Sogno americano

di Giancarlo Durante

Ma non scherziamo. Negli Stati Uniti bisogna andarci. E, per chi ne ha la possibilità, consiglio di andarci spesso. Escludere gli USA dagli itinerari turistici solo per partito preso, per una visione grossolanamente ideologica, perché gli States sono marchiati come regno del male, fa parte di un anti americanismo ormai fuori moda e fuori luogo, tribale, un falso apoftegma per gli amanti del greco antico, perché confonde le enormi responsabilità che gli USA hanno avute nelle politiche d’imperialismo a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale con le infinite sfaccettature di un mondo che contiene tutto e il suo contrario e la cui complessa storia sarebbe un delitto ignorare. Deponete, perciò, cari amici, l’abito del turista europeo(peggio italiano, peggio ancora di sinistra)spocchioso e con la puzza al naso. Allenate la vista l’olfatto l’udito e anche il gusto agli eccessi, lasciandovi trasportare dalla voracità del conoscere, dalla bulimia di nuove esperienze sensoriali e soprattutto abituatevi a standard abnormemente amplificati:createvi un nuovo concetto di dimensione. Perché in USA la quantità, per incanto, si trasforma in qualità. Dalle piazze ai giardini, dai grattacieli all’intensità delle luci, dai suoni alle pinte di birra, dalle prime colazioni dei cuochi obesi dei college alle adunate delle più pittoresche sette religiose, tutto in America è esagerato, dilatato. Bello perché profondamente diverso dalla nostra tranquilla ipocrita realtà strapaesana. Se non c’è questa precisa disposizione di animo, se non si materializza questa speciale“apertura”mentale, lasciate stare: gli States non sono fatti per voi! New York, poi, è una città stupenda. E per chi ama il cinema, come si fa a non associarla all’immagine che viene fuori dai films di Woody Allen, contaminati dalle atmosfere patinate e dai riti e vizi della medio-alta borghesia newyorkese, che ignora l’infimo dei sobborghi violenti e delle sterminate e dimenticate periferie della città? New York rimane, comunque, impareggiabile:un luogo dove ti può capitare di essere proiettato in un futuro astratto, apparentemente anonimo, ipertrofico e ipertecnologico, come il World Trade Center, con l’ascensore che in 1 minuto ti proietta al 100° piano o a sperimentare l’inno apotropaico della scultura del Bowling Green Bull a Wall Street. Una città dove puoi aspettarti di essere “sequestrato” dalla simpatica proprietaria di un bar (strano i chioschi a New York non possono servire alcolici! ), alla quale non sembra vero di poter raccontare di essersi recata due volte in Italia a degli italiani:giusto per farti illudere un attimo di essere una persona importante.

E insieme restare basito di fronte alla scena del gruppetto di ragazzine sorvegliate da un anziano “signore” mentre escono da un Mac Donald’s per fuggire di corsa chissà dove nell’indifferenza della moltitudine della Quinta Strada. Come restare impassibili , poi, ai canti e balli lungo la spiaggia di Long Beach o al frastuono del Luna Park di Coney Island o quando vai a cercare ciò che resta dei fasti di quella che, una volta, era la Little Italy, ingoiata dagli impenetrabili quartieri di China-Town?E se per avventura ti dovesse capitare di visitare qualcuno degli stupendi Colleges Universitari del New England, non sarebbe difficile calpestare immensi spazi verdi, boschi abitati dagli animaletti più strani che pensavi comparissero solo nelle storie di Walt Disney. In quale altro luogo al mondo puoi, poi, scoprire lo stesso orgoglio e lo stesso patriottismo che mostrano gli americani nella cerimonia dell’alzabandiera, se non recandoti a Philadelphia, al Memorial Day? Come pure qualcosa in più potrai capire della recente storia americana se ti avventuri sul lungomare di Baltimora, luogo citato, persino, nei fumetti del Grande Blek. E quando ti rechi a Boston, sai che ti trovi in uno dei maggiori templi della cultura, della storia e del progresso non solo americano, sede dell’ Harvard University e del Massachusetts Institute of Technology. E nessuna emozione ti assale nell’aggirarti a pochi passi dalla Casa Bianca o, autorizzato, quando ti permettono di visitare un’ala del Campidoglio? E non dirmi che non ti solletica un po’ entrare in una capsula spaziale al National Air and Space Museum di Washington? Con qualche giorno in più di permanenza potresti, poi, solcare in canoa gli incontaminati corsi d’acqua e i laghi dell’Oregon, lo Stato americano che offre uno dei sistemi sanitari più avanzati al mondo. E andare a vedere le famose Cascate, e gli Stati del Middle-West e quelli del Sud, i deserti dell’Arizona e il New Mexico, la Florida, la California, la musica di New Orleans, la Silicon Valley e Disneyland, e così via. La Repubblica Federale degli Stati Uniti d’America conta 50 Stati, pochi localizzati fuori dal territorio americano, gli altri distribuiti su di una superficie che è più di trenta volte quella dell’Italia. All’interno di ciascuno di questi stati trovi una ricca, caleidoscopica società pulsante, lontana, però, dagli stilemi e dai ritmi di vita di noi, abitanti del Vecchio Continente. Non è una novità, quindi, se scopri che in America c’è troppo da conoscere e troppo da vedere e appare naturale mostrare un iniziale moto di rigetto. Iniziale, però. Perché se ti riprendi, in America poi ci torni. Così alla fine ti accorgi che le cose sono tante, troppe, da poter essere contenute e banalizzate in una paginetta del blog di Carlo. Sterminati i territori e le metropoli e sterminata la letteratura americana. Così, col rischio di avvicinarmi pericolosamente al senso del ridicolo oso proporvi due testi che mi vengono in mente (il tempo sta diventando sempre più risicato e da leggere c’è ancora tanto e pure i luoghi da visitare al mondo sono ancora troppi e diversi sono gli spezzoni di vita vera ancora da vivere). Il primo un po’ fuori dagli schemi abituali é formato da storie di ordinaria normalità, un autentico gioiello di lettura “leggera”che esce fuori da un libro edito nel lontano 1964 e acquistato per 350 lire come Oscar Mondadori, che si chiama ”Che ve ne sembra dell’America?” e l’autore non è di quelli stra-conosciuti:William Saroyan. Il secondo è dell’arci-noto David Foster Wallace. E mi sembra illuminante riportarvi qualche passo significativo, tratto da uno dei suoi pamphlets più noti“Considera l’Aragosta”.

