Ritorno all’antico

Ho deciso che nei mesi e spero negli anni che mi restano da vivere, non leggerò libri né vedrò film con meno di 30 anni d’età (per fortuna non ho difficoltà di scelta fra la mia biblioteca e per vecchio grazioso

regalo di Paolo ho un hard disk contenente centinaia di pellicole d’epoca).

In fondo anche con FILI facemmo viaggi di questo tipo. Fu solo l”egocentrismo e la cecità devastante di alcuni a interrompere quella esperienza che fra l’altro era stata la fucina di una mia più profonda amicizia con Mariano).

Effetti speciali, auto editing, interviste a tappeto, esaltazione iperbolica di prodotti mediocri sono il cavallo di troia dell’avanzamento cieco della tecnologia che trova la sua vera ragion d’essere negli armamenti. Comunque ieri sera ho visto Ragione e Sentimento (la versione con Emma Thompson)

C’è la scena in cui il colonnello Brandon legge un sonetto di Shakespeare. Semplice, un piccolo libricino fra le mani delll’attore, senza musica. Rifatta oggi si sarebbe vista come minimo la mano del poeta che scrive una lettera svolazzante nell’etere con un’accattivante musica piena di fondo.
Approfitto comunque per pubblicare due dei sonetti del Bardo di Avon che hanno sempre indotto serenità e luminosità nella mia anima spesso annebbiata dai perniciosi fiumi di una diabolica modernità




Sogni!

Il narratore El Ixaqui riferisce questo fatto. Raccontano gli uomini degni di fede che ci fu al Cairo un uomo padrone di molte ricchezze, ma così   generoso e liberale da perdere tutto ciò che possedeva tranne la casa del padre, e per vivive si vide costretto a lavorare duramente.
Una sera, dopo una giornata molto faticosa, si addormentò sotto il fico del suo giardino e sognò   un messaggero di Allah   che gli diceva: “La tua fortuna è in Persia, a Isfahan,va a cercarla”.
Appena sveglio all’alba il nostro uomo intraprese il lungo viaggio perché così gli era stato detto e affrontò i pericoli dei deserti, delle navi, dei pirati, dei fiumi, delle fiere e degli uomini.
Dopo molte traversie giunse infine stanchissimo sul far della sera ad Isfahan, entrò nelle mura della città e si stese a dormire nel patio di una moschea.

Vicino alla moschea c’era una casa e quella notte una banda  di ladri attraverso la moschea entrò nell’abitazione ma le persone che vi dormivano si svegliarono e chiesero aiuto. Anche i vicini si misero a gridare finchè accorsero i  guardiani del quartiere che misero in fuga i ladri e poi, perquisendo la moschea, trovarono l’uomo del Cairo e gli affibbiarono tanti colpi con canne di bambù che quasi lo ammazzarono.
Due giorni dopo l’uomo riprese i sensi in carcere ed il comandante della polizia volle interrogarlo.
Chi sei e da dove vieni?” gli chiese
Sono della città del Cairo e mi chiamo Mohamed El Magrebi
Cosa ti ha condotto in Persia?
L’uomo gli racconto del sogno ed aggiunse: ”Ora sono ad Isfahan e vedo che la fortuna che mi era stata promessa deve essere il mucchio di bastonate che tanto generosamente mi avete affibbiato. Evidentemente dovevo essere punito per i miei peccati!”.
Il capitano scoppiò a ridere e disse: “Anche io sognato tre volte una casa del Cairo nel quale c’era un giardino e nel giardino una meridiana ed un fico ed una fontana sotto la quale c’era un tesoro. Non per questo ho intrapreso un viaggio fidandomi solo di un sogno. Sei un vero ingenuo ed uno stupido credulone! Eccoti qualche moneta per ritornare al tuo paese e non farti mai più vedere da queste parti!
L’umo le prese e torno in patria. Sotto la fontana del suo giardino ( che era quella sognata dal capitano) trovò il tesoro. Cosi Dio lo ricompensò e lo esaltò.




Con affetto

Questo post, così come i successivi, è dedicato a coloro che mi sono stati vicino in questo momento difficile della mia vita e agli amici che, con tanto affetto, mi hanno chiesto notizie sulla mia improvvisa assenza mediatica. In situazioni come questa, sorge il bisogno di esprimere ciò che sentiamo; tuttavia, ho deciso di farlo condividendo racconti di autori che hanno accompagnato il mio cammino. Spero che queste storie possano toccarti come lo hanno fatto con me. Se tu vorrai, mi farebbe piacere ricevere un tuo breve commento. Grazie di cuore per il tuo supporto e il tuo affetto.

Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare. Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.
Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera. Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.
Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire. Sebbene spensierato – ben più di quanto sia ora! – mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri. Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione. Con l’andar del tempo mi accolsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e si che nessuno di essi è mai caduto malato, ne è incappato nei briganti, ne ha sfiancato le cavalcature.

Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a ricompensare. Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio.
Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe. La sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi, il terzo, poi il quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì Gregorio. Il primo non era ancora tornato. Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata.
Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non più. Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi. Allontanandoci sempre più dalla capitale, l’itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. Dopo cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia. Trascorsi che furono sei mesi – già avevamo varcato i monti Fasani – l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi.

Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava. Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, l’aria, i venti, gli uccelli apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero.
Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggiati che si facevano sulle loro labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire.
Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in cammino, il messo partiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate. Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo.
Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba. Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima.
Così non lo potrò mai più rivedere. Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto. Eppure va, Domenico, e non dirmi che sono crudele!
Porta il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria. Tu sei l’ultimo legame con loro, Domenico. Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di tè il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini.
Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera. Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamoa bituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, ne valli divisorie, ne montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro. Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende. Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.

Vado notando – e non l’ho confidato finora a nessuno – vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire. Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio.