La terra è un’immane produzione di amore e di merci.

(dal mio Gocce Sognanti)

Non so se qualcuno conosce i romanzi e i film di Nicholas Sparks: storie intense d’amori più o meno difficili, buone ambientazioni e sereni finali.
Giudicare il valore letterario di questo autore americano che ha venduto 100 milioni di libri non è nelle mie possibilità, ma girovagando fra le proposte televisive mi è capitato di vedere “Le parole che non ti ho detto”, “Come un
uragano”, “Le pagine della nostra vita”,” La scelta”.
Mi sono incuriosito e, tentato dai richiami romanticizzanti, ho letto un paio di libri.
Chissà se fra venti anni i suoi racconti saranno ancora letti da un pubblico numeroso e non voglio neanche lontanamente paragonare le sue opere alle immortali e meravigliose narrazioni di “Orgoglio e pregiudizio”, “Ragione e sentimento” o “Emma”.
Ma mi è venuto il ghiribizzo di scrivere quel che segue.
Nei romanzi della Austen, ma lo schema vale anche per altri autori e non solo per narrazioni sentimentali, il lieto fine è sempre preceduto da una resa al destino e ai ghirigori della vita e l’amore cresce e si fortifica prima nei pensieri e spesso, direbbe Modugno, nella lontananza. Non ci si dichiara apertamente e
non ci si bacia se non nelle ultime pagine, dopo un lungo cammino dell’anima ed una ponderata e consapevole maturazione personale.

Si agisce perché costretti dalla vita ed il fare affrettato, come quello di Lydia (la sorella di Elizabeth), è sempre foriero di dolori, delusioni, difficoltà.
Anche Emma conosce la felicità solo quando smette di agitarsi. Prima un percorso di formazione, di crescita e maturazione e poi la tranquillità luminosa del futuro.
Così fu la storia della borghesia nella sua fase ascendente; furono i Voltaire, i Diderot, gli utopisti a preparare la presa del potere della nuova classe produttrice.
Nei racconti di Sparks invece spesso ci si innamora in poco più di un giorno e si ci si abbandona subito a profondi abbracci superando di getto qualche ostacolo.
Ma nel momento in cui la passione non è più totalizzante, si riflette e ci si ritrae per un po’ di tempo; subentrano smarrimento e inquietudine, sembra impossibile dare continuità e prospettive al rapporto fino a quando dopo un po’ di tempo non si comprende che bisogna cambiare abitudini, casa, città e lavoro
per ritornar a riveder le stelle.
Come il ciclo del capitale che oggi noi conosciamo: produzione, superproduzione, stagnazione, crisi, produzione di nuove merci!
Il fare diventa più importante del pensare. E se non si agisce tutto è compromesso!
Il buon Sparks è americano fino in fondo, ma qualche volta anche la buona letteratura moderna si muove lungo questo sentiero narrativo.
È il caso, per esempio, del maestoso racconto “Quel che resta del giorno”, nel quale il non agire del compassato Stevens e le disperate ma purtroppo poche lacrime della riservata signorina Kelly sono il vero motivo del mancato lieto fine che invece tutti i lettori – spettatori si aspetterebbero. Peccato!!!




Sogno americano

di Giancarlo Durante

Ma non scherziamo. Negli Stati Uniti bisogna andarci. E, per chi ne ha la possibilità, consiglio di andarci spesso. Escludere gli USA dagli itinerari turistici solo per partito preso, per una visione grossolanamente ideologica, perché gli States sono marchiati come regno del male, fa parte di un anti americanismo ormai fuori moda e fuori luogo, tribale, un falso apoftegma per gli amanti del greco antico, perché confonde le enormi responsabilità che gli USA hanno avute nelle politiche d’imperialismo a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale con le infinite sfaccettature di un mondo che contiene tutto e il suo contrario e la cui complessa storia sarebbe un delitto ignorare. Deponete, perciò, cari amici, l’abito del turista europeo(peggio italiano, peggio ancora di sinistra)spocchioso e con la puzza al naso. Allenate la vista l’olfatto l’udito e anche il gusto agli eccessi, lasciandovi trasportare dalla voracità del conoscere, dalla bulimia di nuove esperienze sensoriali e soprattutto abituatevi a standard abnormemente amplificati:createvi un nuovo concetto di dimensione. Perché in USA la quantità, per incanto, si trasforma in qualità. Dalle piazze ai giardini, dai grattacieli all’intensità delle luci, dai suoni alle pinte di birra, dalle prime colazioni dei cuochi obesi dei college alle adunate delle più pittoresche sette religiose, tutto in America è esagerato, dilatato. Bello perché profondamente diverso dalla nostra tranquilla ipocrita realtà strapaesana. Se non c’è questa precisa disposizione di animo, se non si materializza questa speciale“apertura”mentale, lasciate stare: gli States non sono fatti per voi! New York, poi, è una città stupenda. E per chi ama il cinema, come si fa a non associarla all’immagine che viene fuori dai films di Woody Allen, contaminati dalle atmosfere patinate e dai riti e vizi della medio-alta borghesia newyorkese, che ignora l’infimo dei sobborghi violenti e delle sterminate e dimenticate periferie della città? New York rimane, comunque, impareggiabile:un luogo dove ti può capitare di essere proiettato in un futuro astratto, apparentemente anonimo, ipertrofico e ipertecnologico, come il World Trade Center, con l’ascensore che in 1 minuto ti proietta al 100° piano o a sperimentare l’inno apotropaico della scultura del Bowling Green Bull a Wall Street. Una città dove puoi aspettarti di essere “sequestrato” dalla simpatica proprietaria di un bar (strano i chioschi a New York non possono servire alcolici! ), alla quale non sembra vero di poter raccontare di essersi recata due volte in Italia a degli italiani:giusto per farti illudere un attimo di essere una persona importante.