Il Festival dell’Aragosta del Maine, immenso , pungente ed estremamente ben pubblicizzato, si tiene ogni anno a fine luglio. . . L’affluenza totale quest’anno ha superato le centomila persone, . . Food & Wine proclamava il F. A. M. forse la migliore festa a tema gastronomico del mondo. Ricordo che l’industria alimentare statunitense produce circa quaranta milioni di chili di aragosta e il Maine è responsabile per più della metà del totale. Punti salienti di questa edizione sono: concerti di Lee Ann Womack e degli Orleans, concorso di bellezza, annuale Dea Marina del Maine, grande Parata del Sabato, corsa sulle casse in memoria di William Atwood, di domenica:gara di cucina amatoriale , giostre e attrazioni da luna park, e stand di roba da mangiare , oltre al al tendone del Ristorante del F. A. M. , dove vengono consumati qualcosa come più di undicimila chili di aragosta del Maine appena pescata, cotti nella Pentola per aragosta più grande del mondo vicino all’ingresso nord della Fiera. . . Il Festival , alla fine, non é poi così diverso dalle sagre del granchio nella regione del di Tidewater, dalle sagre del granturco del Midwest, o del chili con carne in Texas, eccetera, e con queste ha in comune il paradosso di fondo di tutti gli eventi commerciali demotici e brulicanti: non è per tutti. In realtà c’è molto da dire sulle differenze fra la Rockland operaia e il sapore populista del festival vs l’agiata ed elitaria Camden con il suo panorama costoso e i negozi ceduti a maglioni costosissimi e schiere di villette trasformate in B&B. . . . Essere turisti americani di massa per me significa diventare puri americani dell’ultimo tipo ; alieni, ignoranti, smaniosi di qualsiasi cosa che non si potrà mai avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare, per mera ontologia, quell’ incontaminatezza che si è andati a sperimentare. Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi non-economici, migliori e più veri senza la nostra debordante presenza. Scrivendo queste righe mi è venuto alla mente quel che un po’ di anni fa mi confessò una cara amica venuta a trovarmi per la prima volta a Cava. Ti devo dire la verità, mi disse, seria e con un tono solenne, asseverativo, ho preso un maglione in un negozio di Cava; ma l’educazione e la bonomia che ho trovato comprando un vaso di ceramica a Vietri non le ho riscontrate nella vostra città. Sarebbe lungo raccontarti, le risposi, cara mia, ma la gente di Vietri, sai, ha origini etniche un po’ diverse da quelle dei cavesi. Poi l’aria di mare. . . ! Tanto per dire:fantasioso e originale archiviare con una battuta”turistica” Cava e i suoi cittadini, un po’ più arduo farlo quando si maneggiano America e Americani!




Giancarlo Durante: Praga ’78 nera e misteriosa bellezza

 Vivere è stare sveglie concedersi agli altri,
dare di sé sempre il meglio e non essere scaltri.
Vivere è amare la vita coi suoi funerali e i suoi balli,
trovare favole e miti
nelle vicende più squallide.
Angelo Maria Ripellino – da Wikipedia-

Avevo da poco compiuto i 18 anni quando Jan Palach il 16 gennaio del 1969 volle esprimere la sua fiera opposizione alla dittatura imposta dai sovietici in Cecoslovacchia, dandosi fuoco in Piazza San Venceslao a Praga. Immolare la propria vita per ideali così alti da parte di un giovane, quasi mio coetaneo, colpì, e, in qualche modo, segnò molti di noi, incuriositi dai movimenti libertari che si andavano sviluppando negli Stati Uniti, in Francia e in quasi tutta l’Europa Occidentale. Ci fu questo, ma anche altro, a spiegare perché dieci anni dopo fui spinto a visitare “la nera bellezza” di Praga. Un po’ di tempo prima con amici, mentre attraversavamo la Cecoslovacchia per raggiungere Cracovia, in un viaggio che precedeva non di molto i tic maschilisti di un’ italietta non solo da sottoproletariato (come raccontato nel film icona di Verdone “Un sacco bello“) , avevo conosciuto una ragazza che ci aveva chiesto un passaggio in auto per qualche chilometro. Come appresi dalla corrispondenza epistolare intrecciata, che seguì quella rapida conoscenza, Jana si era, poi, iscritta alla Facoltà di Lingue proprio a Praga. Decisi di andarla a trovare e di visitare quella splendida capitale europea, tante volte immaginata leggendo l’incredibile descrizione che ne volle fare Angelo Maria Ripellino in “Praga Magica”. ”Una città che chi l’abbia guardata una volta nei profondi occhi trepidi e misteriosi, resta per tutta la vita succubo dell’incantatrice. . . . , per secoli nido di avventurieri senza pietà né legami, …. dalla quale ciascuno strappava, ingoiava un pezzo della viva polpa . . . , la quale dava sino ad esaurirsi, senza che alcuno le si desse, per ripagarla di ciò che le aveva tolto”.

