Viaggi librari:”La musica è leggera” di Luigi Manconi

A molti amici più o meno miei coetanei ho già consigliato questo libro per me da gustare per intero;  ma anche chi non è interessato ad alcuni capitoli e però ha vissuto da ventenne o trentenne gli anni 60, gli anni 70 e perché no gli anni 80, potrà ritrovare nella pagine di Manconi le emozioni giovanili, riascoltare anche senza sentirle le canzoni di quelli anni e leggere del ruolo che anno avuto Paoli, Modugno, Iannacci, Gaber, Dalla, De Gregori, Venditti, Califano, Battisti, Celentano, De André, Battiato, Bennato, Guccini, Conte e tanti altri nella storia della musica pop e non solo.
Ma oltre ad acute e leggère considerazioni e piacevoli intuizioni sulla musica italiana nell’ultimo cinquantennio  e  ricordi di incontri con cantanti e musicisti , in “La musica è leggera” è facile trovare altro.

Non voglio farla lunga e perciò mi limito a riportare il  passo che conclude la pagina dedicata a Titanic di De Gregori che anche io, come l’autore del libro considero la sua  opera migliore, più emozionante e più persistente nei meandri della mia memoria.

Generalmente sono di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Parlano lingue incomprensibili, forse antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti». E ancora: «Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra loro.

Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali Rapporto dell’Ispettorato americano per l’immigrazione del 1912 riferito agli Italiani.

Titanic



Gerardo: Via Crucis 2024




Mai ritornare sulle proprie scelte televisive!

Sono un assiduo lettore di libri gialli e ho acquistato nel tempo i libri di Cristina Cassar Scalia ambientati a Catania con protagonista la vicequestore Vanina Guarrasi. Ieri mattina sfogliando il giornale apprendo che Mediaset ne ha realizzato la trasposizione televisiva.
Per un’antica idiosincrasia per tutto quello che emanava da Berlusconi, molto, ma molto raramente, e solo con qualche piccola eccezione, negli anni ho pigiato sul mio telecomando i tasti dal 4 al 6.
Ma avendo letto con piacere i romanzi di questa autrice, soprattutto i primi due, mi sono infilato con qualche perplessità nell’app Infinity ed ho visto il primo filmato. Quel che temevo è successo.
Delusione totale!
La vivacità e i ghirigori della vita catanese completamente scomparsi e ridotti alla differenza fra arancino e arancina. Cancellate figure fondamentali come l’ex commisario Patanè, Bettina padrona di casa di Vanina, il vicecommissario Fragapane.
La riduzione a macchietta di alcuni personaggi.

E poi, non si sa bene perché, si comincia dal settimo romanzo della Scalia, sacrificando perciò l’approfondimento e l’evolversi dei rapporti umani lungo il susseguirsi dei racconti pubblicati e buttando all’aria il filo della storia familiare, amorosa e amicale della Guerrasi.
O forse la scelta di cominciare dal delitto del gelataio è legata al fatto che nel volume di riferimento non compaiano problematiche sociali né aspetti dei meccanismi di potere della provincia siciliana.
Ed infine i vezzi, le contraddizioni, le pulsioni, il rammarico, il peregrinare mentale della protagonista ridotti a piccole note di colore.
Personaggi e ambientazione piatti!

Quello che mi immalinconisce, e forse mi impedirà di leggere eventuali altri libri della Scalia è il pensiero di come una pur brava scrittrice possa permettere tale svilimento delle sue pagine ricche di brio e vitalità, per amore del successo televisivo e di tutto quello che questo comporta in termini di ritorno economico e notorietà. Purtroppo non è la prima!

SE NE SCONSIGLIA LA VISIONE SOPRATTUTTO A CHI HA LETTO I ROMANZI.

Mi consola il pensiero, però, della mia giusta diffidenza verso Mediaset.
Cassar Scalia sicuramente pensa che la televisione le farà vendere più libri, ma una cosa è certa: un lettore lo ha perso di sicuro!




