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L’emozione mi toglie il fiato. Ho viaggiato per ore per arrivare sin qui ed ora mi sento stordita ed emozionata come un’adolescente al suo primo incontro d’amore. …. 
Il mio è davvero un appuntamento…. con i ricordi.
Sono davanti al cancello di un piccolo villino in cui ho trascorso le mie estati più serene. Ogni anno mia madre ci accompagnava qui e lasciava che fossero i suoi genitori a prendersi cura di me e di mio fratello. Era in questo posto dove regnava la serenità che potevamo godere della compagnia di nostra sorella che, per il resto dell’anno, viveva in città con i nonni. In pratica la nostra famiglia non era mai al completo, o mancava mia sorella o mancavano i nostri genitori. Io, inizialmente soffrivo per il distacco da mia madre e mio padre ma, col passare dei giorni, questa casa, le regole ferree di mia nonna, la compagnia dei miei fratelli e di mia cugina, il mare, la complicità di mio nonno, tutto diventava indispensabile e aveva il profumo dell’amore e dell’affetto.
Vivevo quei tre mesi di vacanza in perenne ammirazione di mia sorella (più grande di me di nove anni) ed ero affascinata da qualsiasi cosa dicesse o facesse; ero felice di passare più tempo con mio fratello (di cinque anni più grande) e, pur di stare con lui, avevo imparato a giocare a calcio, rugby, e tiravo con vero talento le biglie di vetro colorato. Mio nonno ci insegnava a colpire grossi barattoli di latta col suo fucile e, spesso correvamo allo stagno a caccia di rane e rospi. In quei giorni, e solo in quelli, io mi scoprivo veramente capace di provare vera gioia.
Io ero la più gracile e ogni inizio estate i miei nonni mi portavano da un anziano pediatra affinché mi prescrivesse le solite dolorosissime iniezioni di vitamina E.
Credo si chiamasse Bellelli ma ricordo con precisione la sua abitazione. Viveva in una piccola casa con un giardino pieno di bouganville di un rosso infuocato e davanti al cancello, a pochissimi metri, vi passavano le rotaie del treno tant’è che, spesso, eravamo costretti ad aspettare che il passaggio a livello si alzasse per varcare il cancello.
La visita era sempre scrupolosa e i miei nonni uscivano sempre dallo studio medico con aria affranta ma ben decisi a “rinforzarmi” nel corpo e nello spirito. In questo erano veri maestri, non credo che fossero le iniezioni a farmi davvero bene, più probabilmente era il concentrato di cure, di attenzioni e di amore di cui sapevano farmi dono.