https://www.facebook.com/watch/?v=823490361610228

Arrivato di buon mattino con viaggio aereo da Roma mi recai al Centro della Città presso l’ Ufficio di Turismo Giovanile, al quale mi ero precedentemente iscritto. Mi consigliarono, o meglio mi assegnarono, una sistemazione presso una delle camerette ricavate da un barcone ancorato su una delle due rive della Vltava. Ero un giovane Medico senza grandi disponibilità economiche e senza grosse pretese. Accettai, recandomi subito a fare il check-in in quella sorta di piccolo Hotel. Attraversando Vaclavske Namesti (Piazza San Venceslao), il lungo boulevard, che ha inizio dal Narodni Museum e si biforca, poi, in due importanti arterie (una delle quali è l’elegante Na Prikopè), oltre che dai palazzi dell’antica nobiltà ceca requisiti dallo Stato e trasformati in raffinati ristoranti, rimasi incuriosito dai tanti giovani in istrada che con passo veloce, imbracciando le custodie di vari strumenti musicali, si recavano a lezione di musica. Risulterebbe noioso e ridondante elencare i percorsi (e nemmeno li ricordo tutti), riportati in qualsiasi guida turistica e rivissuti tanti anni dopo con Rosanna:Mala Strana e il Ponte Carlo, La Piazza della Città Vecchia, la Torre dell’Orologio, il Teatro Nazionale, la Cattedrale di S. Vito, e il Municipio di Praga, oltre all’impareggiabile Castello di Praga con la sua Viuzza d’oro.

Vi dirò, quindi, un po’ della mia Praga del ’78.

Uno dei miei desideri (forse perché da poco avevo finito di leggere Il Castello) fu quello di visitare la tomba di Franz Kafka, situata presso il Nový židovský Hřbitov (il Nuovo Cimitero Ebraico). In un luogo che certamente non trasmette allegria, mi venne d’immaginare che se per avventura quei feretri, quelle ossa con un sussulto si fossero anche per pochi istanti riappropriati dei propri corpi, non avrebbero potuto che gridare “Non dimenticate in quale abisso la natura umana può sprofondare”. O qualcosa di simile. E non erano solo le ombre di quelle poche centinaia di ebrei sopravvissuti alla furia dell’olocausto. C’erano anche le vittime della Resistenza alla dittatura comunista del ’68 e altri ancora: tutti quegli onesti, composti, spesso colti cittadini cechi, slovacchi, tedeschi, ebrei costretti in terra boema a lunghi anni di tirannia, nella condizione di paura e terrore che si hanno quando si è privati di libertà essenziali. Quest’immagine trasmessami dalla città di una “defenestrazione assoluta”, come l’ha appellata qualcuno, mi accorsi non poteva essere disgiunta da un’altra, simmetrica e opposta, che si ha osservando di sera Praga dalla sommità del Castello di Hradcany.

”Se guardi di lassù Praga, che accende ad una ad una le sue luci, ti senti come uno che volentieri si getterebbe a capofitto in un lago chimerico (V. Nezval)”. Ti accorgi, così, che  “il lutto cosmico, il lato misterico e l’ambiguità” di Praga non poteva avere una descrizione più appropriata e commossa di quella offerta da Ripellino nelle lunghe pagine del suo libro su Praga.

Incontrai la ragazza nel suo collegio femminile situato non lontano da una fermata della metro di Piazza della Pace. Le avevo portato come regalo un profumo italiano e l’ultimo L. P. dei Pooh, che ascoltammo insieme alle sue colleghe di stanza. Cenammo in uno dei ristoranti di Piazza San Venceslao.

Poi la riaccompagnai (era molto tardi) con la metro al collegio e mi avviai a piedi in una serata freddissima e umida verso la riva della Moldava, dov’era situata l’imbarcazione. In un silenzio abissale con la speranza, tutta giovanile, d’incontrare il Golem e i Vodnik (folletti) in una di quelle stradine, rese scivolose dalla neve caduta copiosa nei giorni precedenti e poco illuminate da lampioni, quasi ottocenteschi, raggiunsi, trafelato, la mia accogliente e calda sistemazione alberghiera. Il giorno successivo Jana venne a prendermi presto sul lungo fiume. La sera precedente avevamo concordato di concederci una gita fuori porta per recarci in autobus a Karlovi Vary, a due ore circa da Praga. Visitammo la cittadina e le Terme di Karlsbad, quasi vuote, per via della stagione. Prendemmo un gelato e ricordo ci fu qualche effusione tra di noi. Ci demmo appuntamento per un paio di giorni dopo (i cellulari erano ancora di là da venire) ad uno spettacolo, forse di mimi, che davano al famoso Teatro Laterna Magika, tuttora in funzione. Quando mi ero recato in mattinata a prenotare i due biglietti mi accadde, però, un episodio, che all’inizio, mi parve irrilevante nell’economia del viaggio, ma che, ripensandoci tempo dopo, credo non lo fu affatto. Mi si avvicinò all’uscita dal teatro un signore, minuto, sui quarant’anni che, rivolgendosi a me in francese, mi chiese con tono apparentemente “minimal” e distratto, di quale nazionalità ero, i motivi per i quali mi trovavo da solo lì in Cecoslovacchia nel mese di dicembre e il luogo dove alloggiavo (ricordo che era il 1978, dieci anni dalla brutale repressione di Praga e con l’Italia squassata dal terrorismo delle Brigate Rosse).