Francesco Puccio presenta il suo nuovo libro




Alfonsina De Filippis: Profumo di magnolia…profumo d’infanzia

L’emozione mi toglie il fiato. Ho viaggiato per ore per arrivare sin qui ed ora mi sento stordita ed emozionata come un’adolescente al suo primo incontro d’amore. …. 
Il mio è davvero un appuntamento…. con i ricordi.
Sono davanti al cancello di un piccolo villino in cui ho trascorso le mie estati più serene. Ogni anno mia madre ci accompagnava qui e lasciava che fossero i suoi genitori a prendersi cura di me e di mio fratello. Era in questo posto dove regnava la serenità che potevamo godere della compagnia di nostra sorella che, per il resto dell’anno, viveva in città con i nonni. In pratica la nostra famiglia non era mai al completo, o mancava mia sorella o mancavano i nostri genitori. Io, inizialmente soffrivo per il distacco da mia madre e mio padre ma, col passare dei giorni, questa casa, le regole ferree di mia nonna, la compagnia dei miei fratelli e di mia cugina, il mare, la complicità di mio nonno, tutto diventava indispensabile e aveva il profumo dell’amore e dell’affetto.
Vivevo quei tre mesi di vacanza in perenne ammirazione di mia sorella (più grande di me di nove anni) ed ero affascinata da qualsiasi cosa dicesse o facesse; ero felice di passare più tempo con mio fratello (di cinque anni più grande) e, pur di stare con lui, avevo imparato a giocare a calcio, rugby, e tiravo con vero talento le biglie di vetro colorato. Mio nonno ci insegnava a colpire grossi barattoli di latta col suo fucile e, spesso correvamo allo stagno a caccia di rane e rospi. In quei giorni, e solo in quelli, io mi scoprivo veramente capace di provare vera gioia.
Io ero la più gracile e ogni inizio estate i miei nonni mi portavano da un anziano pediatra affinché mi prescrivesse le solite dolorosissime iniezioni di vitamina E.
Credo si chiamasse Bellelli ma ricordo con precisione la sua abitazione. Viveva in una piccola casa con un giardino pieno di bouganville di un rosso infuocato e davanti al cancello, a pochissimi metri, vi passavano le rotaie del treno tant’è che, spesso, eravamo costretti ad aspettare che il passaggio a livello si alzasse per varcare il cancello.
La visita era sempre scrupolosa e i miei nonni uscivano sempre dallo studio medico con aria affranta ma ben decisi a “rinforzarmi” nel corpo e nello spirito. In questo erano veri maestri, non credo che fossero le iniezioni a farmi davvero bene, più probabilmente era il concentrato di cure, di attenzioni e di amore di cui sapevano farmi dono.