E insieme restare basito di fronte alla scena del gruppetto di ragazzine sorvegliate da un anziano “signore” mentre escono da un Mac Donald’s per fuggire di corsa chissà dove nell’indifferenza della moltitudine della Quinta Strada. Come restare impassibili , poi, ai canti e balli lungo la spiaggia di Long Beach o al frastuono del Luna Park di Coney Island o quando vai a cercare ciò che resta dei fasti di quella che, una volta, era la Little Italy, ingoiata dagli impenetrabili quartieri di China-Town?E se per avventura ti dovesse capitare di visitare qualcuno degli stupendi Colleges Universitari del New England, non sarebbe difficile calpestare immensi spazi verdi, boschi abitati dagli animaletti più strani che pensavi comparissero solo nelle storie di Walt Disney. In quale altro luogo al mondo puoi, poi, scoprire lo stesso orgoglio e lo stesso patriottismo che mostrano gli americani nella cerimonia dell’alzabandiera, se non recandoti a Philadelphia, al Memorial Day? Come pure qualcosa in più potrai capire della recente storia americana se ti avventuri sul lungomare di Baltimora, luogo citato, persino, nei fumetti del Grande Blek. E quando ti rechi a Boston, sai che ti trovi in uno dei maggiori templi della cultura, della storia e del progresso non solo americano, sede dell’ Harvard University e del Massachusetts Institute of Technology. E nessuna emozione ti assale nell’aggirarti a pochi passi dalla Casa Bianca o, autorizzato, quando ti permettono di visitare un’ala del Campidoglio? E non dirmi che non ti solletica un po’ entrare in una capsula spaziale al National Air and Space Museum di Washington? Con qualche giorno in più di permanenza potresti, poi, solcare in canoa gli incontaminati corsi d’acqua e i laghi dell’Oregon, lo Stato americano che offre uno dei sistemi sanitari più avanzati al mondo. E andare a vedere le famose Cascate, e gli Stati del Middle-West e quelli del Sud, i deserti dell’Arizona e il New Mexico, la Florida, la California, la musica di New Orleans, la Silicon Valley e Disneyland, e così via. La Repubblica Federale degli Stati Uniti d’America conta 50 Stati, pochi localizzati fuori dal territorio americano, gli altri distribuiti su di una superficie che è più di trenta volte quella dell’Italia. All’interno di ciascuno di questi stati trovi una ricca, caleidoscopica società pulsante, lontana, però, dagli stilemi e dai ritmi di vita di noi, abitanti del Vecchio Continente. Non è una novità, quindi, se scopri che in America c’è troppo da conoscere e troppo da vedere e appare naturale mostrare un iniziale moto di rigetto. Iniziale, però. Perché se ti riprendi, in America poi ci torni. Così alla fine ti accorgi che le cose sono tante, troppe, da poter essere contenute e banalizzate in una paginetta del blog di Carlo. Sterminati i territori e le metropoli e sterminata la letteratura americana. Così, col rischio di avvicinarmi pericolosamente al senso del ridicolo oso proporvi due testi che mi vengono in mente (il tempo sta diventando sempre più risicato e da leggere c’è ancora tanto e pure i luoghi da visitare al mondo sono ancora troppi e diversi sono gli spezzoni di vita vera ancora da vivere). Il primo un po’ fuori dagli schemi abituali é formato da storie di ordinaria normalità, un autentico gioiello di lettura “leggera”che esce fuori da un libro edito nel lontano 1964 e acquistato per 350 lire come Oscar Mondadori, che si chiama ”Che ve ne sembra dell’America?” e l’autore non è di quelli stra-conosciuti:William Saroyan. Il secondo è dell’arci-noto David Foster Wallace. E mi sembra illuminante riportarvi qualche passo significativo, tratto da uno dei suoi pamphlets più noti“Considera l’Aragosta”.

Il Festival dell’Aragosta del Maine, immenso , pungente ed estremamente ben pubblicizzato, si tiene ogni anno a fine luglio. . . L’affluenza totale quest’anno ha superato le centomila persone, . . Food & Wine proclamava il F. A. M. forse la migliore festa a tema gastronomico del mondo. Ricordo che l’industria alimentare statunitense produce circa quaranta milioni di chili di aragosta e il Maine è responsabile per più della metà del totale. Punti salienti di questa edizione sono: concerti di Lee Ann Womack e degli Orleans, concorso di bellezza, annuale Dea Marina del Maine, grande Parata del Sabato, corsa sulle casse in memoria di William Atwood, di domenica:gara di cucina amatoriale , giostre e attrazioni da luna park, e stand di roba da mangiare , oltre al al tendone del Ristorante del F. A. M. , dove vengono consumati qualcosa come più di undicimila chili di aragosta del Maine appena pescata, cotti nella Pentola per aragosta più grande del mondo vicino all’ingresso nord della Fiera. . . Il Festival , alla fine, non é poi così diverso dalle sagre del granchio nella regione del di Tidewater, dalle sagre del granturco del Midwest, o del chili con carne in Texas, eccetera, e con queste ha in comune il paradosso di fondo di tutti gli eventi commerciali demotici e brulicanti: non è per tutti. In realtà c’è molto da dire sulle differenze fra la Rockland operaia e il sapore populista del festival vs l’agiata ed elitaria Camden con il suo panorama costoso e i negozi ceduti a maglioni costosissimi e schiere di villette trasformate in B&B. . . . Essere turisti americani di massa per me significa diventare puri americani dell’ultimo tipo ; alieni, ignoranti, smaniosi di qualsiasi cosa che non si potrà mai avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare, per mera ontologia, quell’ incontaminatezza che si è andati a sperimentare. Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi non-economici, migliori e più veri senza la nostra debordante presenza. Scrivendo queste righe mi è venuto alla mente quel che un po’ di anni fa mi confessò una cara amica venuta a trovarmi per la prima volta a Cava. Ti devo dire la verità, mi disse, seria e con un tono solenne, asseverativo, ho preso un maglione in un negozio di Cava; ma l’educazione e la bonomia che ho trovato comprando un vaso di ceramica a Vietri non le ho riscontrate nella vostra città. Sarebbe lungo raccontarti, le risposi, cara mia, ma la gente di Vietri, sai, ha origini etniche un po’ diverse da quelle dei cavesi. Poi l’aria di mare. . . ! Tanto per dire:fantasioso e originale archiviare con una battuta”turistica” Cava e i suoi cittadini, un po’ più arduo farlo quando si maneggiano America e Americani!