Insomma credo si trattasse di un poliziotto della famigerata StB della Cecoslovacchia Comunista (Státní bezpečnost). Il giorno successivo l’impiegato della ricezione dell’Alberghetto, mi comunicò, con mia sorpresa, che loro per Natale dovevano chiudere e che io avrei dovuto lasciare quella sistemazione, ma anche il Paese, in quanto non c’erano posti liberi in altri alberghi. Ebbi solo il tempo di andare nel collegio femminile, salutare Jana e cambiare il biglietto di aereo per un ritorno frettoloso e anticipato in Italia. Questo è quel che resta di un viaggio, il cui ricordo non è stato mai completamente sepolto e che, a volte, torna a galla come un rigurgito mai assorbito, come una falla mai sanata, riaffiorato grazie a quegli strani intrecci che talvolta la memoria sa offrirci.

Il vecchio Tupolev atterrò con qualche difficoltà a Fiumicino in una mattinata piovosa, illuminata dai fulmini di un temporale a ridosso di un lontano Natale. Girò per un bel po’ in alto sopra l’imbronciato cielo di Roma, con le segnalazioni luminose rosse vicino alle portiere dell’aereo che avvertivano “uscita di emergenza”, scritte in quella strana lingua. L’aereo con un’improvvisa virata, poi, finalmente si decise ad atterrare a Fiumicino sull’asfalto bagnato. Scendendo dalla scaletta, non mi sfuggì la gioia concitata con cui l’ambasciatore ceco a Roma accolse la giovane figlia seduta (per caso?) appena accanto a me durante il breve tragitto. L’esperienza di quel viaggio fu toccante: Praga si confermò ai miei occhi di una bellezza abbagliante e misteriosa. Ma di colpo mi assalì, improvviso, un insolito senso di liberazione, come di chi avesse compreso qualcosa in più della fortuna di vivere nel suo Paese. Anche in quello, allora, squassato da tensioni e drammi e quasi sull’orlo di una guerra civile.




Antonio Polichetti: viaggio nel tempo, quarta dimensione

Era un tardo pomeriggio d’Autunno e osservavo il cielo perché era davvero particolare in quel momento. Andavo un po’ di fretta per la verità, ma decisi di provare a scattare una foto perché una scena così non mi era ancora capitato di vederla. Tra le nuvole, si vedevano due occhi grandi e molto accigliati. Sembravano proprio gli occhi di Dio, per nulla contento della sua creazione, un pasticcio riuscito male questa volta: troppe ingiustizie, troppe guerre, troppa crudeltà e noncuranza verso la vita, con questi umani che sembrano rifuggire dalla ricerca di un senso più profondo nello stare su questa terra. È impossibile capire l’effetto che farebbe osservare il tutto da lassù, in un colpo solo. La natura stessa sembra tutta in collera, a momenti, quando il vento infuria e poi scoppia in un pianto a dirotto di pioggia e grandine, per rendere il dolore più freddo. Un cielo grigio può essere tremendo. Amore e nostalgie lontane si aggrovigliano tra castelli di nuvole. Poi, però, mentre guardo un fiore giallo, arriva un raggio di sole, che come un bel sorriso, scaccia l’ombra. 

Sono suggestioni, anche abbastanza comuni. Perché, se sei triste dentro, puoi esserlo anche su una spiaggia assolata davanti al mare azzurro. Il problema, per me, non è viaggiare – lo faccio pure, appena posso -, ma cercare di capire quanta energia ho per viaggiare dentro, quanto riesco a guardare con occhi diversi il posto che vedo ogni giorno – per ogni passo un ricordo, un incontro – e cercare di capire come affrontare la difficoltà dei cambiamenti, dentro e fuori di me. 
Mi capita spesso di pensare a Dio, da un po’ di tempo a questa parte. Troppe domande, nessuna risposta. Ciò che è bello, giusto, vero, cos’è e dov’è? E sarà poi questo? Cercare tracce di Dio – la fede o il sogno di migliorare come persona, di lasciare possibilità sempre aperte – questo è il viaggio che cerco di fare, l’esplorazione più difficile che abbia provato ad intraprendere. 
Parlo di viaggi che non posso fare fisicamente, dunque. I viaggi immaginativi sono quelli che amo e che , spesso, mi portano in una quarta dimensione, quella del tempo. 
Sono viaggi dove, ad un certo punto, mi sono ritrovato a colazione – molto tardi – con un sonnacchioso Baudelaire in un caffè parigino. Un’altra volta, invece, ero da qualche parte in Louisiana a fare l’autostop insieme a Jim Morrison: Los Angeles era ancora lontanissima, l’attesa lunga, ma, con la lettura di una poesia dopo l’altra, eravamo già in viaggio verso altre mete. Volevo domandargli da dove fosse riuscito a tirare fuori Light my fire, ma poi ho capito che Light my fire era proprio lì, davanti a me. Light my fire era lui. 
Un giorno – sembra ieri – ero alla Cheetham Library di Manchester e cercavo frettolosamente un panno fresco o una bevanda, una qualsiasi cosa che potesse dare sollievo. Dovevo aiutare Engels. Era appena tornato da uno dei suoi sopralluoghi. Aveva come gli occhi in fiamme per ciò che aveva visto, ma – la testa dura come la roccia – voleva mettersi immediatamente a lavoro per denunciare l’inumano sfruttamento della classe operaia in Inghilterra. E in uno di questi viaggi in quarta dimensione, mi è capitato persino di trovarmi nella stanza di lavoro di Mussolini, 1939. Sorrideva, come si fa con i bambini, nel leggere la lettera che Francesco Saverio Nitti gli aveva mandato da Parigi, dal suo esilio antifascista. Gli stava spiegando, come un vero statista sa fare, che l’ingresso dell’Italia in guerra sarebbe stato un errore tragico, una sciagura da evitare in ogni caso. Non so come, riuscii a trovare il coraggio di battere un pugno sul tavolo e di dirgli che, se non si fosse separato da Hitler, sarebbe stata la Storia a farsi beffe di lui e di tutti i suoi ripugnanti servi propagandisti, pronti a gridare alla guerra senza mai doverci andare davvero. Gli dissi che, ancora una volta, i padri avrebbero seppellito i propri figli, che sarebbe stata la rovina per tutti noi e per le generazioni a venire. Non so come andò a finire. Devo essermi risvegliato altrove. Ma fu un viaggio inutile, come altri che non vale la pena richiamare. 
Poi ricordo anche di quando rincorrevo Ernesto “Che” Guevara e Alberto Granado, la neve di Val Paraiso tutta addosso. Non avevo la vecchia Poderosa come loro. Erano troppo avanti in ogni caso, ma le loro tracce sono sempre così vive, per quanto tanti cerchino di cancellarle. Da lì, mi è venuto in mente Troisi e il suo Postino e, sempre in Cile, iniziai a cercare Pablo Neruda. Anche io volevo parlare con lui di amore, di poesia e degli occhi della più bella. Per lei ho perso la testa, tempo fa. In un altro viaggio, ho lasciato tutto di colpo e sono corso da lei per dirglielo ancora una volta, per trovare il modo di farglielo capire, veramente. E ancora una volta, mi mancava quasi la voce e il cuore batteva forte. 
In questo cuore si muovono tante cose, nella quarta dimensione del tempo, dove tutto si fonde e niente resta fermo. In questo viaggio non ci sono mete da raggiungere, niente è stabilito una volta per tutte e ogni volta ho la possibilità di ricercare il senso possibile di tante cose nello stesso percorso mutevole. E sono con me tutti i maestri che ho incontrato, tutti coloro che, da quando ero un bambino fino ad oggi, mi hanno insegnato qualcosa, che mi hanno fatto crescere. Loro sono qui con me e lo saranno sempre. 

Questo è il mio viaggio, o meglio, il mio sogno di viaggio e desiderio inesprimibile

“Il desiderio inesprimibile
che mai vita né terra esaudirono, 
ora tu, viaggiatore, 
salpa e va’ a cercarlo,
va’ a trovarlo” .

(Walt Whitman) 




Elvira Coppola Amabile: l’Italia siamo noi?

Una giornata particolare! Aldo Cazzullo.
Da buon piemontese ha raccontato l’impresa dei mille con la solita retorica sul risorgimento. Verità bugie come al solito. Le vergone crudeli nascoste… come al solito… le glorie esaltate come al solito… curiosità svelate …pettegolezzi. Come le donne arruolate, Anita Garibaldi e la moglie di  Francesco Crispi, Rosalia Montmasson.
Ma cosa importa…
L’Italia siamo noi.
Oggi lontano dai libri di scuola che ci istruivano magnificando l’unione, sappiamo che la storia la raccontano i vincitori.
Un po delle verità sconosciute fino ad ora l’ho scoperte in un libro di un giornalista Gigi Di Fiore. “Controstoria dell’unitá d’Italia.” Poi ho continuato a documentarmi.
Franceschiello il re imbelle cugino dei Savoia. Non capí che doveva reagire! Non capì che forse firmando la costituzione avrebbe salvato il suo regno, se stesso, e forse l’Italia. Non capì. Aveva ventiquattro anni era orfano e re da solo due anni. Timido, bigotto con una madre in odore di santitá. Complessato suppongo.
La regina Sofia? Lei era fiera e ribelle e voleva che il re si ribellasse all’aggressione.
Il Re lo capí tardi. Troppo tardi. Fuggirono a Gaeta. E poi a Roma e poi al nord…Francesco II finí i suoi giorni ad Arco di Trento modestamente. Andava al bar a leggere i giornali e molti non sapevano chi fosse. Fabiani mi pare si facesse chiamare.

Non aveva depredato la corona, e disse che il tesoro non gli apparteneva. Ci pensarono gli invasori a depredare. Come tutto il resto. Un buon uomo molto religioso e imbelle, non adatto a fare il re. Soprattutto non la guerra. Era benvoluto dal popolo in ogni caso.

La regina Sofia sorella di Elisabetta (Sissi) era indignata per le titubanze del marito. Era molto amata dalla gente e fu apprezzata anche altrove. D’Annunzio la chiamava Aquiletta bavarese. Era sempre presente ad aiutare, era caritatevole e generosa. Curava i malati personalmente. A Gaeta ultimo rifugio, ancora la venerano. Quando morì re Francesco, Matilde Serao sul Mattino scrisse di lui definendolo “galantuomo e gentiluomo”.
La storia la scrivono i vincitori.
Ci raccontarono che Mazzini, Crispi, Garibaldi erano fautori di gesta eroiche. Non dissero che  ebbero pure una fortuna sfacciata! E ci fu anche un tradimento dei loro stessi ideali. Garibaldi, Mazzini, Crispi e Bixio avrebbero vagheggiato una repubblica e non un altro regno… quello dei Savoia.
E comunque la storia é andata. E forse non poteva che andare così.
Ma mi chiedo spesso se i Borboni tanto disprezzati avrebbero costretto alla fame il popolo, umiliandolo rendendolo  vittima della disoccupazione e quindi costretto ad emigrare in massa. Mi chiedo se avremmo avuto la dittatura fascista, il sogno folle delle colonie. E le guerre. Una e poi ancora un’altra.
E forse non poteva che andare così.
E io amo la nostra Italia.