Ora sono qui, ad un passo dal cancello di quella che una volta è stata anche casa mia….
Cerco con lo sguardo la piccola campana di bronzo che gli amici e gli ospiti agitavano per segnalare il loro arrivo….non c’è più. Non vedo neanche la targa di metallo su cui mio nonno aveva fatto incidere, con un carattere un po’ lezioso ma gradevole “Villino Nice”, il nome di mia nonna. Lascio che il mio sguardo penetri la barriera di edera che si è inerpicata lungo il recinto di ferro, la magnolia con le sue grandi foglie, è sempre lì, al centro del giardino e ormai ricopre quasi del tutto quella che una volta era l’enorme finestra del salone. Passavo ore, nei lunghi pomeriggi d’agosto, al fresco della sua ombra. A volte, mi sdraiavo sul prato così da avere per tetto i suoi lunghi rami ricchi di grandi foglie lucide, di un verde intenso e mi incantavo a guardarne i fiori bianchi e profumatissimi.
Le palme hanno raggiunto il tetto e grandi ciuffi di datteri dorati pendono da più parti dando un vago senso di esotico a questo mio amato giardino che nessuno sembra ormai più curare. Le aiuole non ci sono più e le piante più svariate convivono in promiscuità dandomi subito l’amara sensazione di abbandono ed incuria.
Ricordo e rivedo noi bambini sudati ed eccitati, chini sul prato a strappar erbacce. Sento, vicina e chiara, la voce di mia nonna che ci incita a far presto e bene.
Il viale d’ingresso, su cui ogni estate veniva montato un elegante gazebo di ferro lavorato, alcune sedie di eguale fattura rallegrate da grandi cuscini fiorati ed il tavolo col piano di cristallo ora è occupato da una vecchia automobile.
Alzo lentamente lo sguardo e ho un tuffo al cuore, il terrazzino davanti alla porta d’ingresso è rimasto quello d’un tempo e mi par quasi di rivedere i miei nonni, seduti sulle loro sedie di vimini, che sorridono così come erano soliti fare quando ci guardavano giocare.
Non resisto più, ho bisogno di entrare. Spingo il cancello pur essendo certa che sia chiuso. E’ bastata una leggera spinta ….è aperto. Il cigolio mi fa sobbalzare. Per un breve istante ho pensato di andar via, è stato solo un attimo di esitazione. Entro e richiudo il cancello dietro di me. Per incanto avverto la sensazione che la ringhiera sia diventata il limite del mondo, al di là di questo recinto un po’ malridotto c’è il vuoto.
Probabilmente al di là del cancello c’è il normale via vai di automobili, di donne che tornano dal mercato, di bambini che si rincorrono allegri ma io non sento più nulla, qui c’è solo silenzio e pace. Il mondo intero è racchiuso in questo giardino. Le persiane, tutte giù, rendono questa casa un po’ triste. E’ come se volesse tenere gli occhi chiusi per non vedere lo sfacelo di questo giardino. Una volta dalle finestre veniva fuori il vociare di noi bambini, il parlottare animato degli adulti e, all’imbrunire, questi grandi occhi dagl’infissi di legno bruciato dal sole e dalla salsedine, si illuminavano e splendevano attraversati dalla luce calda e allegra delle lampade. Questa casa che ha fatto da spettatrice a tante vicende e che ci ha visto prima bambini, poi adolescenti e infine adulti ora è cieca e sola. Mi avvio lentamente per il piccolo vialetto che costeggia il lato est della casa e mi ritrovo a sorridere al ricordo di quando, bambina, lo attraversavo di corsa per paura dei gechi e degli insetti che si rintanavano tra i mattoncini rossi. Istintivamente avverto lo stesso disagio ed affretto il passo fino a raggiungere il punto in cui il lungo viale diventa più ampio. Davanti a me si apre una scena di una bellezza indescrivibile. Il mio cuore ed i miei occhi si riempiono di una gioia completa, immensa, profonda. Il pergolato è un’esplosione di colori e di profumi, i grappoli di glicine si intrecciano a lunghi rami di rose selvatiche bianche e rosa tra cui fanno capolino piccoli mazzolini di gelsomino. Sono letteralmente assalita da un’ondata di profumo tanto penetrante e piacevole da sentirmene stordita e inebriata. Guardo a terra e mi accorgo che c’è uno stupendo tappeto di petali e di foglie dalle mille tonalità e sfumature di verde.
Una leggera brezza suona la sua musica fra i rami e smuove le foglie facendo piovere altre leggere gocce di seta.
Alzo lo sguardo e vedo un cielo fiorito. Il sole riesce, di tanto in tanto, ad aprirsi un varco tra il fogliame e proietta sul suolo macchie di luce che sembrano danzare al ritmo di una malinconica e sapiente melodia che mai animo umano potrebbe comporre. Mi sento estasiata e leggera, mi pare che anche la mia anima stia danzando e cantando il suo inno alla vita ed al creato.
Tra alti cespugli, dove prima fiorivano le “belle di notte” è ancora visibile il campo di bocce e l’enorme rullo di cemento che spingevamo con fatica affinché con il suo peso livellasse la terra rossa su cui lanciavamo, in modo non proprio regolare, le bocce di legno colorato. Mi pare di sentire la voce di Giovanna, la più piccola di noi quattro, che piagnucola perché vuole il pallino. Ho davanti agli occhi mio padre, in pantaloncini, che prende la mira fingendo concentrazione e impegno. 