Stare in ogni luogo…stare in nessun luogo

da libro di Gunther Anders…. con qualche variazione!

Essere a casa stando in pubblico rappresenta una componente della nostra esistenza odierna, che finora è stata generalmente trascurata dalla teoria. Ciò che finora la critica culturale aveva messo in primo piano era stata sempre la deprivatizzazione della sfera privata. Ma con questa veniva descritta solo la metà della nostra esistenza attuale. Non meno importante è il suo pendant: insomma il fatto che anche la sfera pubblica ha perso la sua univocità, che questa sfera (nonostante il monopolio che sembra aver conquistato con la deprivatizzazione) spesso viene intesa soltanto come una continuazione della sfera privata (dunque per niente come pubblica) . Chi trascura d’inserire nel quadro dell’epoca odierna entrambe queste mutilazioni, disegna un ritratto d’epoca incompleto. Fa parte del quadro sociopsicologico dell’uomo moderno, per esempio, non solo che a causa dell’incessante scorrere del mondo esterno egli stia sempre altrove e mai a casa, dunque la perdita della sua sfera privata; ma che nello stesso tempo egli è dovunque e sempre a casa.

Di qui la perdita dei suoi sentimenti per il mondo esterno, ovvero l’elefantiasi della sua sfera privata. Così come (anche stando effettivamente seduto in casa) mediante le trasmissioni egli si trova sempre anche in qualche altro luogo e tuttavia nello stesso tempo resta sempre a casa (anche quando, seduto nella sua automobile, attraversa paesi stranieri) . Se la radio, la TV ed il web sono l’incarnazione della sua deprivatizzazione, l’automobile è l’incarnazione del suo essere sempre a casa. Chi vede nella radio (o in uno smartphone) e nell’ automobile semplicemente due apparecchi, solo per caso divenuti decisamente importanti contemporaneamente, non capisce quanto stretto sia il loro rapporto di complementarità. Di fatto il sogno della nostra esistenza odierna si adempie solo quando i due apparecchi ci servono contemporaneamente; quando noi, pur attraversando paesi stranieri, rimaniamo tuttavia a casa, dato che non abbiamo lasciato la nostra auto, cioè la nostra seconda casa; e perché in essa riceviamo come a casa, per mezzo della nostra radio o del nostro cellulare, un secondo mondo.

Noi uomini d’oggi per metà siamo nomadi, perché persino quando siamo a casa ci troviamo a ogni istante in un posto diverso; e per metà siamo sedentari perché, quando viaggiamo effettivamente in paesi stranieri, possiamo consumare i comforts dell’essere a casa, e paradossalmente ciò significa che abbiamo anche la possibilità di sostare in un altro luogo (vale a dire un luogo trasmesso) .Abbiamo l’illusione di poter stare contemporaneamente dappertutto ed invece spesso dimoriamo nel rumoroso territorio del nulla.




Un viaggio (quasi gratuito) a New York

Non sono mai andato negli Stati Uniti, né ho intenzione di farlo mai, ma a New York ci sono stato per tre giorni al prezzo di pochi euro. Mi hanno portato alla prima, seconda ed  ennesima avenue le pagine di Trilogia di New York di Paul Auster autore di cui  fino a sette giorni fa non avevo mai letto niente. La notizia della sua morte, non so perché, mi ha spinto verso questo suo trittico intrecciato dei tre racconti racchiusi nel volume. Ed eccomi per tre giorni nelle vesti di Quinn, di Blue e di uno scrittore a cercare, controllare e seguire Peter Stillman, il signor Black  o l’amico di infanzia Fanshawe fra i meandri, le piazze, i palazzi della metropoli americana.

Un libro da leggere tutto d’un fiato e che vale da solo cento volte tutte le guide turistiche di New York, anzi vale cento volte il viaggio reale in questa città.
La scrittura di Auster è ipnotica, pindarica e spiazzante con continue variazioni di direzione narrativa procedendo a zigzag, come fanno spesso caoticamente i suoi personaggi lungo le strade della città dall’apparente ordine rettangolare euclideo ma di fatto invece immersa in una struttura di geometria iperbolica, ma al contrario di loro senza perdere mai il senso del peregrinare, perché le parole sono di per sé avulse dalla realtà e perciò ti portano nei luoghi  in cui vogliono andare anche quando sospetti di loro.

Una città allucinante, surreale come i quadri di Escher, popolata da persone inafferrabili che non puoi conoscere se non a rischio di sprofondare nei tunnel scavati dentro te stesso dai vermi silenziosi che popolano la grande mela. Un labirinto alla stregua della Biblioteca di Babele di Borges nel quale però trovi sempre un unico libro, un taccuino rosso pieno di parole indecifrabili alla lunga oscure anche per chi le ha scritte. Percorrere le strade della metropoli americana alla ricerca del significato dell’esistenza è cosa più folle e più grigia della lotta di Don Chisciotte contro i mulini a vento.

E quando poi entri in contatto con la persona al centro del tuo peregrinare fisico e mentale scopri che è soltanto il tuo William Wilson del racconto di Poe che ti trascina nel vortice bianco accecante in cui scompare Gordon Pym.

NON ANDATE A NEW YORK se  non insieme a Paul Auster!