Ora sono qui, ad un passo dal cancello di quella che una volta è stata anche casa mia….
Cerco con lo sguardo la piccola campana di bronzo che gli amici e gli ospiti agitavano per segnalare il loro arrivo….non c’è più. Non vedo neanche la targa di metallo su cui mio nonno aveva fatto incidere, con un carattere un po’ lezioso ma gradevole “Villino Nice”, il nome di mia nonna. Lascio che il mio sguardo penetri la barriera di edera che si è inerpicata lungo il recinto di ferro, la magnolia con le sue grandi foglie, è sempre lì, al centro del giardino e ormai ricopre quasi del tutto quella che una volta era l’enorme finestra del salone. Passavo ore, nei lunghi pomeriggi d’agosto, al fresco della sua ombra. A volte, mi sdraiavo sul prato così da avere per tetto i suoi lunghi rami ricchi di grandi foglie lucide, di un verde intenso e mi incantavo a guardarne i fiori bianchi e profumatissimi.
Le palme hanno raggiunto il tetto e grandi ciuffi di datteri dorati pendono da più parti dando un vago senso di esotico a questo mio amato giardino che nessuno sembra ormai più curare. Le aiuole non ci sono più e le piante più svariate convivono in promiscuità dandomi subito l’amara sensazione di abbandono ed incuria.
Ricordo e rivedo noi bambini sudati ed eccitati, chini sul prato a strappar erbacce. Sento, vicina e chiara, la voce di mia nonna che ci incita a far presto e bene.
Il viale d’ingresso, su cui ogni estate veniva montato un elegante gazebo di ferro lavorato, alcune sedie di eguale fattura rallegrate da grandi cuscini fiorati ed il tavolo col piano di cristallo ora è occupato da una vecchia automobile.
Alzo lentamente lo sguardo e ho un tuffo al cuore, il terrazzino davanti alla porta d’ingresso è rimasto quello d’un tempo e mi par quasi di rivedere i miei nonni, seduti sulle loro sedie di vimini, che sorridono così come erano soliti fare quando ci guardavano giocare.
Non resisto più, ho bisogno di entrare. Spingo il cancello pur essendo certa che sia chiuso. E’ bastata una leggera spinta ….è aperto. Il cigolio mi fa sobbalzare. Per un breve istante ho pensato di andar via, è stato solo un attimo di esitazione. Entro e richiudo il cancello dietro di me. Per incanto avverto la sensazione che la ringhiera sia diventata il limite del mondo, al di là di questo recinto un po’ malridotto c’è il vuoto.
Probabilmente al di là del cancello c’è il normale via vai di automobili, di donne che tornano dal mercato, di bambini che si rincorrono allegri ma io non sento più nulla, qui c’è solo silenzio e pace. Il mondo intero è racchiuso in questo giardino. Le persiane, tutte giù, rendono questa casa un po’ triste. E’ come se volesse tenere gli occhi chiusi per non vedere lo sfacelo di questo giardino. Una volta dalle finestre veniva fuori il vociare di noi bambini, il parlottare animato degli adulti e, all’imbrunire, questi grandi occhi dagl’infissi di legno bruciato dal sole e dalla salsedine, si illuminavano e splendevano attraversati dalla luce calda e allegra delle lampade. Questa casa che ha fatto da spettatrice a tante vicende e che ci ha visto prima bambini, poi adolescenti e infine adulti ora è cieca e sola. Mi avvio lentamente per il piccolo vialetto che costeggia il lato est della casa e mi ritrovo a sorridere al ricordo di quando, bambina, lo attraversavo di corsa per paura dei gechi e degli insetti che si rintanavano tra i mattoncini rossi. Istintivamente avverto lo stesso disagio ed affretto il passo fino a raggiungere il punto in cui il lungo viale diventa più ampio. Davanti a me si apre una scena di una bellezza indescrivibile. Il mio cuore ed i miei occhi si riempiono di una gioia completa, immensa, profonda. Il pergolato è un’esplosione di colori e di profumi, i grappoli di glicine si intrecciano a lunghi rami di rose selvatiche bianche e rosa tra cui fanno capolino piccoli mazzolini di gelsomino. Sono letteralmente assalita da un’ondata di profumo tanto penetrante e piacevole da sentirmene stordita e inebriata. Guardo a terra e mi accorgo che c’è uno stupendo tappeto di petali e di foglie dalle mille tonalità e sfumature di verde.
Una leggera brezza suona la sua musica fra i rami e smuove le foglie facendo piovere altre leggere gocce di seta.
Alzo lo sguardo e vedo un cielo fiorito. Il sole riesce, di tanto in tanto, ad aprirsi un varco tra il fogliame e proietta sul suolo macchie di luce che sembrano danzare al ritmo di una malinconica e sapiente melodia che mai animo umano potrebbe comporre. Mi sento estasiata e leggera, mi pare che anche la mia anima stia danzando e cantando il suo inno alla vita ed al creato.
Tra alti cespugli, dove prima fiorivano le “belle di notte” è ancora visibile il campo di bocce e l’enorme rullo di cemento che spingevamo con fatica affinché con il suo peso livellasse la terra rossa su cui lanciavamo, in modo non proprio regolare, le bocce di legno colorato. Mi pare di sentire la voce di Giovanna, la più piccola di noi quattro, che piagnucola perché vuole il pallino. Ho davanti agli occhi mio padre, in pantaloncini, che prende la mira fingendo concentrazione e impegno.