Dall’altro lato del viale c’è un’ampia distesa di terra, ora incolta, che allora era il nostro orto. Con grande fatica di tutti gli adulti della famiglia e in parte anche di noi ragazzini, riuscivamo a coltivare di tutto e grossi cespugli di erbe aromatiche riempivano l’aria di profumi penetranti.
In fondo al viale s’intravede il garage che utilizzavamo come cucina. E’ una piccola casetta in miniatura con una finestra di minime dimensioni che fungeva da passavivande. Sotto il pergolato di vite canadese, che ora mi pare un angolo di paradiso, consumavamo le leccornie che mia nonna, eccellente cuoca, preparava per tutti noi.
C’è ancora la panca di marmo causa di liti furibonde e di vere e proprie battaglie. C’era sempre uno stesso vincitore: mio fratello Pierfederico. Unico maschio del gruppo dei piccoli, sapeva essere convincente. Utilizzava varie strategie: partiva col promettere regali e favori, passava poi ai ricatti ed alle minacce, cui io non cedevo mai…. Mia cugina Giovanna era fuori dalla competizione perché troppo piccola, mia sorella Antonella, la più grande, si rassegnava facilmente.Io ero l’unica che resisteva ad oltranza e mi lanciavo in veri e propri corpo a corpo e ne uscivamo, entrambi, pieni di lividi e di rancore.
Ora la panca è tutta mia. Mi ci siedo, gonfia di soddisfazione. Chiudo gli occhi e non mi sembra possibile che nessuno venga a recriminare o ad intimarmi di alzarmi.
“Dindi! Dindi! Alzati, vieni ad abbracciarmi”. Apro gli occhi, nel viale, tra i fiori, c’è il nonno. Farfuglio e balbetto: ”Non chiamarmi così, non vedi, ho più di quarant’anni! Ne è passato di tempo da quando usavi chiamarmi con questo nomignolo strano e tenero.” Si avvicina con passo lento e leggero, si toglie il cappello e sorride divertito. Indossa pantaloni di lino beige con le pences e una camicia candida.
Apre la porta del garage, io lo seguo in silenzio. Apre la saracinesca che dà sulla strada secondaria e l’ambiente è inondato di luce. Si avvicina al tavolo, apre il cassetto in cui ha sempre custodito i suoi attrezzi e ne tira fuori un martello ed un oliatore. “Devo sistemare il cancello. Hai sentito come cigola?”.
Le sue parole vengono fuori come se ondeggiassero, l’accento toscano le rende morbide e lievi. Vorrei abbracciarlo ma lo fisso incantata come facevo da bambina. Durante le splendide serate estive, accompagnati dai grilli e dallo svolazzare di mille lucciole, passavamo ore a guardare il cielo stellato, lui mi sussurrava il nome di tutte le stelle, Venere, il Gran Carro, l’Orsa maggiore…….Io lo ascoltavo estasiata e credevo fosse il padrone dell’infinito. Non mi stancavo mai di ascoltarlo e vivevo intere sere stando col naso in su. Mio nonno Gastone mi ha insegnato ad amare il cielo stellato e a sentirne il profumo. Ora mi pare che lui stesso sia stato per me grande e magnifico come un cielo trapunto di stelle.
Si avvia per il viale armato di tutto punto per iniziare la sua battaglia contro la ruggine. Mi fermo a guardarlo mentre si allontana lungo il viale, non lo seguo.Mi piace guardarlo mentre lo attraversa col suo passo lento e morbido.
Si volta a guardarmi, mi sorride e mi fa cenno con la mano come per salutarmi……
Sento che qualcuno mi scuote con forza: ”Signora, sta male?”. Apro gli occhi e vedo chino su di me un omone grande e grosso. Metto a fuoco con fatica il suo viso troppo vicino al mio. Mi alzo di scatto. Deve essere il guardiano o il proprietario. Lo guardo confusa e con un po’ di timore. Cerco di assumere un tono dignitoso e convincente.
Balbetto qualcosa di incomprensibile anche a me stessa. Mi guardo intorno, siamo soli ed entrambi in evidente imbarazzo. Lo guardo e cerco di inventarmi qualcosa da dire, vorrei giustificare la mia presenza. La voce mi viene fuori di getto:
“Mi perdoni l’intrusione ma, sa, in questo villino ho trascorso almeno una ventina di estati. Volevo tuffarmi nel passato. Tra questi fiori aleggiano i momenti più belli della mia vita, qui avevo lasciato ricordi, sogni e speranze di cui ora ho veramente bisogno. Io sto cercando me stessa e il coraggio di continuare a vivere. Non dica nulla, la prego. Questa, ora è casa sua ma per molto più tempo è stata mia, ha rallegrato i miei giochi di bambina, mi ha fatto sognare, è stata la mia isola-che-non-c’è. Mi perdoni ma dovevo recuperare un pezzo del mio cuore e della mia vita.
Mi prende un’incontenibile voglia di scappare via, corro, attraverso il viale, al mio passaggio mille petali volteggiano contenti.
Raggiungo il cancello, lo apro, non cigola più.
Corro alla macchina, non vedo quasi più nulla…i miei occhi sono pieni di lacrime, il cuore trabocca gioia e malinconia insieme. Ho un altro profumo che mi è entrato nell’anima. E’ un aroma che non avevo mai sentito prima: il profumo dell’infanzia.

