La terra è un’immane produzione di amore e di merci.

(dal mio Gocce Sognanti)

Non so se qualcuno conosce i romanzi e i film di Nicholas Sparks: storie intense d’amori più o meno difficili, buone ambientazioni e sereni finali.
Giudicare il valore letterario di questo autore americano che ha venduto 100 milioni di libri non è nelle mie possibilità, ma girovagando fra le proposte televisive mi è capitato di vedere “Le parole che non ti ho detto”, “Come un
uragano”, “Le pagine della nostra vita”,” La scelta”.
Mi sono incuriosito e, tentato dai richiami romanticizzanti, ho letto un paio di libri.
Chissà se fra venti anni i suoi racconti saranno ancora letti da un pubblico numeroso e non voglio neanche lontanamente paragonare le sue opere alle immortali e meravigliose narrazioni di “Orgoglio e pregiudizio”, “Ragione e sentimento” o “Emma”.
Ma mi è venuto il ghiribizzo di scrivere quel che segue.
Nei romanzi della Austen, ma lo schema vale anche per altri autori e non solo per narrazioni sentimentali, il lieto fine è sempre preceduto da una resa al destino e ai ghirigori della vita e l’amore cresce e si fortifica prima nei pensieri e spesso, direbbe Modugno, nella lontananza. Non ci si dichiara apertamente e
non ci si bacia se non nelle ultime pagine, dopo un lungo cammino dell’anima ed una ponderata e consapevole maturazione personale.

Si agisce perché costretti dalla vita ed il fare affrettato, come quello di Lydia (la sorella di Elizabeth), è sempre foriero di dolori, delusioni, difficoltà.
Anche Emma conosce la felicità solo quando smette di agitarsi. Prima un percorso di formazione, di crescita e maturazione e poi la tranquillità luminosa del futuro.
Così fu la storia della borghesia nella sua fase ascendente; furono i Voltaire, i Diderot, gli utopisti a preparare la presa del potere della nuova classe produttrice.
Nei racconti di Sparks invece spesso ci si innamora in poco più di un giorno e si ci si abbandona subito a profondi abbracci superando di getto qualche ostacolo.
Ma nel momento in cui la passione non è più totalizzante, si riflette e ci si ritrae per un po’ di tempo; subentrano smarrimento e inquietudine, sembra impossibile dare continuità e prospettive al rapporto fino a quando dopo un po’ di tempo non si comprende che bisogna cambiare abitudini, casa, città e lavoro
per ritornar a riveder le stelle.
Come il ciclo del capitale che oggi noi conosciamo: produzione, superproduzione, stagnazione, crisi, produzione di nuove merci!
Il fare diventa più importante del pensare. E se non si agisce tutto è compromesso!
Il buon Sparks è americano fino in fondo, ma qualche volta anche la buona letteratura moderna si muove lungo questo sentiero narrativo.
È il caso, per esempio, del maestoso racconto “Quel che resta del giorno”, nel quale il non agire del compassato Stevens e le disperate ma purtroppo poche lacrime della riservata signorina Kelly sono il vero motivo del mancato lieto fine che invece tutti i lettori – spettatori si aspetterebbero. Peccato!!!




