era tagliare le radici e diventare qualcun’ altro.

Non è grossa, non è pesante
la valigia dell’emigrante…
C’è un po’ di terra del mio villaggio,
per non restare solo in viaggio…
un vestito, un pane, un frutto,
e questo è tutto.
Ma il cuore no, non l’ho portato:
nella valigia non c’è entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuol venire.
Lui resta, fedele come un cane,
nella terra che non mi dà pane:
un piccolo campo, proprio lassù…
Ma il treno corre: non si vede più.
Gianni Rodari




La solitudine per F.D.L.

Solitudine
Non è l’esser solo
ma il sentirsi solo
in mezzo alla gente
E’ cercare occhi
che ti sappiano vedere
E’ cercare mani
che ti sappiano afferrare
E’ cercare orecchie
che sappiano ascoltare
il tuo gridare muto
a tutto l’universo
per invocare aiuto
E’ cercare un cuore
che ti voglia amare
così come sei
e non ti lasci andare

Città vuota
It’s a Lonely Town



Antonio Polichetti: solitudine…un’isola da esplorare

Alle volte, mi capita di sognare di avere vent’anni. Vent’anni, ma con la testa che mi ritrovo ora che ho superato i quaranta. E così, immagino di sapere illusoriamente tutto ciò che dovrei fare ritrovandomi con molto più tempo davanti. Poi, mi sembra di capire perché questo pensiero sia irrealizzabile. Perché una persona che riuscisse in questo proposito potrebbe soltanto essere un semidio o un mostro. Perché una vita senza difficoltà, senza la sfida dell’errore, del sentirsi incompleti in qualità di esseri finiti, senza la gara contro il tempo che scorre, non sarebbe vera vita. Per la via incerta di questo pensiero, che è quasi un sentimento, mi ritrovo spesso raccolto in solitudine con il mio tempo, come se fossi di fronte ad uno specchio cosmico. Ed è lì che posso assumere le sembianze più svariate. Sembra dipendere tutto da me, ma, al contrario, è una lotta contro qualcosa e, alle volte, contro ogni cosa, corpo a corpo, ogni giorno. 

Che sia un sentire, alle volte soltanto bello o brutto a seconda del caso, o che sia, forse in senso più ampio, una condizione dell’animo umano, vivo la solitudine come qualcosa che, fino a un certo punto, dipende da me.

Mi sento come un marinaio di fronte al mare calmo, ma di una calma che può rapidamente svanire: mare agitato e tempesta sono in agguato. E so pure che tanti sono finiti naufraghi a schiantarsi sulle alte coste della solitudine, dal bianco d’ossa. 
Cerco di navigare, dunque, con prudenza cercando di diventare amico degli dei del vento e del mare. 

Perché lo sento che la solitudine può essere un gran male, se diventa isolamento e vita inautentica. Se diventa una bolla di indifferenza in cui nascondersi e guardare il mondo dalle finestre social mentre ogni notizia, anche la più terribile, scorre nel flusso. E odio l’indifferenza e odio anche la solitudine, se diventa chiusura, barriera tra se stessi e gli altri, per paura di soffrire, per vergogna dei propri sentimenti – anche per una strana difficoltà che si può incontrare nell’elaborarli – o per innata timidezza. 
Guardare una persona negli occhi è tra le cose più interessanti che possano capitare perché gli occhi dicono sempre qualcosa che le parole non possono dire. So anche che può suonare come l’ennesima tirata moralistica, ma in tempi in cui gli schermi delle scatolette digitali occupano molto spazio e tempo, una seppur timida ricerca degli occhi fa parte del calore delle mie giornate. Staccare dal telefono è diventato difficile per tutti e, anche per questo motivo, può capitare che le giornate passino senza lasciare abbastanza segni in profondità. E già, di per sé, non è mai facile stabilire connessioni veramente intime con l’altro. Ma si tratta di momenti preziosi nella vita. Ed è fortunato chi non si fa scoraggiare dagli ostacoli di ogni giorno, chi ci prova sempre riuscendo a creare scintille di spirito, chi non smette di sfregare pietre tenendo viva l’attesa del grande fuoco contro tutto il freddo intorno. 

Solitudine e isolamento tendono a somigliarsi spesso anche per via del politicamente corretto che imperversa sui social. È diventato più difficile incontrare l’altro perché la libertà di espressione viene significativamente limitata: diffidenza e paura di offendere o essere offesi fanno molta ombra. I musi lunghi e un perbenismo, sempre più affettato e ai limiti della paranoia, rendono tutto più freddo e triste.
La solitudine, però, può anche essere un momento bello di vita, se riesce a far parte di un processo di liberazione – anche attraverso scelte scomode o comunque difficili – dalla heideggeriana vita inautentica, dalla vita dei “si dice” e dei “si conviene”, dalla vita delle opportunità e degli opportunismi. In tal caso, meglio soli che male accompagnati, come dice l’antico adagio.