Stringo al cuore il mio pezzetto di vita e mi volto a guardare, forse per l’ultima volta, la casa della gioia.
Sono tutti al cancello: nonna Nice più bella che mai; nonno Gastone col naso all’in su in attesa che spunti la prima stella della sera; mio padre già con la pompa in mano pronto ad annaffiare l’orto, mia madre in pantaloncini, mia sorella Antonella, adolescente, col suo sorriso tenero e caldo, mio fratello Pierfederico ragazzino sbarbatello, con gli occhi pieni di sogni e di speranze, mia cugina Giovanna, che stringe il suo orsetto di peluche, i miei zii Antonietta e Gaetano, allora giovani…….
Un desiderio irrefrenabile mi spinge ad avvicinarmi, li guardo e sussurro: “Vi voglio bene…”
E’ solo un attimo…..tutto svanisce.
La loro immagine ormai è sfuocata, si è persa tra le lacrime che si sono affollate nei miei occhi o, forse, la realtà li ha riportati tutti in quel mio passato ormai lontano.
Sto piangendo. Le lacrime non sono sempre stille di dolore, queste che mi scivolano sul viso sono il nettare dolce della mia anima felice. 




Elvira Coppola Amabile: proposta di viaggio




Fabrizio Obso Di Baldo

Mi è sempre piaciuto viaggiare, quando ero bambino mi piaceva quell’emozione che provavo nei giorni antecedenti la partenza. Si cominciava con lo scegliere i vestiti che sarebbero stati i più adatti al luogo di destinazione. Se si andava al mare allora era facile, ma la montagna creava un clima di estrema tensione, poteva servire tutto, dal costume da bagno al maglione invernale anche se si era in pieno agosto. Mio padre non voleva o sapeva rinunciare al vestito elegante e mia madre, donna ansiosa e sempre preoccupata per il mio stato di salute, valutava i vestiti che mi avrebbero salvato da non so da quale malattia, per non sbagliare la maglia di lana a maniche lunghe era indispensabile. Con il passare degli anni, soffrendo io terribilmente il caldo, ho capito che era proprio maglia di lana la causa di tutti i miei raffreddori, una volta tolta non li ho avuti più. I tempi della mia infanzia ed adolescenza erano tempi strani perché si ubbidiva ciecamente ai genitori e il guardaroba lo sceglievano gli adulti, quando lo racconto ai miei figli loro sembrano increduli. Poi arrivava l’eccitazione per l’imminente partenza per il lungo viaggio che ci aspettava, le macchine venivano riempite di oggetti e per l’occasione si montava il portabagagli perché le valige sarebbero state caricate lì sopra, il concetto di aerodinamicità era, in quella lontana epoca, del tutto sconosciuto.

Quando tutto era pronto, preferivamo partire di notte per via del caldo, si cenava in religioso silenzio, la tensione era a mille. Ricordo in particolare una partenza, la destinazione erano le “Dolomiti”, la distanza che separa Albano Laziale da Pozza di Fassa era di circa 750 km, con l’850 special il viaggio sarebbe durato ,ora più ora meno, dodici ore. Vivevo quel viaggio come se fossi uno di quegli astronauti che pochi mesi prima era sbarcato sulla luna, era il 1969, io avevo 7 anni e di lì a poco avrei visto le Dolomiti. La vacanza fu bella, i luoghi fantastici, ma le emozioni che provai prima di quella epica avventura non le dimenticherò mai. Se devo associare la parola viaggio ad un ricordo questo è quello che sceglierei. Ora vivo in Finlandia, sono a 3500 km da dove sono nato, con l’aeroplano sono a casa in 6 ore, ma la poesia si è persa.




Angela Maria Pellegrino: O Sussurro da Terra

Da pochi giorni sono ritornata da un viaggio in Patagonia, è stato stupendo.