Sogno americano

di Giancarlo Durante

Ma non scherziamo. Negli Stati Uniti bisogna andarci. E, per chi ne ha la possibilità, consiglio di andarci spesso. Escludere gli USA dagli itinerari turistici solo per partito preso, per una visione grossolanamente ideologica, perché gli States sono marchiati come regno del male, fa parte di un anti americanismo ormai fuori moda e fuori luogo, tribale, un falso apoftegma per gli amanti del greco antico, perché confonde le enormi responsabilità che gli USA hanno avute nelle politiche d’imperialismo a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale con le infinite sfaccettature di un mondo che contiene tutto e il suo contrario e la cui complessa storia sarebbe un delitto ignorare. Deponete, perciò, cari amici, l’abito del turista europeo(peggio italiano, peggio ancora di sinistra)spocchioso e con la puzza al naso. Allenate la vista l’olfatto l’udito e anche il gusto agli eccessi, lasciandovi trasportare dalla voracità del conoscere, dalla bulimia di nuove esperienze sensoriali e soprattutto abituatevi a standard abnormemente amplificati:createvi un nuovo concetto di dimensione. Perché in USA la quantità, per incanto, si trasforma in qualità. Dalle piazze ai giardini, dai grattacieli all’intensità delle luci, dai suoni alle pinte di birra, dalle prime colazioni dei cuochi obesi dei college alle adunate delle più pittoresche sette religiose, tutto in America è esagerato, dilatato. Bello perché profondamente diverso dalla nostra tranquilla ipocrita realtà strapaesana. Se non c’è questa precisa disposizione di animo, se non si materializza questa speciale“apertura”mentale, lasciate stare: gli States non sono fatti per voi! New York, poi, è una città stupenda. E per chi ama il cinema, come si fa a non associarla all’immagine che viene fuori dai films di Woody Allen, contaminati dalle atmosfere patinate e dai riti e vizi della medio-alta borghesia newyorkese, che ignora l’infimo dei sobborghi violenti e delle sterminate e dimenticate periferie della città? New York rimane, comunque, impareggiabile:un luogo dove ti può capitare di essere proiettato in un futuro astratto, apparentemente anonimo, ipertrofico e ipertecnologico, come il World Trade Center, con l’ascensore che in 1 minuto ti proietta al 100° piano o a sperimentare l’inno apotropaico della scultura del Bowling Green Bull a Wall Street. Una città dove puoi aspettarti di essere “sequestrato” dalla simpatica proprietaria di un bar (strano i chioschi a New York non possono servire alcolici! ), alla quale non sembra vero di poter raccontare di essersi recata due volte in Italia a degli italiani:giusto per farti illudere un attimo di essere una persona importante.

E insieme restare basito di fronte alla scena del gruppetto di ragazzine sorvegliate da un anziano “signore” mentre escono da un Mac Donald’s per fuggire di corsa chissà dove nell’indifferenza della moltitudine della Quinta Strada. Come restare impassibili , poi, ai canti e balli lungo la spiaggia di Long Beach o al frastuono del Luna Park di Coney Island o quando vai a cercare ciò che resta dei fasti di quella che, una volta, era la Little Italy, ingoiata dagli impenetrabili quartieri di China-Town?E se per avventura ti dovesse capitare di visitare qualcuno degli stupendi Colleges Universitari del New England, non sarebbe difficile calpestare immensi spazi verdi, boschi abitati dagli animaletti più strani che pensavi comparissero solo nelle storie di Walt Disney. In quale altro luogo al mondo puoi, poi, scoprire lo stesso orgoglio e lo stesso patriottismo che mostrano gli americani nella cerimonia dell’alzabandiera, se non recandoti a Philadelphia, al Memorial Day? Come pure qualcosa in più potrai capire della recente storia americana se ti avventuri sul lungomare di Baltimora, luogo citato, persino, nei fumetti del Grande Blek. E quando ti rechi a Boston, sai che ti trovi in uno dei maggiori templi della cultura, della storia e del progresso non solo americano, sede dell’ Harvard University e del Massachusetts Institute of Technology. E nessuna emozione ti assale nell’aggirarti a pochi passi dalla Casa Bianca o, autorizzato, quando ti permettono di visitare un’ala del Campidoglio? E non dirmi che non ti solletica un po’ entrare in una capsula spaziale al National Air and Space Museum di Washington? Con qualche giorno in più di permanenza potresti, poi, solcare in canoa gli incontaminati corsi d’acqua e i laghi dell’Oregon, lo Stato americano che offre uno dei sistemi sanitari più avanzati al mondo. E andare a vedere le famose Cascate, e gli Stati del Middle-West e quelli del Sud, i deserti dell’Arizona e il New Mexico, la Florida, la California, la musica di New Orleans, la Silicon Valley e Disneyland, e così via. La Repubblica Federale degli Stati Uniti d’America conta 50 Stati, pochi localizzati fuori dal territorio americano, gli altri distribuiti su di una superficie che è più di trenta volte quella dell’Italia. All’interno di ciascuno di questi stati trovi una ricca, caleidoscopica società pulsante, lontana, però, dagli stilemi e dai ritmi di vita di noi, abitanti del Vecchio Continente. Non è una novità, quindi, se scopri che in America c’è troppo da conoscere e troppo da vedere e appare naturale mostrare un iniziale moto di rigetto. Iniziale, però. Perché se ti riprendi, in America poi ci torni. Così alla fine ti accorgi che le cose sono tante, troppe, da poter essere contenute e banalizzate in una paginetta del blog di Carlo. Sterminati i territori e le metropoli e sterminata la letteratura americana. Così, col rischio di avvicinarmi pericolosamente al senso del ridicolo oso proporvi due testi che mi vengono in mente (il tempo sta diventando sempre più risicato e da leggere c’è ancora tanto e pure i luoghi da visitare al mondo sono ancora troppi e diversi sono gli spezzoni di vita vera ancora da vivere). Il primo un po’ fuori dagli schemi abituali é formato da storie di ordinaria normalità, un autentico gioiello di lettura “leggera”che esce fuori da un libro edito nel lontano 1964 e acquistato per 350 lire come Oscar Mondadori, che si chiama ”Che ve ne sembra dell’America?” e l’autore non è di quelli stra-conosciuti:William Saroyan. Il secondo è dell’arci-noto David Foster Wallace. E mi sembra illuminante riportarvi qualche passo significativo, tratto da uno dei suoi pamphlets più noti“Considera l’Aragosta”.