Dall’altro lato del viale c’è un’ampia distesa di terra, ora incolta, che allora era il nostro orto. Con grande fatica di tutti gli adulti della famiglia e in parte anche di noi ragazzini, riuscivamo a coltivare di tutto e grossi cespugli di erbe aromatiche riempivano l’aria di profumi penetranti.
In fondo al viale s’intravede il garage che utilizzavamo come cucina. E’ una piccola casetta in miniatura con una finestra di minime dimensioni che fungeva da passavivande. Sotto il pergolato di vite canadese, che ora mi pare un angolo di paradiso, consumavamo le leccornie che mia nonna, eccellente cuoca, preparava per tutti noi.
C’è ancora la panca di marmo causa di liti furibonde e di vere e proprie battaglie. C’era sempre uno stesso vincitore: mio fratello Pierfederico. Unico maschio del gruppo dei piccoli, sapeva essere convincente. Utilizzava varie strategie: partiva col promettere regali e favori, passava poi ai ricatti ed alle minacce, cui io non cedevo mai…. Mia cugina Giovanna era fuori dalla competizione perché troppo piccola, mia sorella Antonella, la più grande, si rassegnava facilmente.Io ero l’unica che resisteva ad oltranza e mi lanciavo in veri e propri corpo a corpo e ne uscivamo, entrambi, pieni di lividi e di rancore.
Ora la panca è tutta mia. Mi ci siedo, gonfia di soddisfazione. Chiudo gli occhi e non mi sembra possibile che nessuno venga a recriminare o ad intimarmi di alzarmi.
“Dindi! Dindi! Alzati, vieni ad abbracciarmi”. Apro gli occhi, nel viale, tra i fiori, c’è il nonno. Farfuglio e balbetto: ”Non chiamarmi così, non vedi, ho più di quarant’anni! Ne è passato di tempo da quando usavi chiamarmi con questo nomignolo strano e tenero.” Si avvicina con passo lento e leggero, si toglie il cappello e sorride divertito. Indossa pantaloni di lino beige con le pences e una camicia candida.
Apre la porta del garage, io lo seguo in silenzio. Apre la saracinesca che dà sulla strada secondaria e l’ambiente è inondato di luce. Si avvicina al tavolo, apre il cassetto in cui ha sempre custodito i suoi attrezzi e ne tira fuori un martello ed un oliatore. “Devo sistemare il cancello. Hai sentito come cigola?”.
Le sue parole vengono fuori come se ondeggiassero, l’accento toscano le rende morbide e lievi. Vorrei abbracciarlo ma lo fisso incantata come facevo da bambina. Durante le splendide serate estive, accompagnati dai grilli e dallo svolazzare di mille lucciole, passavamo ore a guardare il cielo stellato, lui mi sussurrava il nome di tutte le stelle, Venere, il Gran Carro, l’Orsa maggiore…….Io lo ascoltavo estasiata e credevo fosse il padrone dell’infinito. Non mi stancavo mai di ascoltarlo e vivevo intere sere stando col naso in su. Mio nonno Gastone mi ha insegnato ad amare il cielo stellato e a sentirne il profumo. Ora mi pare che lui stesso sia stato per me grande e magnifico come un cielo trapunto di stelle.
Si avvia per il viale armato di tutto punto per iniziare la sua battaglia contro la ruggine. Mi fermo a guardarlo mentre si allontana lungo il viale, non lo seguo.Mi piace guardarlo mentre lo attraversa col suo passo lento e morbido.
Si volta a guardarmi, mi sorride e mi fa cenno con la mano come per salutarmi……
Sento che qualcuno mi scuote con forza: ”Signora, sta male?”. Apro gli occhi e vedo chino su di me un omone grande e grosso. Metto a fuoco con fatica il suo viso troppo vicino al mio. Mi alzo di scatto. Deve essere il guardiano o il proprietario. Lo guardo confusa e con un po’ di timore. Cerco di assumere un tono dignitoso e convincente.
Balbetto qualcosa di incomprensibile anche a me stessa. Mi guardo intorno, siamo soli ed entrambi in evidente imbarazzo. Lo guardo e cerco di inventarmi qualcosa da dire, vorrei giustificare la mia presenza. La voce mi viene fuori di getto:
“Mi perdoni l’intrusione ma, sa, in questo villino ho trascorso almeno una ventina di estati. Volevo tuffarmi nel passato. Tra questi fiori aleggiano i momenti più belli della mia vita, qui avevo lasciato ricordi, sogni e speranze di cui ora ho veramente bisogno. Io sto cercando me stessa e il coraggio di continuare a vivere. Non dica nulla, la prego. Questa, ora è casa sua ma per molto più tempo è stata mia, ha rallegrato i miei giochi di bambina, mi ha fatto sognare, è stata la mia isola-che-non-c’è. Mi perdoni ma dovevo recuperare un pezzo del mio cuore e della mia vita.
Mi prende un’incontenibile voglia di scappare via, corro, attraverso il viale, al mio passaggio mille petali volteggiano contenti.
Raggiungo il cancello, lo apro, non cigola più.
Corro alla macchina, non vedo quasi più nulla…i miei occhi sono pieni di lacrime, il cuore trabocca gioia e malinconia insieme. Ho un altro profumo che mi è entrato nell’anima. E’ un aroma che non avevo mai sentito prima: il profumo dell’infanzia.


Stringo al cuore il mio pezzetto di vita e mi volto a guardare, forse per l’ultima volta, la casa della gioia.
Sono tutti al cancello: nonna Nice più bella che mai; nonno Gastone col naso all’in su in attesa che spunti la prima stella della sera; mio padre già con la pompa in mano pronto ad annaffiare l’orto, mia madre in pantaloncini, mia sorella Antonella, adolescente, col suo sorriso tenero e caldo, mio fratello Pierfederico ragazzino sbarbatello, con gli occhi pieni di sogni e di speranze, mia cugina Giovanna, che stringe il suo orsetto di peluche, i miei zii Antonietta e Gaetano, allora giovani…….
Un desiderio irrefrenabile mi spinge ad avvicinarmi, li guardo e sussurro: “Vi voglio bene…”
E’ solo un attimo…..tutto svanisce.
La loro immagine ormai è sfuocata, si è persa tra le lacrime che si sono affollate nei miei occhi o, forse, la realtà li ha riportati tutti in quel mio passato ormai lontano.
Sto piangendo. Le lacrime non sono sempre stille di dolore, queste che mi scivolano sul viso sono il nettare dolce della mia anima felice.

3 thoughts on “Alfonsina De Filippis: Profumo di magnolia…profumo d’infanzia

  1. Grazie a te ho ritrovato la mia casa paterna con il suo magnifico e luminoso giardino, nel quale un enorme albero di noce sorvegliava severo le allegre piante di arancio. Grazie.

  2. Quanto è bella questa tua opera, Alfonsina! Stupenda! Magnificamente scritta, armoniosa, profonda, indimenticabile

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