Ma un monumento ai caduti mi fa pensare. Erano operai dell’acciaieria più grande e progredita d’Europa. Le Ferriere Ferdinandee di Mongiana in Calabria.  Furono  trucidati dai piemontesi perchè li supplicavano di non distruggere la fabbrica. Era la loro vita il lavoro era la loro sopravvivenza. Ed era apprezzatissima.
Il nostro passato Borbonico era ed è degno di conoscenza e rispetto. Il regno delle due Sicilie aveva costruito a Napoli  grande come una reggia “l’albergo dei poveri”.  Aveva dedicato San Leucio alle seterie: un paese intero per un artigianato raffinato e prestigioso con tutte le infrastrutture più avanzate per l’epoca. Ancora oggi prezioso e unico. Non voglio elencare le regge l’università il San Carlo i musei gli scavi. E non voglio parlare dei posti destinati al popolo dei ricchi nobili.
Ma voglio citare le leggi per proteggere le corallare di Torre del Greco altrimenti costrette a prostituirsi per sopravvivere alla povertà quando i mariti pescatori non rientravano.
Tutte le strade di Napoli erano progetti Borbonici. Via Cavour Via dei Mille….
Velocemente ho rammentato qualcosa per suscitare interesse come è successo a me.  Allora cerchiamo almeno di conoscere qualcosa in più. 
Senza giudicare. Tanto non serve.
Solo per sapere.
Forse non era cosí atroce la vita sotto la monarchia Borbonica confrontata alle altre europee e a quello che sopravvenne in seguito soprattutto al sud. I latifondisti opprimevano i contadini. Stettero meglio dopo?
Basta.
Ora teniamoci la nostra amata tormentata Italia.
Rispettiamola e proteggiamola consapevoli dei sacrifici costati a tanti. 




Fabio Senatore: la vita è un viaggio

Ci sono sicuramente molti modi di viaggiare: prendere un treno, un aereo, partire in macchina, e io, inoltre, amo molto entrare in un buon cinema ed aspettare che le luci si spengano.
Un film che mi ha fatto volare la mente è “Into the Wild – Nelle terre selvagge” del grande Sean Penn, magnifico attore e – in questo lavoro – grande regista.

La storia vera del neo-laureato Christopher McCandless che nel 1992, a 22 anni, stanco del consumismo e del benessere fittizio, decide di abbandonare la famiglia e le promettenti prospettive di studio e professione, dà in beneficenza tutti i suoi averi e affronta un viaggio senza nessun sostegno né economico né umano, che lo porterà nei luoghi più selvaggi degli Stati Uniti fino a immergersi nell’immensa natura dell’Alaska, che segnerà per sempre la sua esistenza. (Quattro mesi dopo verrà trovato morto accanto al suo diario, grazie al quale verrà ricostruita la sua storia).

Il capolavoro di Sean Penn riesce ad emozionare il cuore e ad aprire la mente dello spettatore. Non esiste la minima banalità in un racconto di due ore e mezzo, che ti trasporta in un viaggio stupendo per gli Stati Uniti d’America fino ad arrivare alla terra selvaggia dell’Alaska.
Un personaggio con una purezza d’altri tempi, che ti lascia in corpo una grande voglia di libertà. Tutto molto bello, ad iniziare da una regia e da una fotografia che mi hanno lasciato a bocca aperta, uniti ad una colonna sonora veramente stupenda.
La ricerca del protagonista è estrema, senza mediazioni, propria di un giovane idealista di 22 anni: vuole vivere il rapporto con la bellezza e con la natura in modo diretto, completamente solo, con il suo personale sguardo e tramite la sua ricerca di assoluto. Per questa ragione si ribella alla “american way of life”, distrugge le proprie carte di credito, cancella le tracce del suo passato, si mette in viaggio senza denaro, rinnega i rapporti convenzionale e ipocriti.

La maestà dell’Alaska, le foreste sconfinate, i corsi d’acqua che, durante il disgelo, diventano prorompenti e scendono rapidi verso valle trascinando la loro portata gigantesca, il relitto di un autobus che offre un riparo provvisorio, tutto ciò fa da cornice a un viaggio inteso come ricerca interiore ed estremo approdo.Coinvolgente e trascinante, questo film prende e porta con sé lo spettatore, il regista ha saputo modulare le immagini e i numerosi primi piani sul bravissimo protagonista coinvolgendo lo spettatore fino in fondo, arrivando così al termine della stupenda storia, che poi lascia un fondo di amarezza in chi assiste a questa evoluzione del protagonista.
Un viaggio senza ritorno che dà spazio a molte cose su cui riflettere. Immenso.

Ecco una scena del film

La storia di Christopher McCandless è anche un libro scritto da Jon Krakauer che si imbattè quasi per caso in questa vicenda, rimanendone quasi ossessionato, e scrisse un lungo articolo sulla rivista “Outside” che suscitò enorme interesse. In seguito, con l’aiuto della famiglia di Chris, si dedicò alla ricostruzione del lungo viaggio del ragazzo: due anni attraverso l’America all’inseguimento di un sogno. Questo libro, in cui Krakauer cerca di capire cosa può aver spinto Chris a ricercare uno stato di purezza assoluta a contatto con una natura incontaminata, è il risultato di tre anni di ricerche.

Se volete dare un’occhiata prima di acquistarlo potete leggerlo qui

https://nuvola.porticando.eu/s/eNcXxDQGRd3sfNa




Gerardo: Via Crucis 2024




Elvira Coppola Amabile: proposta di viaggio




Fabrizio Obso Di Baldo

Mi è sempre piaciuto viaggiare, quando ero bambino mi piaceva quell’emozione che provavo nei giorni antecedenti la partenza. Si cominciava con lo scegliere i vestiti che sarebbero stati i più adatti al luogo di destinazione. Se si andava al mare allora era facile, ma la montagna creava un clima di estrema tensione, poteva servire tutto, dal costume da bagno al maglione invernale anche se si era in pieno agosto. Mio padre non voleva o sapeva rinunciare al vestito elegante e mia madre, donna ansiosa e sempre preoccupata per il mio stato di salute, valutava i vestiti che mi avrebbero salvato da non so da quale malattia, per non sbagliare la maglia di lana a maniche lunghe era indispensabile. Con il passare degli anni, soffrendo io terribilmente il caldo, ho capito che era proprio maglia di lana la causa di tutti i miei raffreddori, una volta tolta non li ho avuti più. I tempi della mia infanzia ed adolescenza erano tempi strani perché si ubbidiva ciecamente ai genitori e il guardaroba lo sceglievano gli adulti, quando lo racconto ai miei figli loro sembrano increduli. Poi arrivava l’eccitazione per l’imminente partenza per il lungo viaggio che ci aspettava, le macchine venivano riempite di oggetti e per l’occasione si montava il portabagagli perché le valige sarebbero state caricate lì sopra, il concetto di aerodinamicità era, in quella lontana epoca, del tutto sconosciuto.