La solitudine può aiutare a cercare se stessi, a sentire la propria voce. Per la via di questa ricerca, si può trovare il modo di esprimersi meglio e si può raggiungere una maggiore armonia con gli altri. E amo la solitudine, se mi mette nelle condizioni di ricercare il mio io interiore e di interrogarmi sul senso di questo stare al mondo, sul senso di questa vita – questa “isola in un Oceano di solitudine”, come scrisse il poeta Khalil Gibran. La amo quando mi aiuta a cercarne dei segni e a trovare il modo di lasciarne almeno uno. 




Ermeneziano Lambiase: Melosolitudine

Ogni melomane è convinto di essere Il Melomane: ha le sue opere preferite, colleziona le incisioni di riferimento (meglio se in vinile), conosce gli allestimenti che hanno fatto la storia della lirica, tifa per questo o quel cantante, conosce “i tempi” dei grandi direttori e le “tradizioni”, odiadora il divismo delle dive, si incanta ad ascoltare i racconti dei vecchi cantanti perché è un po’ come fare
un viaggio nel tempo. Ma più di ogni altra cosa, ogni buon melomane compie un processo di appropriazione di brani (a volte anche solo semplici e brevi passi) delle opere, li fa propri, quasi si convince che l’autore li abbia scritti proprio per lui, e ci costruisce sopra immagini, storie, sentimenti.
Personalmente associo il «Mimì» urlato alla fine di Bohème al Dolore straziante. “Quando ero paggio del duca di Norfolk” è per me la Leggerezza (e l’effetto umoristico-paradossale è dirompente, visto che una musica tutta giocata su pizzicati degli archi e orchestrata con sonorità diafane dei legni, il genio di Verdi la mette in bocca al pingue Falstaff). La quinta essenza dell’Amore è il duetto del finale I atto di Otello (ancora Verdi). Spensieratezza e Gioia di vivere li ritrovo nella cavatina di Figaro del Barbiere di Rossini. La Bellezza in qualsiasi melodia scritta da Bellini.

E così via, procedendo alla costruzione di un privato vocabolario sentimentale.
E la Solitudine? Credo di aver ascoltato per la prima volta Manon Lescaut da bambino quando mio padre, melomane pure lui, passava le domeniche a sentire opere (io avevo il delicato compito di cambiare la facciata del disco), e l’aria cantata dalla protagonista nel IV atto, “Sola, perduta, abbandonata”, mi ha sin da subito comunicato il senso della Solitudine.
Non mi sono mai interrogato circa il motivo di queste associazioni, è qualcosa di istintivo, di pancia, è così e basta. Quando però Carlo mi ha invitato a scrivere qualcosa sull’argomento, ho iniziato a chiedermi “perché?”, o meglio “cosa?”. Cosa mi induce ad associare questa o quella musica a quel particolare sentimento?
Riflettendo sulla Solitudine e l’aria di Manon, al di là della facile suggestione del libretto che recita “Sola, perduta, abbandonata” (ricordiamo che nell’opera sovente il testo è solo un pre-testo per scriverci sopra la musica), posso dire che ciò che ha colpito maggiormente la mia fantasia è il particolare uso che Puccini fa di uno strumento: il flauto. Da grande uomo di teatro quale fu, il musicista colloca un flauto nelle quinte del palcoscenico.

Non era certo un artificio nuovo quello di posizionare musicisti sopra (o dietro) al palco. Ma ci trovavamo di fronte alla cosiddetta musica di scena o musica in scena, categorie ben note a tutti gli operisti. Nel caso di Manon Lescaut avviene qualcosa di diverso. Le frasi del flauto non hanno alcuna relazione diretta con l’azione scenica come accade nelle categorie citate (per intenderci, non si tratta di musica o suoni che verrebbero uditi anche dai protagonisti del dramma). La relazione avviene invece a livello narrativo e drammaturgico. Perciò non musica di scena né musica in scena, bensì musica sulla scena. Con ogni probabilità Puccini è stato fra i primi grandi operisti a capire l’importanza della spazialità del suono (pochi anni dopo avrebbe lasciato meticolose indicazioni sul posizionamento delle campane del mattutino di Tosca).

La voce del flauto che ci parla dalle quinte ci restituisce quel malinconico senso dell’altrove che i francesi chiamano ailleurs, e che non avrebbe avuto se invece il suono fosse arrivato dalla fossa orchestrale. L’effetto è straniante, il timbro si fa spettrale, a evidenziare una distanza che è non solo fisica, ma soprattutto emozionale.
Insomma quel flauto posto lì, isolato dal resto del golfo mistico, segna il passato e il presente di Manon, è ricordo e consapevolezza di un destino che sta per compiersi. Quel flauto rappresenta, almeno nel mio vocabolario sentimentale (e magari anche in quello di Puccini), il manto di solitudine che lento e inesorabile avvolge Manon morente.