Sono arrivata nel punto più a sud del continente americano, che è molto più a sud del capo Agulhas (il vertice meridionale del continente africano – non è il Capo di Buona Speranza l’apice meridionale!), tra i pinguini, i leoni di mare, i cormorani delle rocce, ed i ghiacciai.

Per ognunodi noi l’immagine di un ghiacciaio è una gelida distesa bianca che purtroppo oramai si riduce di anno in anno. Ma i ghiacciai della Patagonia sono diversi, credetemi amici, sono ‘vivi’, hanno il loro incredibile ciclo vitale.

Il famoso Perito Moreno, ampio 250 chilometri quadrati, è il più grande ed il più famoso nel versante argentino della Patagonia, un immenso corpo che si adagia sulle Ande e ne percorre e ne possiede gli immensi pendii. A prima vista, da lontano, appare morbido, quasi carnale, luminoso e possente, da togliere il fiato. Una sensazione di sopraffazione, di sbalordimento, di ammirazione: una vera opera d’arte, potente e imponente.

Ci si può avvicinare tramite delle passerelle ben costruite, si ammira da pochi metri la parete ‘finale’ della immane massa, e si deve stare in assoluto silenzio, perché il ghiacciaio ‘suona’. Si sentono scricchiolii, quasi gemiti, a volte sembrano dei lamenti come di una persona che ha un forte mal di schiena, provenire da vari punti della parete solida, poi un improvviso potente boato, e una grossa colonna crolla rovinosamente, alzando ondate di acqua e ghiaccio. Uno spettacolo che ha qualcosa di animalesco, di vivente.

Perché questo ghiacciaio cresce, incredibilmente si allunga giorno dopo giorno nell’acqua del lago Argentino nel quale si trova (un enorme lago che non ha immissari fluviali, che deve la sua esistenza solo ai ghiacciai che lo alimentano da millenni). Ogni due o tre anni avviene un fenomeno veramente unico al mondo: il ghiacciaio, millimetro dopo millimetro, arriva piano piano a toccare la sponda opposta del lago, poggiandovisi sopra e costituendo così una specie di diga nel lago stesso, che impedisce ad una grossa diramazione del bacino di comunicare con il resto del grandissimo specchio d’acqua. Ma l’acqua ‘liquida’ vince sempre e, nella parte bassa del massiccio lembo protruso in avanti del ghiacciaio, flutto dopo flutto scava una piccola galleria trasversale che viene subito sfruttata dagli organismi viventi nel lago e dalla stessa acqua del lago stesso, che così la approfondiscono e la ingrandiscono velocemente, svuotando la parte bassa della lingua ghiacciata del Perito Moreno, fino ad arrivare ad una immane frana del ghiacciaio stesso, che fragorosamente crolla in grossi blocchi nell’acqua stessa.

Emozioni profonde, bellissime. 

Non dobbiamo soltanto cercare e godere di musei, opere d’arte, cattedrali ecc, secondo me, dobbiamo studiare, conoscere bene, ammirare ed amare la nostra magnifica, incredibile madre Terra, nelle sue stupende sfaccettature.