Il Festival dell’Aragosta del Maine, immenso , pungente ed estremamente ben pubblicizzato, si tiene ogni anno a fine luglio. . . L’affluenza totale quest’anno ha superato le centomila persone, . . Food & Wine proclamava il F. A. M. forse la migliore festa a tema gastronomico del mondo. Ricordo che l’industria alimentare statunitense produce circa quaranta milioni di chili di aragosta e il Maine è responsabile per più della metà del totale. Punti salienti di questa edizione sono: concerti di Lee Ann Womack e degli Orleans, concorso di bellezza, annuale Dea Marina del Maine, grande Parata del Sabato, corsa sulle casse in memoria di William Atwood, di domenica:gara di cucina amatoriale , giostre e attrazioni da luna park, e stand di roba da mangiare , oltre al al tendone del Ristorante del F. A. M. , dove vengono consumati qualcosa come più di undicimila chili di aragosta del Maine appena pescata, cotti nella Pentola per aragosta più grande del mondo vicino all’ingresso nord della Fiera. . . Il Festival , alla fine, non é poi così diverso dalle sagre del granchio nella regione del di Tidewater, dalle sagre del granturco del Midwest, o del chili con carne in Texas, eccetera, e con queste ha in comune il paradosso di fondo di tutti gli eventi commerciali demotici e brulicanti: non è per tutti. In realtà c’è molto da dire sulle differenze fra la Rockland operaia e il sapore populista del festival vs l’agiata ed elitaria Camden con il suo panorama costoso e i negozi ceduti a maglioni costosissimi e schiere di villette trasformate in B&B. . . . Essere turisti americani di massa per me significa diventare puri americani dell’ultimo tipo ; alieni, ignoranti, smaniosi di qualsiasi cosa che non si potrà mai avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare, per mera ontologia, quell’ incontaminatezza che si è andati a sperimentare. Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi non-economici, migliori e più veri senza la nostra debordante presenza. Scrivendo queste righe mi è venuto alla mente quel che un po’ di anni fa mi confessò una cara amica venuta a trovarmi per la prima volta a Cava. Ti devo dire la verità, mi disse, seria e con un tono solenne, asseverativo, ho preso un maglione in un negozio di Cava; ma l’educazione e la bonomia che ho trovato comprando un vaso di ceramica a Vietri non le ho riscontrate nella vostra città. Sarebbe lungo raccontarti, le risposi, cara mia, ma la gente di Vietri, sai, ha origini etniche un po’ diverse da quelle dei cavesi. Poi l’aria di mare. . . ! Tanto per dire:fantasioso e originale archiviare con una battuta”turistica” Cava e i suoi cittadini, un po’ più arduo farlo quando si maneggiano America e Americani!




Stare in ogni luogo…stare in nessun luogo

da libro di Gunther Anders…. con qualche variazione!

Essere a casa stando in pubblico rappresenta una componente della nostra esistenza odierna, che finora è stata generalmente trascurata dalla teoria. Ciò che finora la critica culturale aveva messo in primo piano era stata sempre la deprivatizzazione della sfera privata. Ma con questa veniva descritta solo la metà della nostra esistenza attuale. Non meno importante è il suo pendant: insomma il fatto che anche la sfera pubblica ha perso la sua univocità, che questa sfera (nonostante il monopolio che sembra aver conquistato con la deprivatizzazione) spesso viene intesa soltanto come una continuazione della sfera privata (dunque per niente come pubblica) . Chi trascura d’inserire nel quadro dell’epoca odierna entrambe queste mutilazioni, disegna un ritratto d’epoca incompleto. Fa parte del quadro sociopsicologico dell’uomo moderno, per esempio, non solo che a causa dell’incessante scorrere del mondo esterno egli stia sempre altrove e mai a casa, dunque la perdita della sua sfera privata; ma che nello stesso tempo egli è dovunque e sempre a casa.