Elisabetta Di Marino: Un’affollata solitudine

Non c’ è solo una solitudine “fisica” ma anche la solitudine che si prova circondati dagli altri, nella propria famiglia, nella cerchia dei propri amici, nell’ ambiente di lavoro; è quella della non-comunicazione e della incomprensione. È una condizione pesante e frustrante che alla fine logora quanto la “vera” solitudine anche se non ne ha il silenzio/silenzio, l’assenza di affetti, l’isolamento. Apparentemente.
L’amore, l’affetto anche quello ancestrale e biologico, quello naturale tra madre e figlio, quello inestirpabile, anche esso vive di comunicazione, di condivisione, di complicità, di compatibilità. Senza queste modalità il rapporto diventa sofferto e monco. Come si arriva ad una tale situazione? Cosa può provocare questo senso di solitudine tra una folla di presenze?

Se escludiamo una condizione puramente soggettiva, di disagio comunicativo ai confini con qualche psicopatologia, i motivi possono essere diversi. Ci sono elementi “divisivi” che scavano fossati tra gli esseri umani e questi possono concretizzarsi in passioni, gusti, sensibilità, visione del mondo, conoscenza, maturità, esperienze diverse. Tutto questo erge steccati. La condanna al silenzio è il prezzo che si paga al mondo degli affetti per la propria diversità. E dunque questa solitudine è un fardello che non genera empatia, che non produce il balsamo della comprensione. Al contrario ti circonda di insofferenza e rifiuto.

In una recente visita dal mio endocrinologo, scambiandoci notizie e considerazioni sugli ultimi aggiornamenti scientifici sul ruolo delle disbiosi in una serie di affezioni che coinvolgono l’ asse intestino/cervello, il dottore ha osservato: “Ma lei che conosce tanto su questi argomenti, non è molto isolata?
L’ ho guardato, assentendo con un senso di grande amarezza: “Certo, dottore!
E lui ha continuato: “Eh, immagino, spesso, al di fuori dell’ ambito professionale, l’ isolamento me lo vivo io che sono medico, figuriamoci lei che non lo è“. Appunto. Ma questo è solo un esempio. Come fare, allora? Allenarsi a separare affetto e comunicazione, amore e condivisione. Comunicare solo con le persone (ci sono, sì, per fortuna) con le quali si con-divide. Imparare ad amare nonostante la solitudine.

Per Voltaire la più felice di tutte le vite è quella di una solitudine affollata. Vediamola così. Occasione di crescita interiore, ridimensionamento del proprio io, accettazione della impossibilità di comunicare, esercizio di amore incondizionato per l’ altro.




Alberto Barone: solitudine di massa

Caro Carlo altri temi suggeriti da te non hanno riscosso lo stesso interesse. Qui invece si è formata una coda: tutti in fila per scrivere della solitudine, i più della propria come se non ce ne fosse di peggiori, oppure per esorcizzarla, testimoniare una condizione che non ci appartiene, per dire che ne siamo immuni, protetti, o nascosti da una autocondizione di sicurezza che ci rende intoccabili.

Illusi: la solitudine è sempre in agguato; si fortifica con molti alleati fidati, che non la tradiscono, a cominciare dall’interesse, forma predatoria che quando si abbatte non fa prigionieri e distrugge ogni possibile legame, ben celata dietro maschere accattivanti, addobbate con principi etici falsi quanto banali. Di fronte all’interesse che si impone non c’è difesa, c’è sempre qualcuno o qualcosa che ‘vale’ più di te, degli affetti che hai riversato, delle cure, delle tensioni emotive, degli sforzi per realizzare una relazione in grado di metterti al riparo. E poi accade, non te ne accorgi e ti giunge di fronte, senza preavviso, resti solo e solo il fallimento ti fa compagnia.
Ma chi è veramente solo: chi ha dato o chi ha preso? E a Londra, in quel triste appartamento dov’è la solitudine: in quelle mura o nel clamore urbano di una città che non sa proteggere un bambino di due anni?

Lì, in due stanze si consuma la tragedia: il padre è colpito da infarto ed il bambino che è con lui – ha solo due anni – lo segue tra gli stenti di una morte non improvvisa ma lenta; il ritrovamento avverrà,  ma dopo giorni, sempre troppo tardi, tranne che per il cane: sopravvive per gridare che il dramma della solitudine è lì fuori, ed avvolge quanti non sanno salvare i naufraghi di tante Cutro e la bambina morta nel deserto, vicina a sua madre. Ormai la solitudine non è più del singolo, per favore non mi si parli della solitudine del capo, siamo seri, quella è arroganza del potere. La solitudine ha contagiato, si è estesa, è un ‘UNO’ collettivo che raccoglie un sentimento sociale e non riesce a trattenerlo. C’è una condizione esistenziale specchiata negli occhi terrorizzati di un cane a dire tutto questo.