Post-turismo: il reale diventa la riproduzione delle proprie immagini. La realtà viene prodotta dalla riproduzione

Nel suo libro
L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale.
Günther Anders offre l’esempio dei turisti che, sistematicamente armati di macchina fotografica, si accaniscono a «riprendere» (cioè a «prendere presso di sé») in maniera ossessiva tutto quel che vedono durante i loro viaggi: «Come non fotografano ciò che vedono – perché ciò che vedono, lo vedono soltanto per fotografarlo; e quel che fotografano, lo fotografano soltanto per averlo –, cosí ciò che fotografano non è per loro il “reale”. “Reale” è per loro invece la riproduzione fotografica» Quel che davvero importa per questi turisti non è l’esserci, il fare esperienza spazio-temporale del luogo visitato nel presente del viaggio, ma l’esserci stati. E l’aver ripreso e riportato a casa quel luogo sotto forma di immagine. Anders stendeva queste osservazioni a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso: possiamo solo constatare quanto nel frattempo tale condizione si sia radicalizzata con la diffusione pervasiva dei dispositivi digitali di produzione e riproduzione di immagini.

e se non ti sei già stancato/a di leggere e l’argomento ti interessa ecco il passo per intero:

«Riprendere» significa però anche «prendere presso di sé». Perché, riproducendo, questi maghi ottengono al tempo stesso l’effetto di «avere» gli oggetti. Non si completi: «solo in effigie». Il modo in cui «hanno» questi oggetti è anzi proprio quel «modo di avere» a cui sono abituati. «Hanno» gli oggetti soltanto perché li hanno in effigie. Dato che non conoscono ormai altro soggiorno che non sia quello tra effigi – le merci in serie del loro mondo, tra cui, con le quali e delle quali vivono, sono infatti tutte riproduzioni di modelli – le riproduzioni sono per loro appunto la realtà. Come non fotografano ciò che vedono – perché ciò che vedono, lo vedono soltanto per fotografarlo; e quel che fotografano, lo fotografano soltanto per averlo -, così ciò che fotografano non è per loro il «reale».
«Reale» è per loro invece la riproduzione fotografica, cioè: gli esemplari della serie fotografica, assunti a far parte dell’universo dei prodotti in serie, diventati loro proprietà. Espresso in termini ontologici: Hanno sostituito l’«esse = percipi» con un «esse = haberi».11 «Reale» per loro non è la piazza San Marco che si trova a Venezia, ma quella che si trova nel loro album di fotografie a

Wuppertal, a Sheffield o a Detroit. Il che significa anche: Per loro non conta esserci, ma soltanto esserci stati. E ciò non soltanto perché esserci stati aumenta il loro prestigio in patria, ma perché solo quel che è stato rappresenta un possesso sicuro. Mentre, infatti, il presente, fuggevole com’è, non può essere «avuto», e rimane un bene inafferrabile, irreale, improduttivo, anzi non rimane, ciò che è stato, diventato oggetto sotto forma di immagine, e quindi una proprietà, è il solo reale. Formulato in termini ontologici: «Soltanto essere stato è essere». Se tra questi maghi se ne trovasse uno che, oltre a fare come gli altri, si rendesse conto di quel che fa – cosa naturalmente assai improbabile, perché foto- grafare e filosofare sembrano escludersi a vicenda -, egli darebbe la seguente giustificazione della sua vita passata scattando fotografie: Niente è stato invano nella mia vita, niente è stato sprecato, niente improduttivo, perché ho trasformato tutto quel che è stato in ripro- duzioni, quindi in oggetti fisici; e ne ho riportato a casa le riprodu- zioni, la maggior parte in bianco e nero, in parte a colori e in piccola parte persino in movimento, di modo che le posso avere per sempre. Tutto è ora, perché rimane; tutto è ora, perché è immagine.

«Essere» significa dunque: essere stato ed essere riprodotto ed essere immagine ed essere proprietà.

Investigare più a fondo lo stretto rapporto tra la tecnica della riproduzione e la memoria (non a torto chiamata «facoltà riproduttiva») ci porterebbe troppo lontano. Diremo qui soltanto che è un rapporto ambiguo: da un lato le fotografie ci fanno ricordare; ma dall’altro lato – e questo è più importante – i souvenirs, diventati cose, hanno atrofizzato il ricordo quale stato d’animo e quale prestazione e lo hanno sostituito. L’uomo odierno, ammesso che attribuisca ancora qualche valore a concepire se stesso come «vita», ad avere un’immagine autobiografica di se stesso, la ricompone con le fotografie che ha scattato. Le immagini di quel che è stato non hanno più bisogno di essere evocate; si apre la pagina su cui si trovano, e non hanno più bisogno di risalire dal profondo – tutt’al più dalle profondità dell’album. Là e solo là giace il suo passato, come pure la basilica di San Marco. Solo con l’aiuto delle istantanee, che ha incollate e che quindi non possono andare

perdute, ricostruisce il suo passato; egli tiene un diario solo sotto forma di album. Sia detto di passaggio che una vita ricostruita a questo modo si compone solamente di gite e di viaggi e che tutto il resto non sembra contare, come «vita».

In fondo è il principio del museo che ha trionfato ora quale principio autobiografico: ognuno si trova di fronte la propria vita in forma di una serie di immagini, come una specie di «galleria autobiografica»; e quindi non più come qualche cosa che è stato, perché tutto quel che è stato viene proiettato su un unico piano, quello dell’immagine presente e disponibile. Tempo dov’è il tuo veleno?

Se si offrisse al signor Schmid o a Mr Smith un viaggio in Italia, alla condizione però di non fotografare assolutamente nulla durante il viaggio, di non preparare quindi nessun ricordo per dopodomani, rifiuterebbe certamente l’invito, perché lo considererebbe uno spreco, e quasi quasi che lo si ritenga capace di un’azione immorale. Costretto a fare un viaggio del genere, sarebbe colto dal panico, perché non saprebbe cosa farsene del presente e di tutte le vedute «fatte apposta per essere fotografate» – insomma: non saprebbe cosa fare di se stesso. E’ perfettamente logico che l’invito allettante delle agenzie di viaggio non sia: «Visit lovely Venice», ma: «Visit unforgettable Venice». Ancor prima che si sia vista passa per indimenticabile. Non la si deve visitare perché è bella, ma perché è indimenticabile; così come si deve comperare un paio di pantaloni perché sono «inconsumabili». Non è indimenticabile perché è bella; bensì, dato che è «garantita indimenticabile», il turista può essere sicuro che è anche bella. Ma per chi viaggia a questo modo, il presente è degradato a mezzo per procurarsi «ciò che sarà stato»; a giustificazione, in sé nemmeno degna che se ne parli, della sola merce valevole, della riproduzione, del futuro anteriore; dunque è degradato a qualche cosa di irreale e fantomatico. È superfluo rilevare che non solo i viaggi sono compiuti oggi a questo modo.