Quando tutto era pronto, preferivamo partire di notte per via del caldo, si cenava in religioso silenzio, la tensione era a mille. Ricordo in particolare una partenza, la destinazione erano le “Dolomiti”, la distanza che separa Albano Laziale da Pozza di Fassa era di circa 750 km, con l’850 special il viaggio sarebbe durato ,ora più ora meno, dodici ore. Vivevo quel viaggio come se fossi uno di quegli astronauti che pochi mesi prima era sbarcato sulla luna, era il 1969, io avevo 7 anni e di lì a poco avrei visto le Dolomiti. La vacanza fu bella, i luoghi fantastici, ma le emozioni che provai prima di quella epica avventura non le dimenticherò mai. Se devo associare la parola viaggio ad un ricordo questo è quello che sceglierei. Ora vivo in Finlandia, sono a 3500 km da dove sono nato, con l’aeroplano sono a casa in 6 ore, ma la poesia si è persa.




Anna Maria Morgera: l’urlo silenzioso della solitudine

Difficile definire la solitudine perché ha mille sfaccettature, si è spesso soli pur stando in mezzo alla gente e avendo intorno amici e famiglia. La solitudine è una condizione interiore esclusiva che non si vede, la sente solo chi la vive. La più brutta solitudine è perdere le motivazioni che mantengono viva la vita. Provai la più profonda solitudine dinanzi a mio padre agonizzante. L’impotenza rende soli. Solitudine non è essere soli. A me piace stare da sola sulle terrazze affacciate sulla baia della Calanca a Marina di Camerota, oppure seduta presso la torre delle Viole a contemplare il mare. Amo il silenzio delle spiagge e dei sentieri vuoti d’inverno, amo la quiete della città di notte. La solitudine è buio dell’anima e il buio spaventa perché nasconde mille incognite.   È quella del bambino che piange quella che erroneamente identifichiamo come sindrome dell’abbandono. Questa sindrome, benché non si voglia ammettere, ci accompagna tuta la vita. La solitudine è la paura di essere soli, sembra un gioco di parole, la realtà è che qualcosa si rompe dentro e siamo sopraffatti dallo smarrimento. Solitudine non è per esempio paura della morte, è la paura della sofferenza, è ritrovarsi in una dimensione ribaltata rispetto alla perdita di una persona cara e ad ogni altra dimensione. La solitudine rassomiglia a qualcosa che cade rompendosi. Quando qualcosa cade per terra si sente il rumore, a volte è fragoroso.  Ma quando si spezza dentro accade in assoluto silenzio. Io, però, nella mia solitudine ho sempre voluto che questa fosse evidente, che altri ascoltassero, che fosse almeno come un lieve suono di campana, invece era silenziosa, quel rumore c’era, esisteva era interno, ed era un urlo che nessuno all’infuori di me poteva sentire. Un boato così forte che le orecchie rintronavano e la testa faceva male. Si dimenava nel petto; ruggiva come la mamma orsa a cui è stato rapito il cucciolo. Era un’enorme bestia intrappolata che si agitava, presa dal panico e gridava come un prigioniero davanti ai propri sentimenti. La solitudine è così nessuno ne è indenne. È selvaggia, infiammata come una ferita aperta, esposta all’acqua salata del mare, spezza il cuore…. E non fa rumore.

La solitudine! Ore trascorse a pensare e a rivivere i nostri gesti, le parole, la gioia, fa male questo dolore che non se ne va mai. Mi sono sentita spesso sola, come un’intrusa nella mia stessa anima. Penso spesso che la Terra possa sentirsi molto sola in questa parte dell’universo, perché non c’è nessuno come lei, almeno nelle vicinanze. Nella solitudine io mi sento così, come la Terra.  Quanti fulmini, quanta indifferenza!

Da ragazza sognavo ad occhi aperti che, come da un mondo parallelo, qualcuno mi combaciasse e venisse a salvarmi. Sognavo ancora seduta sulla mia panchina in riva al mare Ma non si sedeva mai nessuno accanto a me, su quella panchina. Ecco perché la ricordo.   Una estate, una sera qualunque. Non so dire se ci fosse già prima che mi sedessi, ma c’era là, accanto a me, su quella solita panchina, non parlava, dondolava i piedi ed era a testa bassa: una bambina. Ogni tanto le davo un’occhiata, era tutta sola. Volevo sorridere come faceva lei o rendermi innocente come la sua immagine. Perché non aveva paura della strada deserta? Provavo a parlarle, ma non ci riuscivo, sentivo di sforzarmi e mi veniva da piangere. La osservavo con gli occhi lucidi e abbassavo lo sguardo sui miei piedi fermi. Chiunque ci avesse guardato, avrebbe capito la differenza tra l’essere bambino e il diventare adulto, tra la spensieratezza e il peso del mondo sui pensieri. Non è passato molto tempo da quella sera, da quella volta che mi sentivo un nodo soffocante in gola. Pochi anni. Nel frattempo sono corsa via dalla mia realtà, ho lasciato tutto ciò che credevo mi rallentasse o mi creasse costrizione. Pensavo fosse un sollievo cambiar vita, pensavo fosse possibile non sentirmi più sola. Ma sono sempre sola, lo sono davvero, sola con il corpo e con il cuore, è come non avere più nulla nemmeno il passato. La mia casa è laggiù sul mare. Da qui, dal mio “dentro” non si vedono nemmeno le stelle. È come avere sempre un cappello in testa e un collare lungo il collo, non puoi alzare il capo e non vedi altro che il solito colore e anche se qui piove sempre, non ci sono i miei fulmini sul mare, nessun ruggito del cielo, se non la mia voce che pare così debole sul manto della gente … Il tempo vola, incontrollabile, indifferente, mi sfugge e mi svuota, allontanandomi da quella che ero e dai sogni di ciò che avrei voluto essere. Perdo il senso delle mie passioni, pensando di raggiungerle, le ho abbandonate. Vorrei dipingere il sorriso di mia madre sulle pareti. Vorrei, se proprio devo piangere, tornar sulla mia bianca panchina. Vorrei tornar bambina … 

