Bisogna distinguere tra le tante solitudini vissute dagli uomini due macro aree: la solitudine patita e quella cercata. Con i tanti anni che mi pesano sulle spalle posso vantarmi di averle provate e sperimentate un po’ tutte e fin da quando cominciavo ad affacciarmi alla vita. A 10 anni ero un ragazzo vivace, allegro, curioso ma l’esperienza vissuta in collegio dai 10 ai 14 anni mi rese un’altra persona. Mi ammalai di nostalgia e malinconia, piangevo la casa e la città che mi erano state strappate, pativo gli sberleffi e le punzecchiature di quelli che vivevano a proprio agio la vita in collegio. Furono anni neri che spensero gradatamente le mie curiosità, i miei sogni, mi forzarono a vivere nel passato, nei ricordi, negli affetti perduti. Stavo male ma quello era il mondo in cui mi rifugiavo nonostante mi procurasse tristezza, vuoti allo stomaco che rimandavano al vuoto creatosi nella mia vita. Gli anni vissuti a questa maniera trasformarono il ragazzo scavezzacollo, gioioso ed espansivo che era stato sino ad allora in uno triste, chiuso al limite dell’introversione, timido e con poca o nessuna autostima.

A completare questo quadro dalle fosche tinte ci fu dopo il collegio la migrazione al seguito della famiglia nella Milano nebbiosa e razzista degli anni 60.
Immaginate come dovesse sentirsi quel ragazzo quando l’insegnante sentendolo parlare chiedeva alla classe di tradurre quello che diceva con il suo accento incomprensibile. Una solitudine di tal fatta, in una città fredda e inospitale era penosa e intollerabile, una solitudine a cui si era costretti e che non era stata cercata. Ciò nonostante anche in un terreno sterile e brullo come quello attecchirono sentimenti e modi di essere che forse non sarebbero venuti a galla: modestia e non arroganza, profondità e non superficialità, empatia per i deboli e gli umili e non protervia e sbruffonaggine. Con il passare del tempo finì con il perdonarsi quegli anni trascorsi in solitudine, perdonò sua madre che credeva di fare il suo bene facendolo studiare in collegio o trasferendolo in una città che prometteva tanto ma nella quale la traccia del primo tema in classe recitava, e non l’ho mai dimenticato:  Reminiscenza di un viaggio in Russia.
Erano famiglie quelle che viaggiavano in Europa e non solo mentre il mio primo e unico viaggio era stato quello verso Milano con la classica valigia di cartone.

Naturalmente altro discorso quando da adulto ho vissuto la solitudine come scelta, per distaccarmi dal volgo profano come dice il poeta, per salvaguardare la mia psiche e tenermi lontano dal chiacchiericcio fine a se stesso, dai discorsi inconcludenti, dalle piazze mosse e agitate da pulsioni e istinti non controllati e non sorretti dalla ragione. Per distaccarsi dal superfluo  ed attenersi all’essenziale.
Ed è così che anche nella scrittura mi piace scrivere in forma semplice, badando al sodo e tenendomi lontano dal luccichio delle frasi colorite, anche belle ma che dicono ciò che si può riassumere con una sola parola. Questa solitudine ti aiuta a riflettere, andare in profondità e individuare tra il profluvio di notizie e parole in libertà che caratterizzano i nostri tempi, quelle che sono chiare e a te necessarie. Questa solitudine ti gratifica del dono prezioso dell’ascolto che ti permette di capire ed essere in connessione con l’altro. E nel mondo di oggi caratterizzato dall’horror vacui che ti sollecita a riempire spazi e luoghi di chiacchiere, musica e vociare, questa è una grande salvezza.

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