Fidia o Alcamene

Sto leggendo il volume di Andrea Pinotti sulla teoria delle immagini; spesso da un po’ di tempo a questa parte mi succede di trasformare in metafore molte delle cose che leggo. Cosi è successo per l’episodio che qui riporto. Al di là delle nostre capacità artistiche (relazionali) bisogna presentarsi con le fattezze di una statua di Fidia o con l’aspetto di un’opera di Alcamene nel nostro rapporto con gli altri o forse la scelta deve dipendere dalla vicinanza affettiva?

Una volta ci fu bisogno di realizzare statue di Atena da sistemare su delle colonne e gli ateniesi si affiaffidarono a due scultori, Fidia ed Alcamene. Quando venne il momento di decidere fra le due opere, le figure di Alcamene sembravano brillare per il loro aspetto esile e femminile, mentre quelle dell’altro presentavano la bocca aperta, il naso sproporzionato, la testa e le spalle più adatte ad un robusto uomo che a una dea. Fidia rischiò di essere lapidato per sacrilegio, ma quando finalmente riuscì a convincere i giudici a porre le statue sulle colonne, le fattezze delle sue creazioni apparvero proporzionate ed eleganti, mentre quelle di Alcamene brutte e ridicole.




Dal libro “Gocce sognanti”: Stravos e Despina, Alexis e Vassilikì

Nella zona nord occidentale di Creta una lingua di terra, il promontorio di Corico, sfida il mare per protendersi verso l’arcipelago Gramvousa. Non ci sono strade se non un’ampia pista in pietrisco che va dai dintorni di uno dei ristoranti più caratteristici e più belli di Creta fino ad altura in prossimità della Baia di Balos. Li vicino è anche previsto un parcheggio per gli asini.

Fermata l’auto si imbocca il sentiero che porta alla laguna che appare improvvisamente appena inizia la ripida discesa verso il mare.
Si rimane a bocca aperta per i colori e la limpidezza delle acque e per il bianco ed il rosa della spiaggia.
Nei pressi dell’area di parcheggio c’èra una baracca nella quale una coppia di vecchietti teneva un piccolo commercio di bibite, e proprio là decidemmo di riposarci nel tardo pomeriggio al termine dell’affaticante ritorno.
Mi piaceva già allora scambiare qualche parola in greco quando potevo e perciò subito presi a chiacchierare con i simpatici Stavros e Despina.
Scoprii che l’uomo conosceva un po’ della nostra lingua essendo stato a contatto da ragazzo per due anni con il piccolo presidio di soldati italiani presente nell’isola dal 1941 al 1943 e negli anni 50 era stato diverse volte ospite a Bari del capitano Riccardo Bonadies che lo aveva preso a benvolere.
Saltellando fra le due lingue ci fu fatto questo racconto:

Ai vecchi tempi, ai tempi del mio trisavolo, Gramvousa era un covo di pirati che avevano costituito una vera e propria città marinara con tanto di chiesa dedicata alla Παναγια η Κλεφτρινα, “patrona dei ladri”.
Oltre ad essere il terrore di tutte le navi che solcavano quel mare, i grabusini non disdegnavano scorrerie nei villaggi della zona alla ricerca di animali e cibarie, ma soprattutto di donne.
Perciò una mattina gli abitanti di Kissamos, vedendo avvicinarsi le barche dei pirati, si affrettarono a nascondere le loro ragazze e le loro giovani mogli.
Il vecchio settantenne Alexis, pieno di angoscia, disse alla moglie Vassilikì:

-Presto io non posso muovermi ma tu corri a nasconderti ..se no questi arrivano e se ti vedono ti prendono …
-Ma io non ho paura, rispose lei, sono vecchia e malridotta…. che mi possono mai fare? “
Allora il marito la guardò con tenerezza e facendole una carezza le disse:
– Sì …. ma, se ti vedono con i miei occhi?

Mentre mi raccontava questa dolce storia, Stavros non distolse lo sguardo dal viso di sua moglie Despina e quando giunse alla fine la abbracciò mentre i suoi occhi diventavano lucidi.
Anche noi ci commuovemmo molto e rimanemmo ancora un po’ di tempo in loro compagnia a bere raki fino a quando al calar del sole ci allontanammo mano nella mano verso la nostra auto.
Ci proponemmo di ritornare a Balos e lo facemmo dopo due anni e grande fu la malinconia quando trovammo la capanna di Stravos e Despina in evidente abbandono.
Probabilmente avevano lasciato il paradiso terrestre della laguna per raggiungere, non so dove, Alexis e Vassilikì!

Siamo stati altre volte a Creta, ma non siamo più tornati a Balos.