Di qui la perdita dei suoi sentimenti per il mondo esterno, ovvero l’elefantiasi della sua sfera privata. Così come (anche stando effettivamente seduto in casa) mediante le trasmissioni egli si trova sempre anche in qualche altro luogo e tuttavia nello stesso tempo resta sempre a casa (anche quando, seduto nella sua automobile, attraversa paesi stranieri) . Se la radio, la TV ed il web sono l’incarnazione della sua deprivatizzazione, l’automobile è l’incarnazione del suo essere sempre a casa. Chi vede nella radio (o in uno smartphone) e nell’ automobile semplicemente due apparecchi, solo per caso divenuti decisamente importanti contemporaneamente, non capisce quanto stretto sia il loro rapporto di complementarità. Di fatto il sogno della nostra esistenza odierna si adempie solo quando i due apparecchi ci servono contemporaneamente; quando noi, pur attraversando paesi stranieri, rimaniamo tuttavia a casa, dato che non abbiamo lasciato la nostra auto, cioè la nostra seconda casa; e perché in essa riceviamo come a casa, per mezzo della nostra radio o del nostro cellulare, un secondo mondo.

Noi uomini d’oggi per metà siamo nomadi, perché persino quando siamo a casa ci troviamo a ogni istante in un posto diverso; e per metà siamo sedentari perché, quando viaggiamo effettivamente in paesi stranieri, possiamo consumare i comforts dell’essere a casa, e paradossalmente ciò significa che abbiamo anche la possibilità di sostare in un altro luogo (vale a dire un luogo trasmesso) .Abbiamo l’illusione di poter stare contemporaneamente dappertutto ed invece spesso dimoriamo nel rumoroso territorio del nulla.




Un viaggio (quasi gratuito) a New York

Non sono mai andato negli Stati Uniti, né ho intenzione di farlo mai, ma a New York ci sono stato per tre giorni al prezzo di pochi euro. Mi hanno portato alla prima, seconda ed  ennesima avenue le pagine di Trilogia di New York di Paul Auster autore di cui  fino a sette giorni fa non avevo mai letto niente. La notizia della sua morte, non so perché, mi ha spinto verso questo suo trittico intrecciato dei tre racconti racchiusi nel volume. Ed eccomi per tre giorni nelle vesti di Quinn, di Blue e di uno scrittore a cercare, controllare e seguire Peter Stillman, il signor Black  o l’amico di infanzia Fanshawe fra i meandri, le piazze, i palazzi della metropoli americana.

Un libro da leggere tutto d’un fiato e che vale da solo cento volte tutte le guide turistiche di New York, anzi vale cento volte il viaggio reale in questa città.
La scrittura di Auster è ipnotica, pindarica e spiazzante con continue variazioni di direzione narrativa procedendo a zigzag, come fanno spesso caoticamente i suoi personaggi lungo le strade della città dall’apparente ordine rettangolare euclideo ma di fatto invece immersa in una struttura di geometria iperbolica, ma al contrario di loro senza perdere mai il senso del peregrinare, perché le parole sono di per sé avulse dalla realtà e perciò ti portano nei luoghi  in cui vogliono andare anche quando sospetti di loro.

Una città allucinante, surreale come i quadri di Escher, popolata da persone inafferrabili che non puoi conoscere se non a rischio di sprofondare nei tunnel scavati dentro te stesso dai vermi silenziosi che popolano la grande mela. Un labirinto alla stregua della Biblioteca di Babele di Borges nel quale però trovi sempre un unico libro, un taccuino rosso pieno di parole indecifrabili alla lunga oscure anche per chi le ha scritte. Percorrere le strade della metropoli americana alla ricerca del significato dell’esistenza è cosa più folle e più grigia della lotta di Don Chisciotte contro i mulini a vento.

E quando poi entri in contatto con la persona al centro del tuo peregrinare fisico e mentale scopri che è soltanto il tuo William Wilson del racconto di Poe che ti trascina nel vortice bianco accecante in cui scompare Gordon Pym.

NON ANDATE A NEW YORK se  non insieme a Paul Auster!