Anna Maria Morgera: l’urlo silenzioso della solitudine

Difficile definire la solitudine perché ha mille sfaccettature, si è spesso soli pur stando in mezzo alla gente e avendo intorno amici e famiglia. La solitudine è una condizione interiore esclusiva che non si vede, la sente solo chi la vive. La più brutta solitudine è perdere le motivazioni che mantengono viva la vita. Provai la più profonda solitudine dinanzi a mio padre agonizzante. L’impotenza rende soli. Solitudine non è essere soli. A me piace stare da sola sulle terrazze affacciate sulla baia della Calanca a Marina di Camerota, oppure seduta presso la torre delle Viole a contemplare il mare. Amo il silenzio delle spiagge e dei sentieri vuoti d’inverno, amo la quiete della città di notte. La solitudine è buio dell’anima e il buio spaventa perché nasconde mille incognite.   È quella del bambino che piange quella che erroneamente identifichiamo come sindrome dell’abbandono. Questa sindrome, benché non si voglia ammettere, ci accompagna tuta la vita. La solitudine è la paura di essere soli, sembra un gioco di parole, la realtà è che qualcosa si rompe dentro e siamo sopraffatti dallo smarrimento. Solitudine non è per esempio paura della morte, è la paura della sofferenza, è ritrovarsi in una dimensione ribaltata rispetto alla perdita di una persona cara e ad ogni altra dimensione. La solitudine rassomiglia a qualcosa che cade rompendosi. Quando qualcosa cade per terra si sente il rumore, a volte è fragoroso.  Ma quando si spezza dentro accade in assoluto silenzio. Io, però, nella mia solitudine ho sempre voluto che questa fosse evidente, che altri ascoltassero, che fosse almeno come un lieve suono di campana, invece era silenziosa, quel rumore c’era, esisteva era interno, ed era un urlo che nessuno all’infuori di me poteva sentire. Un boato così forte che le orecchie rintronavano e la testa faceva male. Si dimenava nel petto; ruggiva come la mamma orsa a cui è stato rapito il cucciolo. Era un’enorme bestia intrappolata che si agitava, presa dal panico e gridava come un prigioniero davanti ai propri sentimenti. La solitudine è così nessuno ne è indenne. È selvaggia, infiammata come una ferita aperta, esposta all’acqua salata del mare, spezza il cuore…. E non fa rumore.

La solitudine! Ore trascorse a pensare e a rivivere i nostri gesti, le parole, la gioia, fa male questo dolore che non se ne va mai. Mi sono sentita spesso sola, come un’intrusa nella mia stessa anima. Penso spesso che la Terra possa sentirsi molto sola in questa parte dell’universo, perché non c’è nessuno come lei, almeno nelle vicinanze. Nella solitudine io mi sento così, come la Terra.  Quanti fulmini, quanta indifferenza!

Da ragazza sognavo ad occhi aperti che, come da un mondo parallelo, qualcuno mi combaciasse e venisse a salvarmi. Sognavo ancora seduta sulla mia panchina in riva al mare Ma non si sedeva mai nessuno accanto a me, su quella panchina. Ecco perché la ricordo.   Una estate, una sera qualunque. Non so dire se ci fosse già prima che mi sedessi, ma c’era là, accanto a me, su quella solita panchina, non parlava, dondolava i piedi ed era a testa bassa: una bambina. Ogni tanto le davo un’occhiata, era tutta sola. Volevo sorridere come faceva lei o rendermi innocente come la sua immagine. Perché non aveva paura della strada deserta? Provavo a parlarle, ma non ci riuscivo, sentivo di sforzarmi e mi veniva da piangere. La osservavo con gli occhi lucidi e abbassavo lo sguardo sui miei piedi fermi. Chiunque ci avesse guardato, avrebbe capito la differenza tra l’essere bambino e il diventare adulto, tra la spensieratezza e il peso del mondo sui pensieri. Non è passato molto tempo da quella sera, da quella volta che mi sentivo un nodo soffocante in gola. Pochi anni. Nel frattempo sono corsa via dalla mia realtà, ho lasciato tutto ciò che credevo mi rallentasse o mi creasse costrizione. Pensavo fosse un sollievo cambiar vita, pensavo fosse possibile non sentirmi più sola. Ma sono sempre sola, lo sono davvero, sola con il corpo e con il cuore, è come non avere più nulla nemmeno il passato. La mia casa è laggiù sul mare. Da qui, dal mio “dentro” non si vedono nemmeno le stelle. È come avere sempre un cappello in testa e un collare lungo il collo, non puoi alzare il capo e non vedi altro che il solito colore e anche se qui piove sempre, non ci sono i miei fulmini sul mare, nessun ruggito del cielo, se non la mia voce che pare così debole sul manto della gente … Il tempo vola, incontrollabile, indifferente, mi sfugge e mi svuota, allontanandomi da quella che ero e dai sogni di ciò che avrei voluto essere. Perdo il senso delle mie passioni, pensando di raggiungerle, le ho abbandonate. Vorrei dipingere il sorriso di mia madre sulle pareti. Vorrei, se proprio devo piangere, tornar sulla mia bianca panchina. Vorrei tornar bambina … 