Giancarlo Durante: Praga ’78 nera e misteriosa bellezza

 Vivere è stare sveglie concedersi agli altri,
dare di sé sempre il meglio e non essere scaltri.
Vivere è amare la vita coi suoi funerali e i suoi balli,
trovare favole e miti
nelle vicende più squallide.
Angelo Maria Ripellino – da Wikipedia-

Avevo da poco compiuto i 18 anni quando Jan Palach il 16 gennaio del 1969 volle esprimere la sua fiera opposizione alla dittatura imposta dai sovietici in Cecoslovacchia, dandosi fuoco in Piazza San Venceslao a Praga. Immolare la propria vita per ideali così alti da parte di un giovane, quasi mio coetaneo, colpì, e, in qualche modo, segnò molti di noi, incuriositi dai movimenti libertari che si andavano sviluppando negli Stati Uniti, in Francia e in quasi tutta l’Europa Occidentale. Ci fu questo, ma anche altro, a spiegare perché dieci anni dopo fui spinto a visitare “la nera bellezza” di Praga. Un po’ di tempo prima con amici, mentre attraversavamo la Cecoslovacchia per raggiungere Cracovia, in un viaggio che precedeva non di molto i tic maschilisti di un’ italietta non solo da sottoproletariato (come raccontato nel film icona di Verdone “Un sacco bello“) , avevo conosciuto una ragazza che ci aveva chiesto un passaggio in auto per qualche chilometro. Come appresi dalla corrispondenza epistolare intrecciata, che seguì quella rapida conoscenza, Jana si era, poi, iscritta alla Facoltà di Lingue proprio a Praga. Decisi di andarla a trovare e di visitare quella splendida capitale europea, tante volte immaginata leggendo l’incredibile descrizione che ne volle fare Angelo Maria Ripellino in “Praga Magica”. ”Una città che chi l’abbia guardata una volta nei profondi occhi trepidi e misteriosi, resta per tutta la vita succubo dell’incantatrice. . . . , per secoli nido di avventurieri senza pietà né legami, …. dalla quale ciascuno strappava, ingoiava un pezzo della viva polpa . . . , la quale dava sino ad esaurirsi, senza che alcuno le si desse, per ripagarla di ciò che le aveva tolto”.

https://www.facebook.com/watch/?v=823490361610228

Arrivato di buon mattino con viaggio aereo da Roma mi recai al Centro della Città presso l’ Ufficio di Turismo Giovanile, al quale mi ero precedentemente iscritto. Mi consigliarono, o meglio mi assegnarono, una sistemazione presso una delle camerette ricavate da un barcone ancorato su una delle due rive della Vltava. Ero un giovane Medico senza grandi disponibilità economiche e senza grosse pretese. Accettai, recandomi subito a fare il check-in in quella sorta di piccolo Hotel. Attraversando Vaclavske Namesti (Piazza San Venceslao), il lungo boulevard, che ha inizio dal Narodni Museum e si biforca, poi, in due importanti arterie (una delle quali è l’elegante Na Prikopè), oltre che dai palazzi dell’antica nobiltà ceca requisiti dallo Stato e trasformati in raffinati ristoranti, rimasi incuriosito dai tanti giovani in istrada che con passo veloce, imbracciando le custodie di vari strumenti musicali, si recavano a lezione di musica. Risulterebbe noioso e ridondante elencare i percorsi (e nemmeno li ricordo tutti), riportati in qualsiasi guida turistica e rivissuti tanti anni dopo con Rosanna:Mala Strana e il Ponte Carlo, La Piazza della Città Vecchia, la Torre dell’Orologio, il Teatro Nazionale, la Cattedrale di S. Vito, e il Municipio di Praga, oltre all’impareggiabile Castello di Praga con la sua Viuzza d’oro.

Vi dirò, quindi, un po’ della mia Praga del ’78.

Uno dei miei desideri (forse perché da poco avevo finito di leggere Il Castello) fu quello di visitare la tomba di Franz Kafka, situata presso il Nový židovský Hřbitov (il Nuovo Cimitero Ebraico). In un luogo che certamente non trasmette allegria, mi venne d’immaginare che se per avventura quei feretri, quelle ossa con un sussulto si fossero anche per pochi istanti riappropriati dei propri corpi, non avrebbero potuto che gridare “Non dimenticate in quale abisso la natura umana può sprofondare”. O qualcosa di simile. E non erano solo le ombre di quelle poche centinaia di ebrei sopravvissuti alla furia dell’olocausto. C’erano anche le vittime della Resistenza alla dittatura comunista del ’68 e altri ancora: tutti quegli onesti, composti, spesso colti cittadini cechi, slovacchi, tedeschi, ebrei costretti in terra boema a lunghi anni di tirannia, nella condizione di paura e terrore che si hanno quando si è privati di libertà essenziali. Quest’immagine trasmessami dalla città di una “defenestrazione assoluta”, come l’ha appellata qualcuno, mi accorsi non poteva essere disgiunta da un’altra, simmetrica e opposta, che si ha osservando di sera Praga dalla sommità del Castello di Hradcany.

”Se guardi di lassù Praga, che accende ad una ad una le sue luci, ti senti come uno che volentieri si getterebbe a capofitto in un lago chimerico (V. Nezval)”. Ti accorgi, così, che  “il lutto cosmico, il lato misterico e l’ambiguità” di Praga non poteva avere una descrizione più appropriata e commossa di quella offerta da Ripellino nelle lunghe pagine del suo libro su Praga.

Incontrai la ragazza nel suo collegio femminile situato non lontano da una fermata della metro di Piazza della Pace. Le avevo portato come regalo un profumo italiano e l’ultimo L. P. dei Pooh, che ascoltammo insieme alle sue colleghe di stanza. Cenammo in uno dei ristoranti di Piazza San Venceslao.

Poi la riaccompagnai (era molto tardi) con la metro al collegio e mi avviai a piedi in una serata freddissima e umida verso la riva della Moldava, dov’era situata l’imbarcazione. In un silenzio abissale con la speranza, tutta giovanile, d’incontrare il Golem e i Vodnik (folletti) in una di quelle stradine, rese scivolose dalla neve caduta copiosa nei giorni precedenti e poco illuminate da lampioni, quasi ottocenteschi, raggiunsi, trafelato, la mia accogliente e calda sistemazione alberghiera. Il giorno successivo Jana venne a prendermi presto sul lungo fiume. La sera precedente avevamo concordato di concederci una gita fuori porta per recarci in autobus a Karlovi Vary, a due ore circa da Praga. Visitammo la cittadina e le Terme di Karlsbad, quasi vuote, per via della stagione. Prendemmo un gelato e ricordo ci fu qualche effusione tra di noi. Ci demmo appuntamento per un paio di giorni dopo (i cellulari erano ancora di là da venire) ad uno spettacolo, forse di mimi, che davano al famoso Teatro Laterna Magika, tuttora in funzione. Quando mi ero recato in mattinata a prenotare i due biglietti mi accadde, però, un episodio, che all’inizio, mi parve irrilevante nell’economia del viaggio, ma che, ripensandoci tempo dopo, credo non lo fu affatto. Mi si avvicinò all’uscita dal teatro un signore, minuto, sui quarant’anni che, rivolgendosi a me in francese, mi chiese con tono apparentemente “minimal” e distratto, di quale nazionalità ero, i motivi per i quali mi trovavo da solo lì in Cecoslovacchia nel mese di dicembre e il luogo dove alloggiavo (ricordo che era il 1978, dieci anni dalla brutale repressione di Praga e con l’Italia squassata dal terrorismo delle Brigate Rosse).