Che fai?”, le ho chiesto in sogno questa notte. La bambina che avevo incontrato quell’estate continuava a dondolare con le gambine e a sorridere. Non avevo il nodo in gola.
Perché sei tutta sola? –  Lei mi guarda ancora.
Non sono sola. – risponde. –
Rimango stupita, e lei ride: – Ci sei tu …
Davvero ti faccio compagnia? –  le chiedo rincuorata. Lei fa cenno di sì con la testa. –
Perché muovi sempre le tue gambe, non ti stanchi mai? –
La bimba si avvicina, sembra volermi sussurrare un segreto:
Tolgo la sabbia dai piedi … – mi dice. –

 Io l’abbraccio forte forte. Questo ho capito, questo faccio: abbraccio la mia infanzia, poiché crescere ci rende soli … la spensieratezza e l’innocenza dei sogni bianchi, questo perdura nei nostri occhi e solo così potrò avventurarmi senza spegnermi.  




Enzo De Leo: La valigia che lasciamo

Il più efficace meccanismo di difesa contro il pensiero della morte è la rimozione. Non pensarci. Purtroppo la rimozione non interviene guidata dalla nostra volontà. Tra l’altro proprio rispetto alla morte la rimozione funziona abbastanza bene quando più si è giovani e la vita ci sembra eterna. Ma l’approssimarsi inesorabile dell’ultima ora – come si diceva un tempo – rende la rimozione sempre meno efficace. Infine, oltre che impossibile, bisogna anche chiedersi se sia proprio un bene non pensare mai alla propria morte.
E’ evidente che il problema si pone in maniera diversa per coloro che credono nell’esistenza di un’altra vita rispetto a coloro che pensano che non esiste nessun al di là.

E tuttavia credenti e non credenti dovranno pur riconoscere che un mondo continuerà ad esistere anche quando non ci saremo più. E in questo mondo ci saranno i nostri figli, i coniugi, i compagni, i nipoti, gli amici, una umanità intera oltre agli animali, alle piante e all’universo che ci circonda. Se, per assurdo, potessimo rimuovere completamente il pensiero della morte ci sarebbe impossibile pensare a tutti quelli che restano e al lascito che desideriamo assicurare loro. Verrebbe meno – come osserva Francesco Campione, noto tanatologo italiano – “il sodalizio, che da sempre sostanzia ogni umanità, tra il morente del cui morire si fa carico il vivente e il vivente del cui vivere dopo la morte si fa carico il morente.”
Ma se tale sodalizio presuppone, da parte del morente, la necessità di farsi carico di quelli che gli sopravvivranno allora sarà si necessario preparare una valigia per il nostro ultimo viaggio, ma, stavolta, il nostro bagaglio non ci seguirà. Quest’ultima valigia contiene la dote che noi lasceremo ai nostri cari, ma anche a persone che non abbiamo mai conosciuto ma che beneficeranno di ciò che abbiamo saputo costruire nella nostra vita. Non importa se siamo medici, falegnami, casalinghe, scrittrici o muratori. Qualcosa di noi resterà per gli altri.

E’ evidente che con il passare degli anni e il sopraggiungere della vecchiaia la necessità di organizzare, in qualche modo, questa dote diventa qualcosa di più cosciente e più urgente. A chi darò la mia casa, l’orologio che era di mio nonno, i miei libri, le poesie che scrissi in gioventù? Ci sarà spazio per tutto? E si perché quando cominciamo a porci il problema della valigia ci accorgiamo che da qualche parte, in soffitta magari, c’è già una valigia, forse, ormai, un baule, con tante cose ( troppe? qualcosa verrà buttato? ) che avevamo cominciato a preparare senza pensare bene al loro destino. Ci sono quelle azioni, che a volte ci sono costate non poco, per aiutare i nostri figli nel loro percorso di vita, ma anche il frutto del nostro lavoro e di cui qualche traccia continua a vedersi, ci sono quei gesti di affetto o di solidarietà verso i nostri compagni che hanno reso loro la vita un po’ più sopportabile o addirittura migliore.
E troviamo anche, nella valigia, alcune cose che non ci piacerà vedere. Si tratta di sgarbi, a volte anche qualche cattiveria, quell’indifferenza che tanto fece soffrire quel mio amico e chissà quant’altro. Vorremmo togliere tutto questo per far spazio a cose migliori.

Ma non si può. Ormai sono là e vanno lasciate insieme a tutto il resto. Saranno gli altri a giudicare se tutto quello che ci sopravvive e che ormai è contenuto in una non tanto piccola valigia ha giustificato la pena che ci siamo dati per produrlo.