Che fai?”, le ho chiesto in sogno questa notte. La bambina che avevo incontrato quell’estate continuava a dondolare con le gambine e a sorridere. Non avevo il nodo in gola.
Perché sei tutta sola? –  Lei mi guarda ancora.
Non sono sola. – risponde. –
Rimango stupita, e lei ride: – Ci sei tu …
Davvero ti faccio compagnia? –  le chiedo rincuorata. Lei fa cenno di sì con la testa. –
Perché muovi sempre le tue gambe, non ti stanchi mai? –
La bimba si avvicina, sembra volermi sussurrare un segreto:
Tolgo la sabbia dai piedi … – mi dice. –

 Io l’abbraccio forte forte. Questo ho capito, questo faccio: abbraccio la mia infanzia, poiché crescere ci rende soli … la spensieratezza e l’innocenza dei sogni bianchi, questo perdura nei nostri occhi e solo così potrò avventurarmi senza spegnermi.  




Un viaggio con il sottomarino del “Comandante”

“Perché siamo italiani!” la frase finale di Favino nel film Comandante ha suscitato le stroncature di tanti giornalisti, critici ed  intellettuali soprattutto, purtroppo, sul giornale Il Manifesto e anche in parte sul Fatto Quotidiano.
Come se fosse il pensiero del regista De Angelis e non il modo per il protagonista di rifiutare il ruolo di eroe, di non sentirsi l’unico Sisifo costretto a portare  faticosamente su e giù il suo amor patrio senza riuscire a liberarlo dal pesante fardello  della retorica fascista e della guerra  che gli impedisce oltretutto di abbandonarsi alla sensualità e alla serenità della vita familiare.
Guardando il film sono ancor diventate più vivide nella mia mente le immagini dei fatiscenti barconi degli emigranti in balia delle onde del mediterraneo e (ce n’è sempre bisogno) la consapevolezza della spietatezza di ogni guerra in cui l’umanità per sopravvivere deve vestirsi da palombaro.

Ma forse anche il Carlo Panzella degli anni 70 avrebbe parlato male di questo film.

Marx Mandel Maitan

Marx, Mandel e Maitan mi avevano dato gli strumenti per capire e cercare di combattere le nefandezze del capitale e la lucidità delle loro analisi ancora oggi sono una piccola torcia per orientarmi nel buio sempre più cupo di questo mondo. Ma  il rischio era sempre di guardare un film a colori sul televisore in bianco e nero e giudicare un nuovo film, un nuovo libro, i comportamenti e le idee delle persone con uno schema estremamente bipolare: o di qua o di là. Per nostra fortuna la responsabilità verso gli operai e gli studenti cavesi e la nostra vita associativa giovenile ci impedivano di diventare estremisti censori, ciò nonostante, per esempio, coprimmo di foglie gialle l’affetto verso persone per esempio come Bruno, buono e generoso, sol perché era di destra. Con il tempo mi sono convinto che la palla al piede della sinistra europea è stata la sua impronta leninista: la miope ed ideologica scelta di Lenin di mettere alla guida della rivoluzione russa il partito bolscevico e non i soviet.

Salvatore Todaro

Ecco, stroncare un film come “Comandante” ed esaltare in maniera spropositata innocui film pur godibilissimi ma dei quali non vale la pena di parlare con nessuno, mi sembra l’avvelenato frutto della malattia del togliattismo-stalinismo  di cui da sempre è purtroppo è vittima buona parte della sinistra italiana (non parlo ovviamente del PD che considero un confuso  partito di centro più o meno simile alla fu sinistra democristiana), la maggior parte di quella che scrive sui giornali, quella dei partitini pulviscolo, quella che gironzola per le stanze delle televisioni; il fascismo si combatte sì con l’intransigenza e con la lotta politica ma non con la sottovalutazione delle emozioni, dei sentimenti popolari e delle contraddizioni del vivere quotidiano.
Naturalmente becera mi sembra la lettura dei giornalisti di destra ai quali la parola Italiani provoca orgasmo chiunque la pronunci. Ma su loro non voglio infierire più di tanto, voglio solo aggiungere che mi fanno ricordare il mio amico S. che raccontava che quando era ragazzino bastava che leggesse una frase tipo “Ella entrò nella stanza” per eccitarsi , e penso perciò che Meloni dovrebbe sentirsi responsabile delle loro masturbazioni mentali.

P.S. Spero che a tanti critici un po’ spocchiosi sia perlomeno piaciuta la lunga  e strabiliante citazione dei piatti della cucina italiana sui titoli di coda.