Insomma credo si trattasse di un poliziotto della famigerata StB della Cecoslovacchia Comunista (Státní bezpečnost). Il giorno successivo l’impiegato della ricezione dell’Alberghetto, mi comunicò, con mia sorpresa, che loro per Natale dovevano chiudere e che io avrei dovuto lasciare quella sistemazione, ma anche il Paese, in quanto non c’erano posti liberi in altri alberghi. Ebbi solo il tempo di andare nel collegio femminile, salutare Jana e cambiare il biglietto di aereo per un ritorno frettoloso e anticipato in Italia. Questo è quel che resta di un viaggio, il cui ricordo non è stato mai completamente sepolto e che, a volte, torna a galla come un rigurgito mai assorbito, come una falla mai sanata, riaffiorato grazie a quegli strani intrecci che talvolta la memoria sa offrirci.

Il vecchio Tupolev atterrò con qualche difficoltà a Fiumicino in una mattinata piovosa, illuminata dai fulmini di un temporale a ridosso di un lontano Natale. Girò per un bel po’ in alto sopra l’imbronciato cielo di Roma, con le segnalazioni luminose rosse vicino alle portiere dell’aereo che avvertivano “uscita di emergenza”, scritte in quella strana lingua. L’aereo con un’improvvisa virata, poi, finalmente si decise ad atterrare a Fiumicino sull’asfalto bagnato. Scendendo dalla scaletta, non mi sfuggì la gioia concitata con cui l’ambasciatore ceco a Roma accolse la giovane figlia seduta (per caso?) appena accanto a me durante il breve tragitto. L’esperienza di quel viaggio fu toccante: Praga si confermò ai miei occhi di una bellezza abbagliante e misteriosa. Ma di colpo mi assalì, improvviso, un insolito senso di liberazione, come di chi avesse compreso qualcosa in più della fortuna di vivere nel suo Paese. Anche in quello, allora, squassato da tensioni e drammi e quasi sull’orlo di una guerra civile.




Antonio Polichetti: viaggio nel tempo, quarta dimensione

Era un tardo pomeriggio d’Autunno e osservavo il cielo perché era davvero particolare in quel momento. Andavo un po’ di fretta per la verità, ma decisi di provare a scattare una foto perché una scena così non mi era ancora capitato di vederla. Tra le nuvole, si vedevano due occhi grandi e molto accigliati. Sembravano proprio gli occhi di Dio, per nulla contento della sua creazione, un pasticcio riuscito male questa volta: troppe ingiustizie, troppe guerre, troppa crudeltà e noncuranza verso la vita, con questi umani che sembrano rifuggire dalla ricerca di un senso più profondo nello stare su questa terra. È impossibile capire l’effetto che farebbe osservare il tutto da lassù, in un colpo solo. La natura stessa sembra tutta in collera, a momenti, quando il vento infuria e poi scoppia in un pianto a dirotto di pioggia e grandine, per rendere il dolore più freddo. Un cielo grigio può essere tremendo. Amore e nostalgie lontane si aggrovigliano tra castelli di nuvole. Poi, però, mentre guardo un fiore giallo, arriva un raggio di sole, che come un bel sorriso, scaccia l’ombra. 

Sono suggestioni, anche abbastanza comuni. Perché, se sei triste dentro, puoi esserlo anche su una spiaggia assolata davanti al mare azzurro. Il problema, per me, non è viaggiare – lo faccio pure, appena posso -, ma cercare di capire quanta energia ho per viaggiare dentro, quanto riesco a guardare con occhi diversi il posto che vedo ogni giorno – per ogni passo un ricordo, un incontro – e cercare di capire come affrontare la difficoltà dei cambiamenti, dentro e fuori di me. 
Mi capita spesso di pensare a Dio, da un po’ di tempo a questa parte. Troppe domande, nessuna risposta. Ciò che è bello, giusto, vero, cos’è e dov’è? E sarà poi questo? Cercare tracce di Dio – la fede o il sogno di migliorare come persona, di lasciare possibilità sempre aperte – questo è il viaggio che cerco di fare, l’esplorazione più difficile che abbia provato ad intraprendere. 
Parlo di viaggi che non posso fare fisicamente, dunque. I viaggi immaginativi sono quelli che amo e che , spesso, mi portano in una quarta dimensione, quella del tempo. 
Sono viaggi dove, ad un certo punto, mi sono ritrovato a colazione – molto tardi – con un sonnacchioso Baudelaire in un caffè parigino. Un’altra volta, invece, ero da qualche parte in Louisiana a fare l’autostop insieme a Jim Morrison: Los Angeles era ancora lontanissima, l’attesa lunga, ma, con la lettura di una poesia dopo l’altra, eravamo già in viaggio verso altre mete. Volevo domandargli da dove fosse riuscito a tirare fuori Light my fire, ma poi ho capito che Light my fire era proprio lì, davanti a me. Light my fire era lui. 
Un giorno – sembra ieri – ero alla Cheetham Library di Manchester e cercavo frettolosamente un panno fresco o una bevanda, una qualsiasi cosa che potesse dare sollievo. Dovevo aiutare Engels. Era appena tornato da uno dei suoi sopralluoghi. Aveva come gli occhi in fiamme per ciò che aveva visto, ma – la testa dura come la roccia – voleva mettersi immediatamente a lavoro per denunciare l’inumano sfruttamento della classe operaia in Inghilterra. E in uno di questi viaggi in quarta dimensione, mi è capitato persino di trovarmi nella stanza di lavoro di Mussolini, 1939. Sorrideva, come si fa con i bambini, nel leggere la lettera che Francesco Saverio Nitti gli aveva mandato da Parigi, dal suo esilio antifascista. Gli stava spiegando, come un vero statista sa fare, che l’ingresso dell’Italia in guerra sarebbe stato un errore tragico, una sciagura da evitare in ogni caso. Non so come, riuscii a trovare il coraggio di battere un pugno sul tavolo e di dirgli che, se non si fosse separato da Hitler, sarebbe stata la Storia a farsi beffe di lui e di tutti i suoi ripugnanti servi propagandisti, pronti a gridare alla guerra senza mai doverci andare davvero. Gli dissi che, ancora una volta, i padri avrebbero seppellito i propri figli, che sarebbe stata la rovina per tutti noi e per le generazioni a venire. Non so come andò a finire. Devo essermi risvegliato altrove. Ma fu un viaggio inutile, come altri che non vale la pena richiamare. 
Poi ricordo anche di quando rincorrevo Ernesto “Che” Guevara e Alberto Granado, la neve di Val Paraiso tutta addosso. Non avevo la vecchia Poderosa come loro. Erano troppo avanti in ogni caso, ma le loro tracce sono sempre così vive, per quanto tanti cerchino di cancellarle. Da lì, mi è venuto in mente Troisi e il suo Postino e, sempre in Cile, iniziai a cercare Pablo Neruda. Anche io volevo parlare con lui di amore, di poesia e degli occhi della più bella. Per lei ho perso la testa, tempo fa. In un altro viaggio, ho lasciato tutto di colpo e sono corso da lei per dirglielo ancora una volta, per trovare il modo di farglielo capire, veramente. E ancora una volta, mi mancava quasi la voce e il cuore batteva forte. 
In questo cuore si muovono tante cose, nella quarta dimensione del tempo, dove tutto si fonde e niente resta fermo. In questo viaggio non ci sono mete da raggiungere, niente è stabilito una volta per tutte e ogni volta ho la possibilità di ricercare il senso possibile di tante cose nello stesso percorso mutevole. E sono con me tutti i maestri che ho incontrato, tutti coloro che, da quando ero un bambino fino ad oggi, mi hanno insegnato qualcosa, che mi hanno fatto crescere. Loro sono qui con me e lo saranno sempre. 

Questo è il mio viaggio, o meglio, il mio sogno di viaggio e desiderio inesprimibile

“Il desiderio inesprimibile
che mai vita né terra esaudirono, 
ora tu, viaggiatore, 
salpa e va’ a cercarlo,
va’ a trovarlo” .

(Walt Whitman) 




Geoteo

“Sei è un numero perfetto di per sé, e non perché Dio ha creato il mondo in sei giorni; piuttosto è vero il contrario. Dio ha creato il mondo in sei giorni perché questo numero è perfetto, e rimarrebbe perfetto anche se l’opera dei sei giorni non fosse”  (Sant’Agostino”)

Nella mente di tante persone, compresi moltissimi miei amici, la matematica è la più feroce nemica della poesia, della letteratura, della filosofia, della teologia; i  numeri e le figure geometriche sono l’acqua che spegne il fuoco dell’ immaginazione e delle emozioni.
Cosa c’è di più arido in una concatenazione logica che da scarne ipotesi approda a risultati numeri primi, rette parallele etc.etc.?” mi disse una volta un mio quasi-amico poeta i cui versi sciolti erano per la verità abbastanza brulli.
Purtroppo nelle scuole secondarie italiane e nell’università vige ancora la sprezzante dittatura di Croce per cui Cartesio è solo il cogito ergo sum ma non l’inventore della geometria analitica e Leibniz è il filosofo delle monadi, senza lenessun legame di queste entità al concetto di  differenziale, la base della matematica moderna.
Come si fa a studiare questi due personaggi solo come filosofi, senza entrare nei dettagli della loro produzione matematica? Farlo, vuol dire imbrogliare i malcapitati studenti, vuol dire privarli di una cultura filosofica e scientifica che deve andare di pari passo, e che non può essere offerta monca.

Per il momento non voglio tirarla per le lunghe e mi piace sottolineare solo che sant’Agostino sapeva che 6 è il primo numero perfetto (perché somma dei sui  fattori cioè: 6=1x2x3 e 1+2+3 fa proprio 6) e poi citare qui passi della Divina Commedia in cui Dante si serve della geometria per farci partecipare alla sua visione di Dio.
Ho trovato tutto ciò nel libro Dante e la geometria di Bruno D’amore.
Non a caso, anche se non mancano riferimenti matematici nelle prime due cantiche, non a caso proprio nel Paradiso il rapporto  fra il divino e la geometria euclidea si fa strettissimo.

“Un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.” (Par. XXVIII, 16-21)

“O cara piota mia, che sì t’insusi,
Che come veggion le terrene menti
Non capere in triangol due ottusi,
Così vedi le cose contingenti
Anzi che sieno in sé, mirando il punto
A cui tutti li tempi son presenti” (Par. XVII,

13-18)

« …Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto… » (Par. XIX, 40-42)

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affigge
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a q uella vista nova;
veder volea come si convenne
l’imago al cerchio e come vi si indova” (Par. XXXIII, 133-138)

Chi è interessato troverà facilmente l’ermeneutica di questi versi in rete.

P.S. Piccola nota personale:
Una volta Alfonso mi chiese: “Come mai ti piace scrivere racconti ed altro, visto che sei un matematico?” e la mia risposta fu “Perché ho studiato Matematica